Aborto. La violenza medica di un diritto negato

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L’obiezione di coscienza si può definire come il rifiuto dell’individuo di adempiere ad una norma giuridica ritenuta ingiusta in base alle proprie convinzioni morali, religiose, o ideologiche. Il rispetto della libertà di pensiero è riconosciuto come diritto inalienabile nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo ( artt. 18-19). Le società, però, si organizzano in base ad ordinamenti e leggi, per cui si impone la necessità di stabilire dei limiti e delle condizioni all’esercizio della libertà di coscienza, soprattutto quando il diritto dell’individuo rispetto alla norma si ripercuote su
altri soggetti, titolari di diritti altrettanto inalienabili. In Italia non esiste una specifica legge sull’obiezione di coscienza, ma essa è prevista per alcuni casi specifici: il servizio militare ( che però ora non è più obbligatorio), l’aborto, la procreazione assistita, e la sperimentazione animale.

L’obiezione in campo sanitario è un tema sempre attuale, mai risolto, anzi complicato dai progressi in campo medico. Le questioni di coscienza, naturalmente, sono legate ai grandi nodi dell’esistenza e della organizzazione sociale: la vita, la morte, la sessualità. L’interruzione di gravidanza è l’evento che più degli altri determina, secondo alcuni, un conflitto tra diritti: quello delle donne all’autodeterminazione della maternità, e quello degli operatori sanitari al rifiuto di pratiche specifiche della professione ma non condivise ideologicamente. Dal punto di vista legislativo, la legge 194 all’articolo 9 riconosce al personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie la possibilità di esonero “ dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza , e non dall’assistenza antecedente e conseguente l’intervento”.

La dichiarazione di obiezione deve essere presentata alla struttura sanitaria al momento dell’assunzione; se presentata in un momento successivo ha effetto dopo un mese. Questo, probabilmente, perchè, nello stesso articolo, si precisa che “ gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti ad assicurare l’espletamento delle procedure previste ….. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale”. Le strutture sanitarie quindi sono chiamate espressamente a garantire l’espletamento delle pratiche abortive indipendentemente dalla coscienza del personale. La realtà però è molto diversa, nonostante le relazioni ministeriali che mostrano entusiasticamente la riduzione del numero di aborti : un dato che andrebbe valutato con grande attenzione: sicuramente prodotto da una aumento dell’uso dei contraccettivi di emergenza. E questo è un dato positivo. Esistono però , ed in gran numero , gli aborti clandestini ( stimati tra i 12,000 e i 20,000 nel 2017 ) , aumentati in percentuale rispetto al 2005 da 1/10 a 1/5 . L’ineffcienza e la mancata attuazione della 194 sono esperienza concreta, che non può essere negata dalle rilevazioni statistiche. Tanto è vero che l’Italia ha ricevuto richiami dal Consiglio d’Europa per l’ incompleta attuazione della legge.

La realtà è che il diritto negato è quello delle donne: i consultori familiari sono indicati dalla legge 194 come luogo fondamentale per assistere le donne nella tutela della salute, anche riproduttiva, con specifica indicazione a contraccezione ed IVG. Come si desume dal recente rapporto del ministero della salute ( giugno 2020) sull’attuazione della legge 194 , basata su dati raccolti nel 2018, il numero di consultori attivi è inadeguato (1 ogni 35,000 abitanti invece che 1 ogni 20,000 ); inoltre esiste una notevole ed importante differenza nella distribuzione sul territorio, ed anche una variabilità di funzionamento, sia in termini di ore di presenza delle varie figure professionali, sia per la quantità e qualità di assistenza fornita.

La competenza regionale della materia determina quindi gravi squilibri tra la fruizione dei servizi nei diversi territori del paese, ed anche, come si osserva in questi ultimi mesi, la possibilità di scelte restrittive rispetto alla normativa nazionale. E’ di pochi giorni fa la decisione della regione Marche ( dopo analogo provvedimento adottato da Piemonte ed Umbria) di vietare l’uso della RU486 nei consultori, rifiutando di fatto l’invito proveniente dalle linee guida ministeriali di agosto 2020 ed imponendo il ricovero di tre giorni in ospedale. Lasciano di stucco le motivazioni portate dei sostenitori dell’ordinanza: il capogruppo di Fratelli d’Italia, Carlo Ciccioli, sostiene che non sia più il caso di difendere l’aborto, “ battaglia di retroguardia da anni ’60” .

Oggi la lotta è quella per la natalità, ed il pericolo la sostituzione etnica. Il Ciccioli è in ottima compagnia, dal momento che un attivista pro life ha perfino inscenato una manifestazione con 1450 pannolini che dovrebbero rappresentare i corrispondenti aborti del 2019, per scuotere i criminali sostenitori del diritto all’aborto, le cui mani”grondano sangue innocente”. Ad Ancona sono comparsi manifesti contro l’aborto e la giunta regionale prevede la presenza dei centri provita nei consultori. La regione Marche d’altro canto è tra quelle con il più alto numero di medici obiettori, dal 67 al 90% nelle varie province . I dati del 2018 relativi all’obiezione di coscienza del personale sanitario a livello nazionale ( 69% ginecologi, 46,3 anestesisti , 42,2 altro personale ), nelle regioni del sud corrispondono a percentuali molto più alte, anche nel personale infermieristico , attestandosi intorno al 70-80 %. Questo implica spesso la necessità, per le donne, di doversi recare in altra provincia o regione , o, si può presumere, di ricorrere ad aborti clandestini, oppure, ancora, di dover portare a compimento una maternità non voluta. La scelta individuale dell’obiezione di coscienza, rivendicata come diritto, ha ripercussioni cruciali sulla vita delle donne, sull’attuazione di una legge dello Stato, ed anche nelle strutture sanitarie , sulla ripartizione dei carichi quantitativi e qualitativi di lavoro.

Si tratta sempre e solo di un problema di coscienza da salvaguardare? Qualche anno fa, Silvia De Zordo, antropologa, ricercatrice, ha condotto uno studio ( su 4 ospedali pubblici di Milano e Roma) per analizzare le motivazioni alla base dell’obieziome di coscienza, intervistando 54 ginecologi/ghe e 66 tra ostetriche ed altro personale sanitario. I risultati, relativi ai ginecologi e ginecologhe, mostrano che la motivazione prevalente non è quella religiosa ( ci sono anche medici religiosi che però non obiettano ), né l’idea dell’embrione come persona. La maggioranza è favorevole all’esistenza di una legge che consenta l’interruzione di gravidanza in sicurezza.

Tra le altre motivazioni, molto meno nobili, figurano il timore della riprovazione da parte del primario obiettore; l’astensione da una procedura poco stimolante dal punto di vista professionale ( e per la quale si rischia di veder aumentato il carico di lavoro); l’IVG, non potendo essere praticata in intramoenia, non è redditizia ( anche se certamente ci sono casi di aborto a pagamento effettuati in cliniche private magari dagli stessi obiettori in pubblico); difficoltà personali, legate a un senso di fallimento, o disagio, anche per lo stigma sociale tuttora molto forte verso l’aborto ; mancanza di aggiornamento e formazione specifiche; timore di denunce.

Il problema, più che di coscienza, è politico. Le riserve individuali e personali degli obiettori vengono strumentalizzate per orientare le scelte secondo una precisa visione culturale ed ideologica, che travalica i singoli impedimenti.
Appare chiara la necessità, per riuscire a garantire il diritto delle donne all’autodeterminazione, rispettando pure le coscienze individuali, di predisporre interventi legislativi e culturali in varie direzioni.

Si potrebbe cominciare dal potenziamento del numero di consultori e delle attività degli stessi, attuando anche una accurata formazione dei sanitari, ampliando e facilitando l’utilizzo della contraccezione di emergenza e dell’aborto farmacologico, Una riforma delle disposizioni sull’obiezione di coscienza potrebbe tutelare chi consente l’applicazione di una legge dello Stato, prevedendo assunzioni mirate o predisponendo, nel corso di studi, specifici percorsi formativi.

In altri paesi europei (Svezia, Finlandia) non viene riconosciuta la possibilità di obiezione di coscienza nelle strutture pubbliche, e viene sconsigliato, se la questione crea disagio, di scegliere la specializzazione in ginecologia/ostetricia… Si tratta, come al solito di un problema culturale che ancora incatena il nostro paese a un modello patriarcale, cattolico e maschilista,

La violenza “istituzionale” , che legittima con vuoti normativi e mancanze gestionali l’esistenza di , percorsi accidentati per le donne quando si tratta di sessualità e riproduzione, si accompagna a un clima persecutorio che si alimenta di gesti, modalità, trascuratezze , riprovazione più o meno esplicita: dalla rudezza del personale sanitario, all’ostracismo (non legittimo) dei farmacisti nella vendita dei contraccettivi d’urgenza, alla comunicazione mediatica che assimila aborto ed omicidio.

Sono numerose, troppe , ancora più tragiche nella situazione di emergenza della pandemia, le storie di donne costrette a migrare da una struttura all’altra, a volte cambiando città o regione, strette tra il trascorrere dei giorni, che in questo caso è fondamentale, e le pastoie burocratiche, le inefficienze dei reparti, l’ostilità del personale e il giudizio morale sempre incombente su scelte assolutamente personali e indiscutibili.
È una battaglia di civiltà, che nel nostro paese è ancora necessaria, tutt’altro che vinta , e che in altri luoghi d’ Europa, come in Polonia, sta segnando forti arretramenti e richiede per questo rinnovata attenzione.

Loretta Deluca

Insegnante Torino

Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute

Pubblicato sul numero di febbraio del mensile

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