A CHE PUNTO SIAMO DOPO 15 MESI DI PANDEMIA

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Come già affermato, anche su questa rivista, la pandemia ha messo allo scoperto l’estrema fragilità del nostro Servizio Sanitario nazionale (SSN), provato da anni di definanziamento, estese privatizzazioni, depotenziamento – quando non abbandono – del territorio e delle cure primarie, mancanza di prevenzione, regionalizzazione spinta.
Ciò si è espresso nella forte riduzione della spesa sanitaria pubblica pro-capite, ben sotto la media OCSE ($ 2.622 vs $ 2.868), che ci colloca a livello degli ultimi paesi europei, ben lontani da paesi come la Francia – $4.068, +35% – o la Germania – $4.869, + 45% – quasi il doppio (1). La compressione della spesa sanitaria pubblica ha causato un forte calo del personale – infermieri, medici di base, igienisti, specialisti e varie altre figure professionali – nell’ordine di decine di migliaia, mancanza di posti letto e mancato rinnovo delle tecnologie. Sono emerse inoltre carenze produttive essenziali di dispositivi di protezione individuale, mascherine, materiale di laboratorio, respiratori etc.

La pandemia ha inoltre messo in luce i guasti della regionalizzazione, introdotta dalla modifica del Titolo V nel 2001, che ha, di fatto, anticipato il decentramento pressoché completo della competenze legislative ed organizzative previsto dall’Autonomia Differenziata, ed ha contribuito non poco alla frammentazione e rovina del sistema sanitario, soprattutto al Sud e in alcune regioni come Lombardia e Piemonte. Ha comportato inoltre che gli stessi organi centrali, in primis il Ministero della salute, siano stati progressivamente svuotati e privati della loro stessa ragion d’essere – la programmazione e l’elaborazione delle politiche sanitarie – per diventare una succursale del Ministero dell’Economia e delle Finanze che decide su spese e finanziamenti in sanità.

L’impatto della pandemia sui servizi sanitari già in crisi è stato devastante: se essi hanno tenuto ciò è avvenuto solo grazie alla resistenza e al sacrificio degli operatori sanitari, proprio coloro su cui di più si era abbattuta la scure dei tagli. Mentre ciascuna regione andava per conto proprio, il governo non è stato in grado di dare un indirizzo unitario e di contrastare la disorganizzazione delle regioni: solo il lockdown totale del 9 marzo ha protetto le regioni centro-meridionali.
Inadeguatezza e insipienza sono proseguite nel periodo estivo del 2020 quando l’epidemia “sembrava” scomparsa. Era questo il momento per prepararsi alla prevista nuova ondata autunnale: rafforzare il territorio e la rete dei laboratori, procurare materiali e strumentazione per organizzare il tracciamento, costruire percorsi separati, assumere e formare personale. Incredibilmente ciò non è stato fatto per cui, anche la seconda ondata è sfuggita di mano, il virus ha cominciato a dilagare, a questo punto in tutta Italia, l’epidemia non si è più arrestata, ha subito solo rallentamenti a seguito di chiusure parziali e intermittenti, applicate a singole e diverse regioni, in un tira e molla continuo tra queste e il governo.
Dopo quasi 15 mesi, l’epidemia sta rallentando, con la riduzione, sia dei nuovi casi sia dei decessi e con un alleggerimento della pressione sugli ospedali e sulle terapie intensive. Ma già si vedono segnali di aumento della circolazione del virus, facendo paventare una ripresa della diffusione, come il mondo scientifico temeva quando, due settimane fa, si decise, sotto la forte pressione di confindustria e di altre categorie, di procedere con le riaperture.
Sul fronte vaccinale, dopo una partenza lentissima, si è ormai oltre le 400 mila vaccinazioni giornaliere. Anche per tale aspetto le regioni non si sono adeguate alle direttive centrali e si sono mosse in ordine sparso sotto la pressione delle diverse corporazioni, (magistrati, polizia, professori, insegnanti, servizi cosiddetti ‘essenziali’), per cui la somministrazione non ha rispettato del tutto le fasce di età e le categorie più fragili e vulnerabili. Allo stato attuale, quasi 1/3 della popolazione ha ricevuto almeno una dose di vaccino, con modeste differenze regionali.
Seppure in ritardo, si va verso una discreta copertura degli over 80, mentre pesa ancora sui ricoveri ospedalieri la fascia 60-69. Pochi sono invece i dati sui soggetti fragili.
La carenza di cure a livello territoriale e il ritardo nelle vaccinazioni della classi di età più esposte e fragili spiega la persistente elevata letalità. Il massimo della disfunzione si è avuto, ancora una volta, in Lombardia.

Sanità e salute per i pazienti non-Covid presentano un bilancio estremamente negativo: ambulatori chiusi, visite rinviate, prestazioni non erogate, diagnosi non fatte. Anche gli screening diagnostici sono quasi ovunque saltati.

. Oltre il 50% dei pazienti ha dovuto rinunciare alle cure, con percentuali anche superiori in alcune regioni – Lombardia (58,6%), Piemonte (48,5%), Liguria (57,7%), Emilia Romagna (52,2%). La rinuncia ha riguardato soprattutto le donne.

. Il 20-30% di trattamenti oncologici sono stati ritardati o annullati, mentre molti casi sono arrivati all’osservazione in stato ormai avanzato;

. La mortalità per cause non COVID ha riguardato il 40% dei dati di mortalità in eccesso – con circa 19 mila morti in più nel solo periodo Marzo-Aprile 2020,

. Vi è stato un calo degli afflussi ai PS e alle Unità Coronariche di pazienti con infarto.

. La speranza di vita alla nascita (dati ISTAT), è calata in media di quasi 1 anno (da 83,2 a 82,3 anni), con forte variabilità regionale e riduzione più marcata al Nord (da 83,6 a 82,1), seguito da Centro (da 83,6 a 83,1) e Mezzogiorno (da 82,5 a 82,2). La Lombardia ha perso quasi 2 anni e mezzo.

NB: L’eccesso di morti non-Covid, negli altri paesi europei si è verificato in misura nettamente minore o addirittura non si è avuto.

In tutto questo tempo non sono stati assunti provvedimenti strutturali, organici e idonei a contrastare il diffondersi della pandemia e a prevenire nuove ondate:

Le regioni hanno agito in modo assai diversificato, scarsa è stata la collaborazione con lo Stato, pochi gli interventi strutturali sul territorio, gli operatori sono stati assunti con contratti precari e al di sotto delle necessità.

Nessun intervento è stato fatto sul sistema dei trasporti pubblici locali, che hanno continuato ad essere veicoli di contagio per lavoratori, studenti e persone costrette a utilizzarli.

Si sono individuate le scuole come problema, quando il nodo era nei trasporti, per cui scuole superiori e università hanno subito la sostanziale chiusura per due anni scolastici mentre quelle dell’obbligo hanno subito chiusure frequenti e spesso continuate. Ciò ha prodotto un aumento del 30-40% del disagio psicosociale tra bambini e adolescenti, mentre nella DAD a pagare il prezzo più alto sono stati gli alunni più fragili, poveri, migranti, bambini, ragazzi e ragazze dei quartieri disagiati. Non sono stati programmati, e tanto meno realizzati, interventi per superare l’annoso problema delle classi pollaio.

Attività produttive e imprese, di fatto, non hanno mai smesso di funzionare, fatta eccezione per quelle appartenenti ai settori/servizi colpiti dai provvedimenti di chiusura e distanziamento.

Nonostante l’attenzione riservata al PIL più che alla salute, la situazione economico-sociale dell’Italia è tra le più gravi, destinata ad aggravarsi quando tra pochi mesi, saranno sbloccati i licenziamenti.

. Sono venute allo scoperto le carenze storiche del sistema italiano: fragilità dell’imprenditoria, arretratezza tecnologica, disparità territoriali, debolezza infrastrutturale, carenze produttive in campi essenziali (vedi DPI e respiratori), politiche del lavoro errate, povertà e disoccupazione con la perdita di oltre 900.000 posti di lavoro.

. Il 45 % delle imprese è a rischio. Si tratta d’imprese che operano in settori a basso contenuto tecnologico e di conoscenza: legno (79,7%), costruzioni specializzate (79,7%), alimentari (78,5%), abbigliamento (73,2%), turismo (59,2% interno e 74,7% estero) e attività correlate, manifestazioni artistiche e intrattenimento (oltre 60%), assistenza sociale non residenziale (circa 60%), trasporto aereo (59%), ristorazione (55%) servizi per la ristorazione (95,5%), servizi per edifici e paesaggio (90%), servizi alla persona (92,1%), attività sportive.

. Si salvano invece le imprese di medie e grandi dimensioni, che hanno subito pochissime restrizioni e, quasi ovunque, hanno continuato a produrre senza vincoli. Per queste la produzione industriale è in crescita (Eurostat, marzo 2021): sono queste che hanno assorbito il 70% dei sussidi, mentre il restante 30% è stato usato per tamponare in qualche modo la disperazione sociale.

. La povertà ha fatto un balzo in avanti registrando, secondo i dati Istat 2020, un milione di nuovi poveri, che sono arrivati a 6 milioni. Tra questi, quasi un milione mezzo sono bambini. Si tratta in prevalenza di lavoratori in nero, precari, senza forme di ammortizzazione sociale. Ma non è finita perché molte attività non riapriranno, ponendo un grosso problema di ristoro delle centinaia di migliaia di persone che resteranno senza reddito alcuno.

. Le conseguenze della crisi sono state scaricate soprattutto sulle donne, le prime ad aver perso il posto di lavoro e a doversi far carico del lavoro di cura familiare in condizioni di disagio economico e di aumento della violenza domestica.

. La crisi sta accentuando il divario tra le aree geografiche: in sei regioni il tessuto produttivo risulta ad alto rischio: cinque appartengono al Mezzogiorno, (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania e Sardegna) e una al Centro (Umbria) mentre le sei a rischio basso sono tutte nell’Italia settentrionale (Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Provincia autonoma di Trento). Si tratta delle regioni con un’economia specializzata nelle attività più colpite dalla recessione.

Eppure poteva andare diversamente. nel mondo, dove lo Stato, ha esercitato un ruolo diretto nel contrasto alla pandemia, essa è stata contenuta con risultati eccezionali: a Cuba, i decessi sono stati 675 su 11 milioni di abitanti, a Taiwan 12 su 23 milioni, in Vietnam 35 su 96 milioni, in Cina 4846 morti su una popolazione di 1,4 miliardi.
Si dirà che in questi paesi vi è un regime autoritario, ma anche in paesi con contesti economici e politici simili al nostro, la scelta di mettere la salute e non il PIL davanti a tutto è stata vincente. Ce lo dice uno studio pubblicato sulla rivista Lancet (2) che ha messo a confronto i paesi OCSE, che hanno appunto adottato la strategia “Covid free”

. Australia, Corea del Sud, Islanda, Giappone e Nuova Zelanda – con quelli, come noi, che hanno scelto la strategia della mitigazione: ebbene, i risultati sono sorprendenti:

. Riguardo la salute pubblica, i decessi per milione di abitante sono stati di 25 volte inferiori a quelli registrati nel gruppo degli altri Paesi;

. Riguardo all’economia, nel gruppo dei paesi “Covid free” la crescita del PIL è tornata ai livelli pre-pandemia già nel gennaio 2021, mentre permane negativa per il gruppo degli altri Paesi;

. Infine, per quanto riguarda le restrizioni alle libertà personali e sociali, sono state adottate misure di lockdown totale ma rapido, molto più brevi di quelle adottate dagli altri paesi.
In conclusione, laddove è stata messa al primo posto la tutela della salute si è riusciti a tutelare la vita degli abitanti e, contemporaneamente, si è evitato il crollo del sistema economico, mentre laddove le scelte sono state orientate dal mercato, dal PIL e dai grandi interessi economico-finanziari si è registrato il fallimento su tutti e tre i versanti.

Questo naturalmente sui nostri media è difficile da trovare.

L’uscita da crisi è affidata al PNRR – Piano Nazionale di Resilienza e Resistenza, 235 miliardi per l’Italia che si compone di sei “missioni” – digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura, rivoluzione verde e transizione ecologica, infrastrutture per una mobilità sostenibile, Istruzione e ricerca, Inclusione e coesione, salute.

Il Piano è fondamentalmente orientato a crescita, concorrenza, competizione, produttività e non ad una reale conversione sociale ed ecologica della produzione. Non contempla neppure il superamento delle forti disuguaglianze, povertà, arretratezze economiche e sociali che caratterizzano il paese, soprattutto al Sud. Prevede comunque interventi per una modernizzazione ecologica perché l’esaurirsi del capitale ambientale/naturale pone a rischio lo stesso modello di produzione capitalistica che si alimenta pur sempre dalla natura oltre che dalla forza lavoro. Ed infatti:

. Molte risorse sono destinate a progetti di mobilità già esistenti, ad esempio nuove vie ad alta velocità, ma pochissimo al trasporto pubblico a zero emissioni, ai treni locali e regionali e ad interventi per ridurre la mobilità privata e per la sicurezza stradale. Di nuovo pochi sono gli investimenti per il Centro-Sud.

. Riguardo all’economia, nel gruppo dei paesi “Covid free” la crescita del PIL è tornata ai livelli pre-pandemia già nel gennaio 2021, mentre permane negativa per il gruppo degli altri Paesi;

. Non si conferma l’obiettivo europeo della riduzione del 55% al 2030 delle emissioni da gas climalteranti e nemmeno quello della fuoriuscita in tempi rapidi dall’utilizzo delle risorse fossili. Si si conferma il ricorso all’uso massiccio del gas per la riconversione delle centrali a carbone.

. Insufficienti sono le proposte per affrontare il dissesto idrogeologico, la difesa del territorio, delle risorse idriche e dell’intero ecosistema e per riforestare aree urbane ed extraurbane.

. Gli investimenti per scuola e istruzione sono correlati alle esigenze del mercato e delle imprese.

. Alla ricerca sono riservate le briciole: prevede di investire solo lo 0,6 % del PIL (finora 0,5), a fronte dello 0,75 della Francia e l’1 della Germania, che però stanno rilanciando. Il sottofinanziamento va a colpire la ricerca di base, quella cioè che favorisce il progresso scientifico, la creatività e l’innovazione. Si continua a privilegiare invece la ricerca finalizzata delle imprese private. Silenzio sull’assunzione di ricercatori.

PNRR e salute. Si prevedono 20 miliardi, assolutamente insufficienti e assai distanti dalla stima di circa 65 miliardi formulata nel 2020 dallo stesso Ministero della Salute. Una parte, 7,9 miliardi è destinata all’assistenza socio-sanitaria territoriale, per cure di prossimità, assistenza domiciliare e telemedicina, con l’attivazione di 1.288 Case di Comunità e 381 Ospedali di Comunità. Il restante, 11,8 miliardi, va a digitalizzazione, ammoder-namento tecnologico e sicurezza degli ospedali. Su tale scelta si sono appuntate le critiche di molti osservatori.

. La previsione delle Case e Ospedali di Comunità, se si considera che il Sud è pressoché privo di strutture territoriali, mentre al Nord sono state in parte smantellate, è molto al di sotto delle necessità. Ma, soprattutto, le Case di Comunità rispondono alle richieste del terzo settore per un welfare privato di comunità o per dare avvio a cooperative di medici (vedi caso Lombardia). Si avrebbe così una situazione paradossale di gestione privata all’interno di un sistema pubblico.

. Gli stanziamenti stabiliti per l’ammodernamento degli ospedali sono del tutto insufficienti, considerata la vetustà di molti ospedali, costruiti nel 45% dei casi prima del 1940, scarsamente flessibili, concettualmente superati, con impiantistica obsoleta, insicuri sotto il profilo sia sismico che dei sistemi antincendio. Non solo, durante la pandemia a più riprese il sistema ospedaliero ha rischiato il collasso, tanto che il ministro aveva chiesto quasi 35 miliardi. Vanno inoltre rese permanenti le strutture logistiche o esterne al SSN che sono state realizzate in emergenza e va rivista la dotazione attuale di posti letto, 3,1 per mille abitanti, tra le più basse in Europa, causa non marginale dell’incremento della mortalità generale osservata nel 2020 (3).

. L’esiguità degli stanziamenti decisi per la sanità, risulta ancora più grave se si considera che nel DEF per il triennio 2022-2024, la spesa sanitaria è prevista decrescere ad un tasso medio annuo dello 0,7 per cento, per attestarsi nel 2024 al 6,3% del PIL. Di nuovo fanalino di coda in Europa, se si considera che, prima della pandemia la spesa sanitaria pubblica in rapporto al PIL era il 9,9% in Germania, 9,4% in Francia, 9,3% in Svezia, 8,2% in Olanda, 8% in Gran Bretagna.

. E non si parla di aumento/stabilizzazione del personale: tutti i provvedimenti di assunzione presi finora sono stati di carattere contingente e temporaneo, con personale in gran parte precario e sottopagato. Moli operatori sono stati inoltre spostati sulle organizzazioni vaccinali che andranno rese permanenti perché le vaccinazioni continueranno. E’ quindi gravissimo ed inconcepibile che non si preveda un aumento stabile e importante di personale, già estremamente carente prima della pandemia: esso va non solo rimpiazzato ma incrementato e adeguato alla nuova situazione, poiché è il personale ad essere determinante per la qualità e la efficienza dei servizi sanitari, senza di esso nessun ridisegno e potenziamento del SSN è possibile.

. Infine non si affrontano gli altri nodi messi in evidenza dalla pandemia: la mancanza di una politica di prevenzione primaria, le enormi disparità territoriali con carenze gravissime nelle regioni del Centro-Sud, il governo del sistema, le questioni della privatizzazione e della aziendalizzazione che hanno portato fin dentro il pubblico le logiche del mercato e del profitto: anzi, la pochezza dei finanziamenti e il silenzio su questi ultimi temi fanno pensare che il privato, negli intenti del governo, debba supplire il pubblico.

. E non si affronta la questione del regionalismo in sanità. Anzi, nonostante la prova di inefficienza data dalle regioni durante la pandemia, questo governo ha deciso di confermare, tra i disegni di legge collegati al Documento di Economia e Finanza 2021,  il DDL “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art.116, 3° comma, Costituzione.”

Ciononostante non si può abbandonare il campo. E’ necessario, da parte della società civile e di chi non accetta andare avanti come prima, partire dalle migliaia di esperienze diffuse sul territorio, che hanno cominciato a consolidare bagagli di esperienza e conoscenza per spingere in direzione contraria alle scelte liberiste e ambientaliste funzionali al capitale offerte dal PNRR.

. Puntare ad una vera riconversione ecologica, inserirsi nelle pieghe delle contraddizioni che muovono anche la classe capitalistica a dover fare i conti con risorse naturali che vanno esaurendosi, spingere ad investimenti pubblici sostenibili e diffusi, risanare le aree devastate, realizzare le infrastrutture la cui mancanza divide i territori, prendersi cura dell’ecosistema, favorendo la partecipazione delle comunità.

. Assumere con convinzione la centralità della Sanità Pubblica, pretendere il ridimensionamento del privato, fare in modo che il sistema sia riorientato alla prevenzione, chiedere che il finanziamento a regime sia decisamente aumentato.

. Far convergere tutti i rami del governo del paese verso la protezione della salute e la salvaguardia dell’ecosistema, compromesso non solo dalle nostre scelte energetiche ma da un sistema produttivo, di consumi e di vita ormai incompatibile con la vita stessa. E’ questa la prevenzione primaria.

. Insistere nella conversione degli allevamenti intensivi recuperando l’agricoltura contadina. Sappiamo che in essi si annidano “nuovi” virus pronti a fare il salto di specie, e che questi luoghi, dove gli animali sono trattati in modo disumano, rappresentano un rischio epidemico. Anche in questo caso è dai territori che arrivano esperienze e proposte.

. Pretendere il reddito di base universale, il salario minimo orario, un fisco di carattere progressivo sulle grandi ricchezze, la tassa sui grandi patrimoni: unico modo per attutire i colpi della crisi.

. Infine dobbiamo continuare ad opporci all’Autonomia Differenziata, che prevede la pressoché totale autonomia regionale, su richiesta delle regioni ricche del Nord, che vogliono tenere per se la maggior parte delle entrate tributarie. Che porterebbe alla frammentazione del paese, approfondirebbe le diseguaglianze e causerebbe il tracollo della sanità meridionale.
E’ necessario stare all’erta, perché, come abbiamo visto, nonostante le prove di inefficienza date dalle regioni durante la pandemia, il governo Draghi ha di nuovo riproposto nel DEF 2021 l’autonomia differenziata.

1- (Dati GIMBE, 4°rapporto sulla sostenibilità del Servizio Sanitari Nazionale)

2- www.thelancet.com/action/showPdf?pii=S0140-6736(21)00978

3- https://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=94980

Loretta Mussi

Medico

Collaboratrice di Lavoro e Salute

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