IL ROGO DELLA THYSSENKRUPP OTTO ANNI DOPO

E’ passata quasi inosservata nei giorni scorsi la notizia della conclusione di un altro grado del giudizio penale a carico dei dirigenti della ThyssenKrupp: una nuova sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Torino ha disposto una ulteriore riduzione delle pene stabilite in primo grado e già ridefinite per intervento della Cassazione. Così, come troppo spesso è già accaduto, anche in questo caso si ripropone quindi un insopportabile scenario: decantata l’iniziale emozione destata dalla brutalità dei fatti, le responsabilità vengono via via ridimensionate se non addirittura cancellate. Anche l’orrore di morti così atroci può essere archiviato ed il potere imprenditoriale rimane comunque protetto ed immune da gravi conseguenze.

Per questo, oggi più che mai è allora necessario ricordare che in quella tremenda notte del 6 dicembre 2007 non è avvenuta una calamità naturale, un caso fortuito o un evento imprevedibile. Si è verificata invece una tragedia cinicamente messa in conto dalla dirigenza aziendale che ha scelto di non intervenire né sulla chiusura, né sulla messa in sicurezza di un impianto fatiscente, solo per preservare i margini di profitto dell’impresa. Eppure tutto ciò era stato chiaramente accertato in prima istanza dalla Corte d’Assise di Torino che, con una esemplare sentenza (vedi qui), aveva fatto piena luce sulle gravissime responsabilità degli imprenditori, a partire dall’amministratore delegato Harald Espenhahn, che con il solo obiettivo del profitto avevano messo in preventivo, tra i possibili costi, anche la vita degli operai.

La tedesca ThyssenKrupp, tra l’altro, non è nemmeno un soggetto marginale nel panorama economico mondiale: è la più importante azienda europea del settore siderurgico, un grande gruppo societario che controlla anche la Acciai Terni e che aveva acquistato, sin dal 1994, anche le acciaierie di Torino già gestite in passato dalla Fiat Ferriere.

Nel 2007, per ragioni strettamente economiche, l’azienda aveva già deciso di non effettuare più investimenti sui reparti produttivi di Torino e di trasferirli a Terni. Ma nel frattempo, pur non curando più la manutenzione e la sicurezza degli impianti (e riducendo sempre più il personale) li manteneva in attività per ragioni dettate esclusivamente dalla propria convenienza economica. Il mancato adeguamento della prevenzione antincendi (di fondamentale importanza in un’acciaieria) derivava quindi esclusivamente dalla decisione di chiudere lo stabilimento e non volere sprecare somme in infrastrutture destinate ad essere dopo breve tempo inutilizzate. La direzione era quindi ben consapevole non solo delle condizioni in cui si trovava in quel periodo lo stabilimento di Torino, ma anche dei frequenti incendi che vi si verificavano – anche sulla stessa Linea 5 che sarà poi il luogo della tragedia – ma tutto ciò non scalfiva la sua pianificazione.

La decisione di continuare la produzione a Torino aveva comunque un contenuto economico vantaggioso per l’azienda: significava infatti contenere i danni derivanti da un blocco totale della produzione, programmando il trasferimento dell’impianto nel momento produttivo più favorevole. Avveniva così che si verificavano incendi che solo per circostanze fortunose non causavano vittime; gli operai lavoravano tra pozze di olio ed accumuli di carta oleata, la manutenzione era più che “carente”, la mancanza di formazione del personale pressochè totale, insieme al continuo spostamento sui vari impianti per carenza di organico.

In base a questi accertamenti, la Corte d’Assise che giudicò in prima istanza ritenne che c’era un chiaro nesso di causalità tra le violazioni delle norme sulla prevenzione degli infortuni e degli incendi e il disastro che nella notte del 6 dicembre 2007 provocò la morte dei sette lavoratori. Emergeva tra l’altro che lo stabilimento di Torino, pur rientrando nell’ambito delle industrie “a rischio di incidente rilevante” era persino sprovvisto del certificato di prevenzione incendi.

Di qui l’addebito ai dirigenti della Thyssen non solo di avere agito colposamente, ma anche di avere agito “nonostante la previsione dell’evento, essendosi rappresentati la concreta possibilità del verificarsi di infortuni anche mortali“, essendo certo che:

  • la Linea 5 dello stabilimento di Torino, costituiva un luogo ad “elevato rischio incendio“;
  • lo stabilimento di Torino rientrava nell’ambito delle industrie “a rischio di incidente rilevante” ed era, al momento dei fatti, sprovvisto del certificato di prevenzione incendi;
  • mancava una “adeguata e completa valutazione del rischio incendio“;
  • mancava una “effettiva organizzazione dei percorsi informativi e formativi nei confronti dei lavoratori“;
  • mancava “un sistema automatico di rivelazione e spegnimento degli incendi” soprattutto sulle linee di ricottura e decapaggio come la ormai famigerata Linea 5;
  • tali misure di prevenzione erano rese “ancor più necessarie per la situazione che si era creata a causa della disposta chiusura dello stabilimento, che aveva determinato la drastica riduzione del numero dei dipendenti ed il venir meno delle professionalità più qualificate“;

Per questo è stato riconosciuto che la direzione aziendale si era chiaramente rappresentata “la concreta possibilità del verificarsi di infortuni anche mortali sulla Linea APL 5 di Torino” e che aveva accettato “il rischio del loro verificarsi “.

Ciò rendeva l’omicidio plurimo non semplicemente colposo, ma volontario perché preventivamente previsto ed accettato come conseguenza possibile di una realtà di fatto ben nota e sulla quale si era deliberatamente deciso di non intervenire. Le pesanti condanne che su questa base sono state quindi inflitte in primo grado dalla Corte d’Assise, qualificando i reati come omicidio volontario dei sette operai, sono state però ridotte nei successivi gradi di giudizio, dapprima derubricando il reato come omicidio colposo secondo la definizione fatta propria dalla Corte di Cassazione, ed oggi riducendo ulteriormente le condanne ai dirigenti che – di fatto – non hanno ancora scontato nemmeno un giorno di detenzione. Un ulteriore segnale della drammatica involuzione nella considerazione non solo dei diritti, ma anche delle vite di chi lavora, ridotte a un mero costo della produzione che deve comunque perseguire i propri profitti, con la protezione e la benevolenza dello Stato.

Vite in carne ed ossa come quelle così cinicamente distrutte nel dicembre 2007 di Antonio SCHIAVONE, nato il 20.9.1971; Roberto SCOLA, nato il 2.9.1975; Bruno SANTINO, nato il 2.5.1981; Angelo LAURINO, nato il 16.8.1964; Rocco MARZO, nato il 28.11.1953; Rosario RODINO’, nato il 30.10.1981; Giuseppe DE MASI, nato il 18.3.1981.

Anche in loro nome, non ci rassegneremo a questo.

Pietro Antonuccio

7/6/2015 www.lacittafutura.it

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *