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Commenti di Mauro Biani

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    Altra Informazione, Blog, Comitati di Lotta, Cronache di Lavoro, Cronache Politiche, Cronache Sindacali, Cronache Sinistra Europea, Cronache Sociali, Culture, Politiche di Rifondazione, sanità e salute, Storia e Lotte — Marzo 29, 2020 9:49 am

    In effetti, anche se sembra affermarsi il concetto secondo il quale si tratterebbe di due diversi termini per indicare la stessa cosa, a parere di numerosi esperti, non è così. Quanti lavorando in questa nuova e più moderna modalità sono costretti a lavorare dalla mattina financo alle 23 di sera?

    Smart working e/o “Lavoro agile”

    Pubblicato da franco.cilenti

    Ci sono termini e neologismi che, legati a particolari avvenimenti, finiscono con il restare indissolubilmente impressi nella memoria collettiva.
    In questo senso, così come parlare di “beat generation” equivale a un immediato salto all’indietro di oltre mezzo secolo, legato a un desiderio di libertà e alla (anche feroce) contestazione di schemi sociali che apparivano precostituiti, in futuro, quando questi mesi (speriamo pochi) di involontaria “clausura”, dovuti al dilagare del Covid-19, saranno solo un ricordo, non potremo fare a meno di associarli a un termine oggi molto in voga; del quale molto si parla ma, in sostanza, poco si conosce: “Smartworking”.
    La conferma (della scarsa conoscenza) viene dall’uso molto disinvolto dello stesso; spesso associato a quello di “telelavoro” e/o considerato sinonimo di “lavoro agile”, quando non, addirittura, assimilato al “lavoro a domicilio”.
    Innanzi tutto è utile sgombrare subito dal campo quest’ultimo che poco ha a che vedere con gli altri.
    In quello a domicilio, infatti, il lavoratore, non necessariamente o esclusivamente legato da un vincolo di subordinazione, esegue presso il proprio domicilio o in un locale del quale abbia disponibilità un lavoro retribuito per conto di uno o più imprenditori; utilizzando materie prime, accessorie e attrezzature proprie o dell’imprenditore.
    Al riguardo, affinché alla prestazione lavorativa possa riconoscersi il carattere della subordinazione è necessario che il lavoratore a domicilio esegua i suoi compiti “analoghi e/o complementari a quelli eseguiti nell’azienda, sotto le direttive dell’imprenditore”, sia sottoposto al “potere di controllo del datore di lavoro” e in modo esclusivamente “personale”, cioè senza un’organizzazione di persone alle proprie dipendenze.
    Questa modalità lavorativa prevede specifiche limitazioni, come nel caso di attività che comportino l’utilizzo di sostanze o materiali nocivi o pericolosi per la salute che non possono essere svolte in casa ma in luoghi resi sicuri.
    Il telelavoro, invece, così come definito dal sito web PMI.it, rappresenta, in estrema sintesi, una “modalità lavorativa per lavoratori dipendenti e autonomi attraverso la quale il lavoratore presta la propria opera in maniera indipendente dalla localizzazione geografica dell’ufficio o dell’azienda. Ciò avviene, in ambienti che rientrano nella disponibilità del lavoratore quali, ad esempio, il suo alloggio e “grazie all’utilizzo di strumenti informatici e telematici forniti a cura del datore di lavoro”.
    In sostanza, le modalità attraverso le quali si svolge il telelavoro rappresentano la “smaterializzazione del posto di lavoro” inteso come e tendono a ricalcare, in maniera più o meno rigida, l’organizzazione del lavoro e le modalità di controllo, da parte del datore di lavoro, tipicamente utilizzate nel classico luogo di lavoro.
    Nel nostro Paese il telelavoro prestato nella P.A. è attualmente disciplinato dal DPR 08/03/1999 nr. 70, mentre quello relativo al settore privato non è ancora disciplinato dalla legge ma rappresenta una realtà presente in molti accordi. Il suo riferimento è costituito da un Accordo interconfederale, siglato il 9 giugno 2004, grazie al quale venne estesa ai telelavoratori la stessa tutela che spetta ai lavoratori “tradizionali”; specialmente riguardo la salute e la sicurezza. Di regola il datore di lavoro è responsabile della fornitura, dell’installazione e della manutenzione degli strumenti necessari alla prestazione lavorativa; i carichi di lavoro e i tempi della prestazione devono essere equivalenti a quelli dei lavoratori che svolgono la loro opera all’interno dei locali dell’azienda.
    La scelta dell’adesione alla diversa modalità della prestazione lavorativa è demandata alla volontà del lavoratore e del datore di lavoro; così come la sua revoca.
    Requisiti indispensabili sono la regolarità dell’esecuzione della prestazione (uno o più giorni alla settimana o al mese) e il ricorso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT).
    È interessante rilevare che, nel tempo, la nozione di telelavoro ha già finito con il comprendere parecchie accezioni. Tra queste, il già menzionato telelavoro “domiciliare”, attraverso il quale il lavoratore comunica con l’azienda tramite computer, telefono, fax o altri strumenti telematici; il telelavoro “da centro satellite”, quando la prestazione lavorativa viene fornita presso una sede appositamente creata dall’azienda, con la possibilità, per i lavoratori, di collegarsi alla centrale attraverso un computer aziendale; il telelavoro “mobile” se la prestazione si svolge attraverso un computer portatile e/o altre apparecchiature telematiche mobili (palmari, ecc); il telelavoro “da tele centri”, cioè svolto in appositi spazi creati da un consorzio di aziende e il lavoro “remoto”, cioè quello svolto da più persone che si trovano in luoghi diversi, ma collegate tra loro.
    Negli ultimi anni si sono succeduti, anche in Italia, quasi esclusivamente nelle grandi aziende, nuovi modelli di organizzazione del lavoro sempre più tesi a velocizzare i processi e migliorare le prestazioni lavorative; senza dimenticare la possibilità di offrire maggiori vantaggi ai datori di lavoro – in particolare, in termini di tagli alle spese e aumento della produttività – e ai lavoratori (ancora tutti da valutare appieno, in termini di migliore conciliazione dei tempi di lavoro con le esigenze personali e familiari).
    Al riguardo, la terminologia è abbastanza vasta, ma è opportuno limitarsi alle definizioni più ricorrenti.
    È il caso dello “Smart working” e/o del c.d. “Lavoro agile” (agile working).
    In effetti, anche se sembra affermarsi il concetto secondo il quale si tratterebbe di due diversi termini per indicare la stessa cosa, a parere di numerosi esperti, non è così.

    In questo senso, è interessante riportare che l’art. 18 della Legge 22 maggio 2017, nr. 81, definisce il Lavoro agile “quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici”. E ancora: “La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro solo i limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale”.
    Ma perché i due termini non sono sinonimi?
    Alvaro Busetti, ad esempio, esperto di intelligenza artificiale, digital workplace e office automation, fa riferimento, a proposito dello Smartworking, a due documenti dello “Chartered Institute of Personnel and Development” (CIPD), risalenti al 2008, in cui si riscontra l’emergere di un nuovo modo di organizzare il lavoro definito appunto “smart working”. Nel primo documento s’individua nello smart working “Un approccio all’organizzazione del lavoro che mira a promuovere una maggiore efficienza ed efficacia nel raggiungimento dei risultati”.
    Nel secondo vengono descritte quattro aree di particolare interesse, sulle quali intervenire, per rendere operante una modalità di lavoro intelligente. In estrema sintesi, si fa riferimento a: 1) valori di gestione aziendale, 2) pratiche di lavoro, 3) innovazioni dell’ambiente fisico di lavoro e 4) ricorso alla tecnologia.
    “Solo nel 2014”, aggiunge Busetti, “lo stesso CIPD pubblicò un rapporto in cui compariva la definizione di , in riferimento alla flessibilità dei ruoli e nel reperimento di risorse esterne all’azienda”.
    In definitiva, così come sostiene anche “Valore D”, in una pubblicazione del 30 luglio 2018, l’Agile working “è un’ulteriore evoluzione dello smartworking”: si tratta, in sostanza, di: “una pratica che nasce nell’ambito della tecnologia dell’informazione (IT) e che prevede la revisione dell’organizzazione aziendale al fine di creare team multidisciplinari perché, venendo meno le strutture gerarchiche, è compito dei singoli gruppi portare avanti un progetto, valutarne lo stato di avanzamento e gli eventuali margini di miglioramento; abbattendo la tradizionale divisione gerarchica aziendale”.
    Se ne deduce, quindi, l’evidente differenza con quanto, invece, definito attraverso gli artt. 18, 19, 20, 21, 22, e 23 della legge 81/2017.
    Intanto, in queste settimane, l’emergenza Covid-19 ha costretto tanti lavoratori a passare tutti rapidamente a quello che viene definito smartworking ma, in realtà, è un telelavoro.
    A tale proposito, reputo opportuno riportare la testimonianza di Maria Vittoria Mazzarini, esperta di smartworking di Methodos (società specializzata nelle strategie aziendali del cambiamento), la quale, in un’intervista, afferma:” alla base del lavoro agile (intendeva, evidentemente, riferirsi allo smartworking) c’è la libertà. Libertà di scegliere di lavorare nelle modalità, tempi e posti più funzionali al raggiungimento degli obiettivi. Quindi l’imposizione forzosa ne snatura l’essenza”. E aggiunge: “Se ci si trova di punto in bianco proiettati in una dinamica di lavoro a distanza, non è detto che la situazione sia tanto smart (intelligente): processi non definiti, tecnologie non note o che fanno le bizze, poca dimestichezza con gli strumenti. Inoltre il smartworking non è mai 7 giorni su 7 e nemmeno è la forma prevalente”.
    E conclude: “La convivenza forzata a casa non è così smart!”
    La stessa Mazzarini rileva che quello che oggi stanno vivendo alcune centinaia di migliaia di lavoratori “è, in sostanza, telelavoro, senza confonderlo con lo smartworking che in Italia è adottato – con soddisfazione reciproca – dal 58 per cento delle grandi imprese, dal 18 per cento delle PMI e dal 16 per cento nella pubblica amministrazione”.
    Altro genere di questioni sono quelle relative alle note positive e/o negative – per le aziende e, per quanto di personale interesse, per i lavoratori – prodotte dal ricorso a tali nuove modalità di lavoro.

    smart-working-aziende2

    NOTE

    [1]Fu dopo la tragedia del Vajont,del 9 ottobre 1963, che il termine “tracimare” entrò a fare parte del lessico comune

    [2]Sentenza della Corte di Cassazione del 14/06/2017 nr. 14760

    [3]Sentenza della Corte di Cassazione del 23/09/1998 nr. 9516

    [4]Sentenza della Corte di Cassazione nr. 1361/1993

    [5]Art. 2 della legge 877/73

    [6]Il DPR in questione è il regolamento attuativo a cui l’art. 4 della legge 191/98 aveva affidato la disciplina delle modalità organizzative del “lavoro a distanza”

    [7]In seguito all’Accordo Quadro europeo, siglato a Bruxelles il 16 luglio 2002, che le parti sociali avevano stipulato raccogliendo l’invito della Commissione delle Comunità Europee in tema di modernizzazione e miglioramento dei rapporti di lavoro

    [8]Fonte: “Istituzioni di Diritto pubblico: Il telelavoro nelle P.A.”, di Gian Piero Iaricci, pagg. 802 e 803, Maggioli Editore, 2014

    [9]La traduzione (letterale) del termine inglese corrisponde a “lavorare in modo intelligente” e non a “lavoro intelligente”

    [10]Fonte: “Linked.it” del 3 marzo 2016

    [11]Network di oltre 200 aziende associate

    [12]Fonte “Donna Moderna news” del 10/03/2020

    Renato Fioretti
    Esperto Diritti del Lavoro

    Collaboratore redazionale del periodico cartaceo Lavoro e Salute www.lavoroesalute.org

    28/3/2020

    Tags: cgil diritti del lavoro lavoro agile Maria Vittoria Mazzarini Maurizio Landini Produzioni essenziali renato fioretti smart working
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    Autore: franco.cilenti
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