Abbandonati in mare

Le voci dei guardacoste libici gracchiano nella radio del ponte di comando dell’Astral, si confondono con le conversazioni dei pescatori siciliani che parlano in dialetto stretto. È da poco passata l’ora di pranzo, è il 16 luglio e la nave veleggia al largo di Malta, al timone c’è Riccardo Gatti, portavoce dell’ong spagnola Proactiva Open Arms. La nave è diretta nella zona di ricerca e soccorso (Sar) al largo della Libia, è partita da Barcellona tre giorni prima con il mare agitato e qualche goccia di pioggia e ora, appena superata Malta, sta rallentando.

A bordo del bialberi lungo trenta metri e vecchio quasi cinquant’anni deve salire Marc Gasol, un giocatore di basket spagnolo molto famoso. Come altri sportivi il cestista dei Memphis Grizzlies da qualche anno sostiene economicamente l’organizzazione e ha deciso di testimoniare di persona cosa succede lungo la rotta migratoria più pericolosa del mondo. A Malta Gasol ha affittato un motoscafo per farsi portare al largo e raggiungere l’Astral, che a sua volta sta scortando la nave di soccorso Open Arms. Infatti da quando l’Italia ha deciso di chiudere i porti alle navi delle ong anche Malta è diventata ostile e non dà più l’autorizzazione alle navi umanitarie per fare scalo o rifornimenti nel porto della Valletta.

Mentre aspetta che arrivi la lancia con a bordo il giocatore di basket, dalla radio accesa sul ponte Gatti ascolta la voce del comandante di un mercantile che parla con la guardia costiera libica. Il comandante di Triades, un cargo che batte bandiera di Panama ed è diretto a Misurata, in Libia, chiama i guardacoste in un inglese sbilenco: è stata individuata un’imbarcazione di migranti in pericolo a circa ottanta miglia dalle coste libiche. L’imbarcazione sembra partita da Al Khoms, una città 120 chilometri a est di Tripoli. Il mercantile Triades è vicino ai naufraghi, ma non li soccorre, chiede ai libici d’intervenire. Per molte ore va avanti la conversazione tra il comandante e i guardacoste in un rimpallo di responsabilità, dal ponte della Open Arms i registratori di bordo tengono traccia di tutto.

  “Non posso pensare che almeno cento persone siano in pericolo in questo momento, in attesa che si decida chi debba intervenire”, afferma Gatti, 40 anni, il comandante dell’Astral, mentre controlla sul navigatore la distanza dai naufraghi. Gatti ha una lunga esperienza alle spalle come soccorritore, ha cominciato in Grecia nel 2015 nell’isola di Leros, quando migliaia di persone arrivavano sui gommoni dalla Turchia.

Ora il flusso verso l’Europa dalla Turchia e dal Nordafrica si è ridotto notevolmente, ma il clima verso i profughi e i rifugiati è diventato ostile, l’Unione europea sembra essersi richiusa di fronte alle difficoltà di trovare una soluzione condivisa nella gestione dell’immigrazione. I volontari che in questi anni hanno sacrificato vacanze e vite private per dare una mano nel soccorso e nell’accoglienza dei migranti si sentono sempre più soli e in alcuni casi sono stati vittime di violente campagne diffamatorie. “Quando ci fermeremo ci sentiremo addosso tutta la stanchezza che abbiamo accumulato in questi anni, tutte le storie negative che abbiamo ascoltato. Ho visto molti ragazzi, molti soccorritori cedere di fronte a piccoli particolari”, afferma Gatti, che è originario di Lecco, in Lombardia.

“Abbiamo raccolto decine di cadaveri dal fondo dei gommoni, ma poi è un particolare che fa crollare. Come quando abbiamo imparato che le madri scrivono un numero di telefono sui pantaloni dei figli perché se muoiono lungo la traversata vogliono che la famiglia sia avvertita”, racconta. Tra un viaggio e l’altro, tra un soccorso e l’altro nell’ultimo anno Gatti ha dovuto partecipare a numerosi dibattiti televisivi per difendere il punto di vista delle ong dagli attacchi sempre più aggressivi di politici e commentatori.

-Le domande erano sempre le stesse: chi finanzia le navi umanitarie? I soccorritori hanno legami con i trafficanti? Come fate a sapere in che direzione dovete andare per fare soccorsi? “Decine di volte ho ripetuto le stesse cose, siamo coordinati dalla guardia costiera italiana, eseguiamo gli ordini della guardia costiera italiana”, ricorda. Ora però non è più così, la guardia costiera italiana ha passato ai libici il coordinamento di quel tratto di mare, ma i libici non hanno abbastanza mezzi per prestare soccorso e controllare una zona di mare tanto vasta, inoltre la Libia non può essere considerata un posto sicuro in cui sbarcare i migranti, perché non ha sottoscritto alcune convenzioni marittime internazionali e perché nel paese sono state documentate violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani, come la compravendita di esseri umani e la tortura.

Alle 18.40 la guardia costiera libica alla radio comunica a Triades che una sua motovedetta è a un’ora di distanza dall’imbarcazione in difficoltà. Alle 21.50, tre ore dopo, la nave Triades dice di essere a cinque miglia dal gommone, la guardia costiera libica chiede di aspettare. Infine alle 21.55 il cargo Triades riceve il permesso di ripartire, senza che nel frattempo sia sopraggiunta nessuna imbarcazione di salvataggio. Il comandante della Triades alla radio ringrazia i libici e dice che è in procinto di ricominciare la navigazione verso il suo porto di destinazione, Misurata. La posizione del gommone con i migranti comunicata dalla Triades è a 34° 11 062’ nord e 13° 57 016’ est. Più o meno nella stessa zona la mattina del giorno successivo la Open Arms trova un gommone distrutto, due cadaveri e una sopravvissuta. Il suo nome è Josefa.

Savas Kourepinis, marinaio greco in servizio sull’Astral, ricorda di aver ricevuto una telefonata molto presto al mattino dal comandante della Open Arms, l’altra imbarcazione dell’ong spagnola: “Alle 5 del 17 luglio ho cominciato la mia guardia al timone dell’Astral, intorno alle 6 ho ricevuto una chiamata da Marc Reig, comandante della Open Arms, che mi ha detto che stavano cominciando un turno di avvistamento. Circa un’ora dopo ci hanno chiamato di nuovo perché avevano visto il relitto di un gommone”, racconta. “C’è almeno un morto”, ha detto Reig alla radio dal ponte della Open Arms. Subito dopo ha esclamato: “Ci sono due morti”, poi ha aggiunto che forse c’era anche un superstite. “Avevo visto una braccio che si muoveva”, ha spiegato più tardi Reig. Sono state calate due lance di soccorso: una dalla Open Arms e una dall’Astral.

Uno dei volontari, Javier Filgueira, 25 anni, era appena entrato in camera per dormire dopo un turno di guardia di tre ore, dalle 3 alle 6 di notte. “Di notte c’era molta nebbia, sapevamo che in quella zona c’era un gommone in difficoltà, ma non c’erano buone condizioni di visibilità”. Appena Filgueira si è messo a letto, la coordinatrice della missione Anabel Montes ha bussato alla porta e ha detto di prepararsi il più in fretta possibile per un nuovo salvataggio. “Siamo scesi sulla prima lancia, vedevamo solo detriti, la gomma fatta a pezzi che galleggiava. Quando ci siamo avvicinati abbiamo visto i corpi”, racconta Filgueira, un ragazzo esile originario di Madrid, con la pelle chiara e i capelli rossi.

“L’unica che sembrava viva era una donna che aveva la testa fuori dall’acqua ed era attaccata a una tavola”, racconta il ragazzo che si è gettato in acqua per primo e ha nuotato fino a raggiungere la donna. Quando l’ha toccata lei si è attaccata con tutta la forza che aveva alla sua cintura. “I suoi occhi erano sbarrati, era terrorizzata, sotto shock”, racconta. Per sollevarla sul gommone di salvataggio sono arrivati altri soccorritori, perché Filgueira non ce la faceva da solo.

“L’abbiamo presa per le spalle”, racconta Savas Kourepinis, che era sul gommone di salvataggio dell’Astral, ma la donna non voleva lasciare Filgueira. “Benvenuta in Europa”, ha detto Kourepinis quando finalmente è riuscito a portarla sul gommone. Lei non parlava, aveva gli occhi sbarrati. “Ha alzato un braccio e puntava il dito nel vuoto dicendo ‘sì, sì’”. Josefa è stata portata velocemente a bordo della Open Arms dove l’équipe medica si è occupata di curarla. Poi è cominciato il recupero dei corpi senza vita. Il corpo nudo di un bambino galleggiava sopra a una tavola accanto a quello di una donna distesa sul ventre. Il bambino sembrava dormire.

Pepe Medina, uno dei soccorritori, lo ha preso con un gesto delicato, gli ha tenuto la testa in alto come per non svegliarlo e lo ha trascinato fino alla lancia di salvataggio. “Ho visto un bambino piccolo, sembrava dormire col viso nell’acqua. È stata un’immagine durissima da vedere, il suo volto era bruciato dalla benzina e dal sale”, ha raccontato Marc Gasol che era sul gommone insieme ai soccorritori dell’Astral.

Infine è stato recuperato il cadavere della donna distesa a faccia in giù su una tavola. Sembrava che fosse morta da tempo. L’odore del cadavere, la puzza di benzina a un certo punto erano insopportabili. Filgueira si è fatto aiutare da un fotografo a sollevare il corpo. “Non avevo mai visto il cadavere di una donna e quello di un bambino e così mi sono sentito male, avevo la benzina dappertutto”, mi ha raccontato qualche ora dopo il ragazzo sul ponte della Open Arms.

I cadaveri sono stati avvolti in sudari di plastica bianchi e poi portati a prua, l’imbarcazione non ha una cella frigorifera e i volontari li chiudono in un container con delle bottiglie fatte ghiacciare nel surgelatore. Prima che siano spostati, la dottoressa di bordo, l’italiana Giovanna Scaccabarozzi, ne constata la morte. Il bambino ha tra i tre e i cinque anni, è morto poco prima che arrivassero i soccorritori per ipotermia. Non c’è nessun elemento che possa aiutare a determinarne il nome e l’identità. Non si capisce nemmeno se abbia rapporti di parentela con la donna deceduta, trovata al suo fianco.

Lo si ipotizza perché è stato ritrovato molto vicino a lei. La donna invece ha ancora addosso i vestiti bagnati, le braccia sono scottate dalla benzina fuoriuscita dal gommone. Secondo la dottoressa, è morta diverse ore prima del ritrovamento, addirittura potrebbe essere morta durante il viaggio. Josefa, l’unica sopravvissuta, viene stesa sul ponte della nave, sopra dei giubbotti di salvataggio.

È avvolta con delle coperte termiche e attaccata a una flebo per la reidratazione. Le palpebre le si chiudono, ma le dottoresse provano a non farla addormentare, perché potrebbe essere pericoloso a causa della grave ipotermia che le viene diagnosticata. Le chiedono come si chiama, da dove viene. “Josefa”, risponde con un filo di voce. Viene dal Camerun, ha quarant’anni. Ha la bocca e la lingua spugnose, segnate da piccoli solchi scavati dall’acqua salata in cui è stata immersa per molte ore.

È partita dalla Libia su un gommone due giorni prima, insieme ad altre persone che conosceva. È scappata dal Camerun perché suo marito la picchiava, dice di non poter avere figli. Lo ripete in continuazione alle dottoresse e alle volontarie che le siedono intorno. Non riesce a muovere bene le gambe: i volontari le fanno delle manovre per riscaldarla. È l’unica sopravvissuta, l’unica testimone di quanto è successo la notte precedente. “Pas de Libye, pas de Libye”, ripete. Ha paura che qualcuno la riporti in Libia. Qualche ora dopo essere stata soccorsa, sul ponte della Open Arms mi racconta di essere stata picchiata dai libici che sono arrivati nella notte. Cosa sia successo dopo non riesce a spiegarlo, è sotto shock.

L’organizzazione non governativa che ha operato il soccorso esclude subito che si sia trattato di un naufragio. “In tanti anni di soccorsi non abbiamo mai visto una scena del genere”, afferma Anabel Montes, la coordinatrice della missione numero 47. Il gommone era tagliato, come avviene di solito dopo un soccorso affinché i trafficanti non lo riutilizzino. Inoltre non sono stati trovati altri corpi e altri morti intorno al relitto. Se si tiene conto che di solito quel tipo di gommoni trasportano dalle cento alle duecento persone sembra impossibile pensare che siano sparite nel mare, senza lasciare traccia.

Appena concluse le operazioni di soccorso, Oscar Camps, fondatore dell’organizzazione Proactiva Open Arms, sale sul ponte di comando della nave: è furioso. Accusa la guardia costiera libica di omissione di soccorso. Ipotizza che i libici siano arrivati sul posto e abbiano trasbordato dal gommone alla motovedetta la maggior parte dei migranti, lasciandosi alle spalle le due donne e il bambino. Camps si scaglia anche contro il governo italiano, colpevole di aver concluso un accordo per finanziare la guardia costiera libica: “Quando siamo arrivati, abbiamo trovato una delle donne ancora in vita, non abbiamo potuto fare nulla per salvare l’altra donna e il bambino che a quanto pare è morto poche ore prima che li trovassimo. Per quanto tempo ancora avremo a che fare con gli assassini arruolati dal governo italiano per uccidere?”.

In un comunicato ufficiale firmato dal portavoce della marina militare di Tripoli, Ayoub Qasem, la guardia costiera libica si smarca dalle accuse. La guardia costiera libica spiega di aver salvato lo stesso giorno 165 migranti “con grande professionalità e nel rispetto dei protocolli internazionali riguardo il salvataggio di persone in mare”. Nel comunicato si dice anche che non sono state abbandonate persone in mare: “Non è nostra abitudine lasciare vite umane in mezzo al mare, la nostra religione ce lo proibisce. Tutto ciò che è successo e succede, i disastri in mare sono causati dai trafficanti, interessati solo al guadagno, e dalla presenza di ong irresponsabili come questa”.

Qasem svela che a bordo della motovedetta libica era presente anche una giornalista tedesca, Nadja Kriewald, del canale N-Tv. La stessa giornalista, intervistata il giorno dopo dal Messaggero, ha escluso che durante il salvataggio fossero state abbandonate delle persone. “Ne siamo sicuri, quando siamo andati via non c’era più nessuno in acqua”, ha detto la giornalista tedesca al quotidiano.

Questa versione è stata subito contestata dal deputato di Liberi e uguali (Leu) Erasmo Palazzotto che era a bordo della nave Astral e ha ipotizzato che nella notte tra il 16 e il 17 luglio si fossero svolti almeno due salvataggi da parte dei libici e che quindi l’operazione a cui aveva assistito la giornalista tedesca fosse diversa da quella che avrebbe riguardato il gommone distrutto sul quale viaggiavano Josefa e le altre due persone. La tesi di Palazzotto è stata successivamente confermata dalla stessa giornalista tedesca che – contattata via email da Palazzotto – ha risposto: “Presumo che nella missione a cui ho partecipato nessuno è stato lasciato indietro dalla motovedetta. Nessuno si è rifiutato di salire a bordo, quindi si deve essere trattato di un’altra missione. So che ce n’è stata una, ma non so cosa è successo in quel caso”.

Nella mail Kriewald conferma di essere partita a bordo della motovedetta Ras Sjdeir della guardia costiera libica da Tripoli alle 17 del 16 luglio e di essere tornata nella capitale libica alle 4.30 del mattino del giorno successivo. Qualche giorno dopo la versione dei libici cambia ancora una volta: il colonnello della guardia costiera di Misurata Tofag Scare parla con la giornalista della Stampa Francesca Paci e riconosce per la prima volta che è avvenuto un soccorso da parte dei libici nella stessa zona in cui è stato recuperato il gommone e che due cadaveri sono stati abbandonati dopo il soccorso. Il colonnello dice che la motovedetta ha lasciato in mare “solo i due corpi senza vita di una donna e un bambino dopo aver provato invano a rianimarli: erano morti e portarli a terra non aveva alcun senso, ma oltre loro non c’era nessun altro in acqua”. Scare conferma anche che i libici hanno ricevuto la segnalazione da parte del mercantile Triades intorno all’ora di pranzo del 16 luglio, come riportato dall’equipaggio della Open Arms.

Dopo l’accusa del ministro dell’interno italiano Matteo Salvini, che su Twitter aveva accusato l’ong di essersi inventata tutto, il fondatore dell’organizzazione Oscar Camps è ancora più determinato a portare il caso davanti a un tribunale. L’imprenditore di Badalona parla con i suoi avvocati, raccoglie la testimonianza di Josefa e dei soccorritori, le foto, i video e le registrazioni di bordo, infine decide di far rotta verso la Spagna per presentare una denuncia. Intorno alle 23 del 17 luglio, dopo una giornata di trattative con la guardia costiera italiana, Camps decide di non sbarcare a Catania dove gli è appena stato detto di dirigersi. Vuole chiedere al governo spagnolo di proteggere Josefa attraverso un programma di protezione per i testimoni di giustizia.

Quando il 21 luglio arriva in Spagna, a Palma di Maiorca, Camps si dirige subito in tribunale. È accompagnato da tutti i membri dell’equipaggio che vogliono sottoscrivere la sua denuncia e da Marc Gasol, la stella del basket, ancora sconvolto dal ritrovamento dei cadaveri. “Ho figli piccoli anche io”, dice Gasol. “Vedere il cadavere di quel bambino galleggiare in mare è stato molto duro”. “Vogliamo giustizia, vogliamo che nulla resti intentato”, aggiunge Lorenzo Leonetti, un cuoco romano imbarcato sulla nave Astral come volontario, che insieme agli altri volontari accompagna Camps e firma la denuncia.

Il procuratore di Maiorca Ladislao Roig accoglie l’equipaggio nella tarda mattinata del 21 luglio. Roig registra la denuncia contro il comandante del cargo Triades per omissione di soccorso e omicidio colposo, per aver abbandonato il gommone senza soccorrere i naufraghi e un’altra denuncia contro la guardia costiera libica sempre per omissione di soccorso e omicidio volontario per aver lasciato tre persone in mare dopo averne soccorse circa 170.

Il procuratore di Maiorca ha chiarito che non ha competenza per esaminare il caso che si è svolto in acque territoriali libiche e che ha coinvolto la guardia costiera libica, un cargo che batte bandiera di Panama e una sopravvissuta camerunense che riceverà protezione in Spagna. Sarà la corte suprema spagnola a dover decidere se aprire un’inchiesta sul caso. Intanto il deputato di Leu Erasmo Palazzotto ha chiesto al governo italiano di fornire tutta la documentazione relativa al fatto: i tracciati delle navi, le registrazioni dei satelliti e le comunicazioni radio e telefoniche. “Farò tutto il possibile perché le responsabilità siano chiarite”, promette.

Per Oscar Camps rimane l’amarezza di aver dovuto affrontare enormi difficoltà per “salvare una sola vita umana”. Secondo il fondatore di Open Arms, le ong sono state attaccate perché non si desiderano testimoni dell’operato della guardia costiera libica. “Da tre giorni non sappiamo cosa stia succedendo al largo della Libia, pensate davvero che non stia succedendo niente? Semplicemente non c’è nessuno che possa raccontarlo”, afferma. Il 22 luglio, a poche ore dallo sbarco di Josefa nel porto di Palma di Maiorca e il suo ricovero in ospedale, la nave Open Arms ha ripreso il largo diretta verso la Libia. (24 luglio 2018).

Annalisa Camilli

Giornalista de L’Internazionale

27/7/2018 www.internazionale.it

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