Acqua pubblica. Il voto azzerato

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Dieci anni fa una coalizione ampia e determinata ha sancito una vittoria storica nel nostro Paese: con 27 milioni di sì ai referendum su acqua, servizi pubblici e nucleare abbiamo costretto ad un passo indietro chi per decenni ha imposto privatizzazioni e estrattivismo.

10 anni dopo, in piena pandemia, quella vittoria basata sulla difesa dei beni comuni e sull’affermazione dei diritti di tutti sui profitti di pochi, ha un significato ancora più attuale.
Non un anniversario da celebrare, ma da far vivere attraverso migliaia di voci e di corpi per guardare avanti, forti dei mille colori che hanno reso possibile quella vittoria, compreso il rosso della nostra passione e rabbia per i tentativi di cancellarla.

Il 2021 si configura come un anno di svolta per l’acqua. Da dicembre 2020 questo bene, al pari di una qualsiasi altra merce, è stato quotato in Borsa negli USA. Uno scempio che testimonia il venir meno di qualsiasi limite di fronte al profitto e che costituisce una minaccia reale per l’intera umanità e per la prosecuzione della vita stessa sulla Terra.

Inoltre, la cosiddetta “riforma” del settore idrico contenuta nel Recovery Plan così come aggiornato dal governo Draghi punta ad un sostanziale obbligo alla privatizzazione, in particolare nel Mezzogiorno. D’altronde Draghi non ha mai dissimulato la volontà di calpestare l’esito referendario visto che solo un mese e mezzo dopo firmò insieme al Presidente della Banca Centrale Europea Trichet, la lettera all’allora Presidente del Consiglio Berlusconi in cui indicava come necessarie privatizzazioni su larga scala.
L’attuale versione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza risulta in “perfetta” continuità con queste indicazioni e rimane, dunque, una risposta del tutto errata alla crisi sindemica, riproponendo le stesse ricette che hanno contribuito a crearla.

La crisi ecosistemica, climatica, economica, sociale e l’emergenza sanitaria impongono una radicale inversione di rotta che metta al centro la tutela dei beni comuni, dell’acqua e dell’ambiente e che garantisca a tutte e tutti i diritti fondamentali.

Oggi più di ieri è importante riaffermare il valore umano e universale dell’acqua bene comune come argine alla messa sul mercato dei nostri territori e delle nostre vite. Oggi più che mai la straordinaria partecipazione a quella campagna referendaria è l’atto di accusa della deriva antidemocratica che il Paese sta attraversando.

Tutte e tutti dobbiamo avviare un confronto per organizzare insieme una grande mobilitazione in occasione del decennale del referendum su acqua e nucleare, per ribadire insieme che i beni comuni sono un valore fondante delle comunità e della società senza i quali ogni legame sociale diviene contratto privatistico e la solitudine competitiva l’unico orizzonte individuale. Per rilanciare con forza e rimettere al centro del dibattito pubblico i temi paradigmatici e fortemente attuali emersi da quel percorso che negli anni successivi diverse esperienze hanno saputo coltivare e arricchire.
Organizzare iniziative in occasione del decennale del referendum su acqua e nucleare un percorso allargatoconvenuto e costruito insieme ad altre realtà, a partire dalla rete “La Società della Cura”. L’obiettivo condiviso è quello di organizzare una grande mobilitazione nazionale il 12 e 13 giugno 2021 per rilanciare con forza i temi emersi da quella straordinaria esperienza di partecipazione popolare non sarà un appuntamento commemorativo e celebrativo, ma bensì cogliere l’occasione per costruire un nuovo momento di connessione e coagulo tra realtà sociali, reti e movimenti intorno ai beni comuni ancor più convinti della necessità di una loro difesa in quest’anno che per l’acqua si sta configurando come un anno di svolta visto che da dicembre scorso questo bene, come una qualsiasi altra merce, è stato quotato in Borsa e scambiato nel mercato dei “futures” della Borsa di Chicago e con il Recovery Plan si sta prospettando una cosiddetta “riforma” del settore idrico che, di fatto, si sostanzia in una vera e propria strategia di rilancio dei processi di privatizzazione, in particolare nel Mezzogiorno.

A 10 anni di distanza diviene opportuno rimarcare come la maggioranza assoluta delle cittadine e cittadini si sono espressi in modo chiaro e preciso sull’uscita dell’acqua dalla logica di mercato e che quell’esito deve essere necessariamente attuato, non disatteso e contraddetto come avvenuto finora. A questo scopo è opportuno proporre alle varie realtà interlocuzione di mettere al centro i seguenti temi:
. i beni comuni come valore fondante delle comunità e della società senza i quali ogni legame sociale diviene contratto privatistico e la solitudine competitiva l’unico orizzonte individuale;
. democrazia e la sua crisi (anche in virtù del mancato rispetto della volontà popolare);
. democrazia e gestione partecipativa che va garantita attraverso la partecipazione diretta delle comunità territoriali alle decisioni, in quanto esercizi di democrazia fondamentali per orientare le politiche di sviluppo locale e costruire scenari di giustizia sociale ed ambientale;
. anniversario del referendum come ulteriore momento di connessione per rilanciare insieme con forza i temi emersi 10 anni fa e che risultano altrettanto attuali soprattutto a seguito dell’emergenza sanitaria e della crisi economico-sociale che si sta aprendo;
. la necessità che l’acqua venga finalmente riconosciuta come un bene comune inalienabile e un diritto umano altrimenti sarà sempre più esposta a processi di mercificazione anche attraverso la sua diretta quotazione in Borsa e le spinte privatizzatrici come quelle contenute nel Recovery Plan.
Sullo specifico dell’acqua è opportuno utilizzare il tema della quotazione in Borsa in maniera provocatoria visto che spazza via le tesi di alcuni famigerati detrattori del referendum (ad es. Massarutto e altri) secondo cui la proprietà del bene sarebbe rimasta sempre pubblica e solo la gestione sarebbe stata privatizzata.
Tante sono le iniziative da mettere in campo: organizzare per sabato 12 o domenica 13 giugno una significativa mobilitazione attraverso un momento di approfondimento e discussione sui processi di ripubblicizzazione anche a livello internazionale.

Sul Recovery Plan come Forum Italiano dei Movimenti per l’acqua dobbiamo prendere atto di quanto riportato dal Presidente della Camera secondo cui ci sarebbe invece un nuovo soggetto che prevede la partecipazione combinata di CDP (cassa Depositi e Prestiti), SNAM e TERNA. Fico si è posto interrogativi su quale sarà la configurazione di questo organismo, quanto sarà in grado di essere incisivo e con quali investimenti. Il tutto con una governance non chiara in un contesto in cui, mancando una legge sull’acqua, è assente una legge quadro. In questa situazione dobbiamo provare a blindare la situazione attuale e bloccare ulteriori tendenze di privatizzazione.

Rispetto a ciò come Forum, se pur preoccupati, continuiamo a difendere la legge sull’acqua. Nella attuale situazione è fondamentale evitare prospettive in contrasto alla auspicata pubblicizzazione dei servizi idrici. Nello specifico del PNRR (piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), ci aspettiamo che chi di dovere alzi “barricate” contro l’introduzione di privatizzazioni di fatto.

Riguardo alla quotazione dell’Acqua in Borsa, colpisce lo stridente contrasto fra la denuncia del rappresentante ONU e di tanti soggetti sociali, politici. A corredo di questo scenario non è casuale che si stanno facendo avanti per mega investimenti in campo idrico in Europa i grandi capitali e le grandi imprese, e non solo gli operatori storici sia in Italia che all’estero, quali: ACEA, A2A, Veolia, Suez ecc., ma ultimamente anche nuovi soggetti, tra cui Unilever e Coca Cola, solo per citarne alcuni. A parere di chi dell’EWM opera a Bruxelles ed ha contatti con le istituzioni UE, nel settore idrico si sta delineando una strategia liberista di concentrazione di grandi capitali che dai servizi idrici territoriali si sta via via focalizzando sempre più a monte nel ciclo dell’acqua sulle grandi infrastrutture di trasporto, sui prelievi e addirittura sulla proprietà delle risorse idriche.

Appare chiaro a questo punto l’ostinato rifiuto in sede normativa a introdurre il diritto universale all’acqua, in particolare la risoluzione ONU del 2010, tanto nella carta europea, quanto nella Direttiva dell’Acqua Potabile e nella Direttiva Quadro riguardante l’intero ciclo dell’acqua. Così come è chiara l’assenza di qualsiasi cenno alla gestione pubblica dell’acqua. La concomitanza di tutti questi fattori – l’apertura ai grandi capitali di Recovery Plan imposti dall’alto, la quotazione dell’Acqua in Borsa, la pressione per mega investimenti da parte delle grandi imprese e dei grandi capitali, l’assenza nella normativa europea del diritto universale all’acqua e della sua gestione pubblica – sta configurando un attacco decisivo alla natura pubblica di bene comune dell’acqua ed un processo di privatizzazione sempre più concentrato nelle mani del grande capitale. Se questo processo può al limite non sorprendere sul piano teorico, rimane comunque drammatico vederlo confermato nella verifica fattuale degli eventi. Occorre predisporsi ad una fase di lotta e mobilitazioni, e poiché tutto ciò non riguarda solo l’acqua ma coinvolge tanti altri settori, quali sanità, trasporti, energia, istruzione, è necessario trovare un terreno comune di azione con i soggetti che si colleghino in questi ambiti.

Come afferma Emilio Molinari: in un Paese Democratico come far trascorrere 10 anni? La Direttiva Europea afferma che l’Acqua è un Bene Comune. L’Acqua è il 1° Vaccino, l’Idrogeno si produce consumando tantissima acqua. I mutamenti climatici “passano” attraverso l’acqua. La Regione Piemonte a messo a gara gli invasi di montagna, come sta facendo anche la Lombardia. E cosa dire della Mercificazione? La California oggi paese senz’acqua e quota l’acqua a Wall Street…

Sappiamo che L’Italia si è dotata di un Ministero della Transizione Ecologica. Una serie di fatti mi fanno venire il dubbio se non siamo, invece, di fronte ad un Ministero della Finzione ecologica. Intanto, giorni fa, è arrivata l’approvazione della Valutazione di Impatto Ambientale per 11 nuovi pozzi per l’estrazione di idrocarburi, di cui ben 7 in Emilia-Romagna. Tempo addietro è stato deciso di prevedere una procedura semplificata per l’autorizzazione all’ipotizzato CCS di Ravenna, che dovrebbe diventare il più grande impianto di cattura e stoccaggio della CO2 in Europa, con cui ENI intende utilizzare i propri giacimenti di gas a largo della costa ravennate per immettervi la CO2 proveniente da processi industriali o dai suoi stessi impianti, prolungando così il ricorso alle fonti fossili, mentre, sempre a Ravenna, il Progetto Agnes, basato sulle rinnovabili, potrebbe entrare in funzione nel 2023, ma tale data rischia di andare più in là proprio per i lunghi tempi autorizzativi.
Forse qualcuno potrebbe pensare che sono elementi di dettaglio circoscritti. Se alziamo lo sguardo a ciò che hanno predisposto sul Recovery Plan, e sulla missione “Rivoluzione verde e transizione ecologica”, le preoccupazioni aumentano ulteriormente. Su questo punto, il governo Draghi sta rimettendo le mani all’elaborazione del precedente piano, si sta andando in una direzione negativa, che sa molto di ‘greenwashing’ ed è poco attenta e utile per affrontare seriamente il problema del contrasto al cambiamento climatico e di un passaggio forte verso le energie rinnovabili e a un nuovo modello di produzione e consumo energetico.

Il materiale a disposizione è abbastanza complesso e lì non si esplicita una strategia chiara, al di là delle risorse significative a disposizione (circa 70 miliardi di €, che potrebbero persino lievitare attorno agli 80, su un totale di circa 220 miliardi dell’insieme del Recovery Plan). Ci ha pensato, però, qualche giorno fa, in un’intervista su Repubblica, il neoministro alla Finzione ecologica Cingolani a chiarire il tutto, sostenendo che la transizione energetica si appoggerà sull’utilizzo del gas, in ossequio ai piani dell’ENI, e che poi, con il 2050 si potrà pensare alla fusione nucleare.

Ora, una simile ipotesi significa allungare la vita all’utilizzo delle fonti fossili, com’è anche il gas, ritardare il passaggio alle energie rinnovabili e, soprattutto, non porsi il tema decisivo, che è quello di puntare all’ autoproduzione e al consumo distribuito consentito da queste ultime, superando un’opzione di sistema centralizzato e tendenzialmente autoritario, quello che deriva appunto dall’utilizzo delle energie fossili e del nucleare.

Né si può stare più tranquilli, esaminando, sempre all’interno della missione “Rivoluzione verde e transizione ecologica”, quanto previsto a proposito di tutela del territorio e della risorsa idrica. Qui, oltre alle poche risorse indicate (complessivamente circa 15 miliardi, ma di cui 10 già previsti, per un saldo quindi di circa 5 miliardi, mentre si stima che solo per una serio Piano di contrasto al dissesto idrogeologico ce ne vorrebbero 26 nell’arco di diversi anni), viene riproposta, anzi rafforzata, un’idea di ‘riforma’ degli affidamenti del servizio idrico per favorire la completa privatizzazione dello stesso, in particolare nel Mezzogiorno, dopo che nel Centro Nord già la fanno da padrone le grandi multiutilities quotate in Borsa, IREN, A2A, HERA e ACEA. Sarebbe, proprio a dieci anni dai referendum sull’acqua, la definitiva certificazione dell’annullamento della volontà popolare, dopo che essa è stata già fortemente disattesa in questi anni.

Il quadro non è molto migliore in Emilia Romagna, nel dicembre scorso, si è giunti alla definizione del Patto per il Lavoro e il Clima, sottoscritto, oltre che dalla Regione, da diversi altri soggetti, dalle Associazioni di impresa ai sindacati confederali, da Legambiente ai Comuni capoluogo e altri ancora.
Chi non l’ha sottoscritto è stata la Rete regionale per l’Emergenza Climatica e Ambientale (RECA), nata da circa un anno e che per la prima volta è riuscita a raggruppare in una visione comune 76 tra Associazioni e Comitati regionali e territoriali che intervengono, da vari punti di vista, sui temi del contrasto al cambiamento climatico, della conversione ecologica e della difesa dei Beni Comuni.

RECA ha deciso di non firmare perché quel Patto non rappresenta la svolta necessaria per mettere in campo politiche adeguate per affrontare proprio questi ultimi temi. Infatti il passaggio alle energie rinnovabili al 100% in Regione entro il 2035 e l’azzeramento delle emissioni climalteranti entro il 2050 in realtà nel Patto per il Lavoro e il Clima non sono definiti i tempi e gli interventi che dovrebbero portare alla loro realizzazione, né gli impegni da mettere in atto in questa direzione già in questa legislatura.
Di fatto, si continua a tacere, il che vuol dire continuare ad andare avanti lungo scelte che contraddicono quegli obiettivi, come il forte ricorso a grandi opere stradali e autostradali, il ricorso massiccio ad aree dedicate alla logistica senza affrontare la questione del consumo di suolo che ciò determina, il via libera al Centro di Cattura e Stoccaggio (CCS) di Ravenna.
Quest’ultimo progetto è una scelta sbagliata; il CCS è infatti basato su tecnologie costose e non ben verificate, di fatto alternativo al ricorso rapido alle fonti rinnovabili, un vero e proprio tentativo di mettere sotto la sabbia la CO2 emessa anziché evitare di produrla.

Ancora, non ci sono scelte convincenti e coraggiose su diversi punti: solo per esemplificare, non c’è cenno alla ripubblicizzazione del servizio idrico, proprio quando potenzialmente si apre questa possibilità a Bologna con la scadenza della concessione a Hera alla fine del 2021, Forlì-Cesena, Ferrara 2023. Manca una politica che punti fortemente alla riduzione dei rifiuti prodotti e al loro riciclaggio, così come al superamento degli inceneritori, mentre non sono indicati forti investimenti sul trasporto pubblico e per la riduzione significativa del parco automobilistico privato.

Insomma la Rete regionale per l’Emergenza Climatica e Ambientale ha deciso di scrivere il proprio “Patto per il clima e il lavoro”, un piano alternativo a quello elaborato dalla Regione e sul quale si intende aprire un confronto vasto con le persone e nella società regionale, tante le realtà e le intelligenze collettive che lavorano per disegnare una reale transizione e conversione ecologica, per la difesa e la valorizzazione dei Beni Comuni.

LA SBORNIA DA RECOVERY PLAN: Più di un anno di pandemia ci consegna un Paese con meno lavoro, più diseguale e più povero, con un forte decremento del PIL e una grande crescita del debito. I numeri sono impietosi in proposito: nel 2020 sono stati persi circa un milione di posti di lavoro, per lo più di lavoratori precari, indipendenti, giovani e donne. Per quanto riguarda le disuguaglianze, già un anno fa il governatore della Banca d’Italia Visco avvertiva che “per le famiglie che prima dell’emergenza sanitaria erano nel quinto più basso della distribuzione (del reddito), la riduzione del reddito sarebbe stata due volte più ampia di quella subita dalle famiglie appartenente al quinto più elevato”. Ancora: nel 2019, il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta era al 7,7 % della popolazione, mentre nel 2020 esso è arrivato a toccare il 9,4 %. Il 2020 si è chiuso con una caduta del PIL pari all’8,9% in termini reali rispetto al 2019, mentre il rapporto tra debito pubblico e PIL ha subito un’impennata al 155,8 per cento dal 134,6 per cento del 2019. Il debito aggiuntivo cumulato già oggi autorizzato da qui al 2026 raggiungerà la cifra astronomica di 496,8 miliardi (confrontate questa cifra con le risorse provenienti dal Recovery Plan).

Siamo dentro la più grande crisi ecologica, economica e sociale dal dopoguerra del secolo scorso ad oggi. A cui si aggiunge la crisi democratica provocata dal governo Draghi, ben testimoniata dal totale esautoramento del Parlamento, che è stato convocato per discutere del Recovery Plan alle 16 di lunedì pomeriggio scorso, dopo aver ricevuto la sua ultima versione alle 14, due ore prima, un documento di più di 300 pagine, che, come ha sottolineato lo stesso Presidente Draghi, segnerà il destino dell’Italia per i prossimi anni.

In realtà, questo documento non aveva bisogno di essere discusso, essendo già stato concordato nei giorni precedenti tra il Presidente del Consiglio e la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. Un esempio perfetto di tecnocrazia al lavoro, del resto confezionato da esperti di questa tecnica di governo, come Draghi, che già nella precedente crisi economica-sociale del 2011-2012 si proclamava non preoccupato, perché tanto c’era una sorta di ‘pilota automatico’ al comando, ben rappresentato dai vincoli prodotti dall’Unione Europea in tema di politiche di austerità.

Comunque, è arrivata la “risoluzione dei nostri problemi”, con l’approvazione del Piano di Ripresa e Resilienza Nazionale (PNRR). Vale la pena approfondirne i contenuti, gli assi di riferimento di fondo, la sua utilità ed efficacia.
Esso prevede uno stanziamento complessivo di circa 235 miliardi, suddivisi nelle sei missioni fondamentali: Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (50 mld), Rivoluzione verde e transizione ecologica (70 mld circa), Infrastrutture per una mobilità sostenibile (31,4 mld), Istruzione e ricerca (33.8 mld), Inclusione e coesione (29,6 mld), Salute (19,6 mld), non discostandosi di molto, sia per i capitoli che per le risorse assegnate, da quanto a suo tempo elaborato dal governo Conte. Su ciascuna di queste scelte ci sarebbe molto da dire, e in termini molto negativi.
Mi limito ad alcune considerazioni parziali: su digitalizzazione e innovazione, si assume questa priorità in modo acritico, senza alcuna riflessione sul modello sociale e produttivo che la diffusione dell’utilizzo delle tecnologie informatiche e dei Big Data comporta, in termini di controllo sociale e limitata creazione di occupazione. A quest’ultimo proposito, mi pare particolarmente suggestiva e passibile di utili riflessioni la notizia uscita recentemente per cui Apple ha varato il suo piano industriale da qui al 2026, prevedendo investimenti giganteschi, per ben 430 miliardi $, quasi il doppio del PNRR, per potenziare il proprio impegno nella ricerca hi-tech e nell’intelligenza artificiale, che, però, sono destinati a generare in tutti gli Stati Uniti solo 40.000 posti di lavoro, confermando la tendenza al disaccoppiamento tra investimenti e occupazione nei settori ad alta tecnologia.
In questa missione è inserita anche la voce “Cultura e turismo”, scelta che potrebbe apparire curiosa, ma che viene chiarita dallo stesso testo quando si scrive che ci si prefigge “l’obiettivo di rilanciare i settori economici della cultura e del turismo, che all’interno del sistema produttivo giocano un ruolo particolare, sia in quanto espressione dell’immagine e brand del Paese, sia per il peso che hanno nell’economia nazionale (il solo turismo rappresenta circa il 12% del PIL)”, vale a dire considerandoli sostanzialmente come fattori produttivi.

Per quanto riguarda la transizione ecologica, le risorse a favore delle energie rinnovabili sono decisamente insufficienti, con l’obiettivo di installare impianti per circa 5 GW da qui al 2026, mentre ne servirebbero almeno 25, supportando le politiche di ENI e SNAM che continuano anche per per il futuro a puntare sulle energie fossili, in primis il gas, e a progettare impianti come il CCS di Ravenna per ‘catturare’ e sotterrare la CO2 emessa, anziché evitare di produrla.

Sempre in questo capitolo, non è previsto un intervento efficace per contrastare il dissesto idrogeologico, mentre in tema di acqua e servizio idrico non si ragiona per risparmiare seriamente la risorsa, per esempio costruendo un vero Piano per la riduzione delle perdite delle reti, e si prospetta un nuovo intervento di ulteriori privatizzazioni, consegnando il Mezzogiorno alle grandi multiutilities di natura privatistica Hera, Iren, A2a e ACEA, cancellando così totalmente l’esito referendario di dieci anni fa.

Ancora: si stanziano risorse notevoli per l’Alta velocità, circa 28 mld, più di quanto va al tema della Salute, finanziato con un po’ meno di 20 mld, che non recuperano neanche i tagli effettuati negli ultimi 15 anni e che, soprattutto, dimostrano quanto poco si sia imparato dalla vicenda della pandemia.

Infine, vengono delineate una serie di cosiddette “riforme”, il vero oggetto del contendere con l’Unione Europea, ben più stringenti rispetto al documento del governo Conte: Riforma della Pubblica Amministrazione, riforma della Giustizia, Semplificazione e promozione della concorrenza, Riforma Fiscale e altre ancora, tutte ispirate ad una logica di apertura al mercato e di “liberazione” dai vincoli che lo ostacolano. Qui, in fondo, sta l’anima del Recovery Plan: un’idea di modernizzazione, trainata da una spinta all’innovazione e legittimata da una presunta conversione ecologica, che, però, ancora una volta assume come parametri e obiettivi l’idea della crescita quantitativa, della competitività e della concorrenza, della centralità dell’impresa e del mercato come regolatore fondamentale, peraltro da sostenere con il debito “buono” quando la crisi diventa troppo grave.

Il punto di fondo è che, però, non si vuole vedere – e tanto meno ammettere – che questo meccanismo non funziona più. Ce lo dicono gli stessi numeri del PNRR e del Documento di Economia e Finanza 2021: al di là della propaganda e della grancassa suonata in questi giorni, le stesse pagine del Recovery Plan stimano, nello scenario più ottimistico,  una crescita aggiuntiva cumulata proveniente dallo stesso da qui al 2026 del 3,6%, che vuol dire circa una media dello 0,6% in più ogni anno, mentre l’occupazione, sempre in termini cumulati, dovrebbe aumentare del 3,2%, il che, però, significa che solo nel 2024 si dovrebbe ritornare ai livelli occupazionali del 2019. Non una grande prospettiva, che poi viene decisamente aggravata se consideriamo l’andamento del debito pubblico: i dati – contenuti nel DEF ma non nel PNRR – dicono che nel 2024 saremo ancora agli stessi livelli registrati alla fine del 2020, attorno al 152% del PIL,  e si ritornerebbe alla situazione pre-Covid, vicino al 135% del PIL, solo nel 2032.

Qui sta un punto decisivo, quello che, passata la sbornia delle “più grandi risorse a nostra disposizione”, nel giro di qualche anno, potrebbe improvvisamente far diventare ‘cattivo’ il debito che oggi viene chiamato buono, riproponendo nuovi scenari di lacrime e sangue. Soprattutto se non verrà cambiato radicalmente il paradigma del Patto di Stabilità europeo in vigore fino all’inizio della pandemia e oggi sospeso probabilmente fino alla fine del 2022, che però comporta la revisione dei Trattati, la modifica profonda dell’ortodossia economica, che appare anch’essa solo sospesa e non abbandonata, la messa in campo di un’altra idea di Europa e del suo modello produttivo e sociale. Questo sarà probabilmente il vero terreno di scontro nei prossimi anni, utile a verificare una possibile svolta, che non c’è stata, a differenza dei tanti che l’hanno esaltata, con la creazione del Next Generation UE, fatto più per necessità che per virtù, come del resto è successo nella gran parte delle economie capitalistiche, a partire dagli Stati Uniti.

All’inizio del suo discorso alla Camera, il Presidente del Consiglio Draghi ha invitato a giudicare il Recovery Plan con gli occhi dei giovani, delle donne, delle persone sofferenti durante la pandemia. Proprio per questo, non posso che essere preoccupata e distante da chi, come questo governo, non riesce a usare lenti diverse, se non un po’ riverniciate, rispetto al passato per pensare al futuro. Che reclama, invece, un cambiamento radicale e la messa in discussione delle scelte di fondo che ci hanno condotto sino a qui e che si ritrovano, sia pure aggiornate, in questo Recovery Plan. E che per questo va respinto, anche con la mobilitazione sociale e politica, e riscritto. Stiamo provando a farlo ad un insieme di soggetti e movimenti che si sono aggregati ne La società della cura. Ne va, appunto, del nostro destino futuro.

Marilena Pallareti

Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute
Docente, Forlì

PDf http://www.lavoroesalute.org

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