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Altra Informazione, Blog, Comitati di Lotta, Cronache di Lavoro, Cronache Politiche, Cronache Sindacali, Cronache Sinistra Europea, Cronache Sociali, Culture, Politiche di Rifondazione, Storia e Lotte — Dicembre 28, 2018 9:56 am

Non ha occupato le prime pagine dei giornali e neanche le aperture dei telegiornali la notizia della morte ad Ancona del giovane afghano travolto, nel giorno di Natale, dalle ruote del tir sotto cui si era aggrappato per entrare in Italia. Evidentemente all’orrore ci si abitua velocemente. Ogni mese giovani e giovanissimi attraversano la frontiera adriatica e cercano di entrare senza alcuna possibilità di un passaggio legale. Si tratta di afghani, curdi, iracheni, pakistani, punjabi, siriani, che superano i blocchi di frontiera tirati su dalla Turchia con l’aiuto finanziario e politico dell’Ue: ragazzi e ragazzini che avrebbero nella quasi totalità diritto al riconoscimento di uno status di protezione internazionale. Siamo di fronte di fatto a veri e propri respingimenti collettivi per cui l’Italia è stata già condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo

Aggrappato alle ruote di un tir

Pubblicato da franco.cilenti

maurobiani

1. Un giovane che si presume afghano, probabilmente un minore non accompagnato (secondo alcuni media avrebbe poco più di vent’anni, ndr), è morto nel porto di Ancona dopo essere stato travolto, dopo lo sbarco, dalle ruote del tir sotto cui si era aggrappato per entrare in territorio italiano. Come riferisce il Corriere della sera, ”È accaduto nel pomeriggio del 25 dicembre tra via Flaminia e via Conca nella zona di Torrette ad Ancona dove il mezzo pesante è transitato dopo lo sbarco al porto. Il ragazzo, che non aveva documenti addosso, è stato soccorso dai sanitari del 118 e trasportato in ospedale dove però è deceduto”.

Da anni la frontiera adriatica, quella ubicata nelle aree portuali di Venezia, Ancona, Bari e Brindisi fa vittime, giovani e giovanissimi che cercano di entrare in Italia senza alcuna possibilità di un passaggio legale, provenienti in genere dalla Grecia (Patrasso o Igoumenitsa), dove già sono stati esposti ad abusi alle frontiere, e a lunghe permanenze in centri di accoglienza sovraffollati. Si tratta di afghani, curdi, iracheni, pakistani, punjabi, siriani, che hanno superato i blocchi di frontiera, praticati dalla Turchia con l’aiuto finanziario e politico dell’Unione Europea, e riescono ad imbarcarsi sui traghetti che salpano verso l’Italia.

Spesso, all’arrivo nei porti italiani, questi migranti, in molti casi minori stranieri non accompagnati, che si nascondono sotto o all’interno dei grandi Tir imbarcati sui traghetti , provenienti dai porti esteri dell’Adriatico, e in qualche caso dalla Turchia, sono scoperti dalla polizia e riconsegnati al comandante della nave per il respingimento immediato. Che avviene con la stessa nave con la quale sono arrivati, verso il porto di partenza. Succede da anni, con diversi governi, ma sulla base delle stesse prassi di polizia.

Rimane ancora in vigore l’accordo di riammissione tra Italia e Grecia, stipulato nel 1999 ai tempi del governo D’Alema, che prevede formalità semplificate per il riconoscimento, l’attribuzione dell’età ( in violazione della legge n.47 del 2018) e il respingimento immediato “con affido al comandante”.

Di fatto veri e propri respingimenti collettivi per cui l’Italia è stata già condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel 2014, con la sentenza pronunciata nel caso Sharifi, un precedente importante che però negli ultimi anni non è servito ad impedire che le autorità di polizia intensificassero gli sforzi per identificare i migranti allo sbarco, subito dopo l’arrivo dei traghetti nei porti adriatici, e preparare il loro respingimento immediato. Per molti di coloro che riescono a proseguire il viaggio, il sogno Europa finisce a Ventimiglia, o in territorio francese. Quando vengono bloccati finiscono in Hotspot come quello di Taranto o nei pochi CPR ( Centri per i rimpatri) ma non sono rimpatriati quasi mai e rimangono consegnati ad una condizione definitiva di irregolarità, anche a fronte dei più recenti orientamenti delle Commissioni territoriali e della abolizione della protezione umanitaria.

2. Malgrado l’aumento dei controlli, anche attraverso sonde termiche, e degli sforzi repressivi delle forze di polizia, le persone in fuga dalla Grecia, dove subiscono condizioni sempre più misere, continuano ad arrivare nei porti dell’Adriatico, anche a rischio di perdere la vita sotto le ruote del Tir al quale hanno affidato la loro speranza di fuga. Chi fallisce una volta e viene riportato indietro, ci riprova alla prima occasione possibile.

Si tratta di poche migliaia di persone che, in base alla situazione nei paesi dai quali provengono, avrebbero nella quasi totalità diritto al riconoscimento di uno status di protezione internazionale (asilo o protezione sussidiaria), non sono certo “migranti economici”, nuova categoria inventata ad arte per escludere una effettiva possibilità di accesso all’esercizio del diritto alla protezione. Eppure questi esseri umani, meglio chiamarli così, piuttosto che migranti, anche minori non accompagnati, vengono sistematicamente respinti e sono costretti a ricorrere a sistemi sempre più pericolosi per entrare in Italia. Molti di loro non vogliono neppure restare nel nostro paese, e per questo non presentano una domanda di asilo, cercando di proseguire con ogni mezzo, dopo lo sbarco, il loro viaggio verso il Nord Europa. Ma quando vengono bloccati sono trattati come “clandestini da espellere”. Oggi in tutta Europa si moltiplicano le “storie di resistenza” alle espulsioni in Afghanistan.

3. La Corte di giustizia dell’Unione Europea, in una decisione risalente a diversi anni fa, fornisce la interpretazione della direttiva 2004/83/CE sulle qualifiche di protezione internazionale, escludendo che ricada sui richiedenti l’onere della prova circa la situazione di violenza generalizzata nella regione di provenienza. La giurisprudenza europea afferma che non servono prove individuali per dimostrare l’esistenza di una minaccia individuale nei confronti del richiedente che chiede protezione ma è sufficiente valutare il grado di violenza indiscriminata nel paese dal quale si fugge (così Corte di giustizia europea sentenza depositata il 17 febbraio 2009). La Corte di giustizia ha specificato che l’art. 15 della direttiva 83/2004 “sugli standard minimi per il riconoscimento della qualifica di rifugiato e di protetto sussidiario”, in merito al concetto di “danno grave”, non presuppone che la minaccia sia individuale ma parla più in generale di violenza indiscriminata. La Grand Chambre della Corte di Lussemburgo, in merito alla questione posta dal giudice olandese, ha stabilito che l’esistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona non è subordinata alla condizione che quest’ultimo fornisca una prova concreta della minaccia personale. Per provare tale minaccia o tale rischio di incorrere in un danno grave è sufficiente determinare il grado di violenza indiscriminata che caratterizza un conflitto anche interno in corso, avvalendosi delle valutazioni delle autorità nazionali. La Corte di giustizia ribadisce dunque che, per riconoscere la protezione sussidiaria, è sufficiente valutare che il conflitto interno o generalizzato nel Paese di origine del richiedente, raggiunga livelli di violenza tali da  ritenere che il ritorno in patria, per la sola presenza sul territorio, possa comportare un rischio effettivo di subire minaccia. Secondo la Corte di Giustizia, la minaccia può riguardare «danni contro civili, a prescindere dalla loro identità, qualora il grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto in corso […] raggiunga un livello così elevato che sussistono fondati motivi di ritenere che un civile rientrato nel Paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la minaccia grave di cui all’art. 15, lett. c), della Direttiva».

La Corte di cassazione ha fatto più volte applicazione di tali principiribadendo che il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui all’art 14, lettera c), non è subordinato alla prova che il richiedente sia interessato in modo specifico dalla minaccia grave alla vita o alla persona in ragione di elementi peculiari della sua situazione personale. Non è necessario, cioè, che il richiedente asilo «rappresenti una condizione caratterizzata da una personale e diretta esposizione al rischio quando è possibile evincere dalla situazione generale del paese che la violenza è generalizzata e non controllata».

Riguardo al caso dei ricorrenti del procedimento Sharifi contro Italia e Grecia, la Corte europea di Strasburgo aveva chiesto al Governo italiano di provare, sulla scorta di quanto dichiarato dai ricorrenti medesimi, che il respingimento e l’eventuale “espulsione” in Afghanistan non li avrebbe esposti al rischio di subire trattamenti inumani o degradanti. Le argomentazioni della difesa dello stato non avevano evitato la condanna dell’Italia.

Adesso, dopo anni da quella decisione, questo tema ritorna di attualità. Bisogna impedire che una volta formata una lista di “paesi terzi sicuri” come ormai sarà possibile con i prossimi decreti attuativi del decreto legge 133 del 4 ottobre 2018, adesso convertito nella legge (Salvini) n.132 del 1° dicembre 2018, con la probabile individuazione di aree interne sicure, questa pratica dei respingimenti sommari alle frontiere portuali dell’Adriatico possa intensificarsi ulteriormente. Con il rischio di innescare una serie di respingimenti “a catena”. Magari verso l’Afghanistan, paese che qualcuno si accinge a ritenere “sicuro”, almeno a Kabul, dove tuttavia si muore anche per andare a scuola.

Il Governo italiano non può sostenere ancora una volta, come tentò nel caso Sharifi davanti la Corte di Strasburgo, con affermazioni generiche e prive di riscontri obiettivi, che in Afghanistan la situazione sarebbe ritornata, almeno in determinate regioni, sufficientemente “tranquilla”, e tale da rendere “sicuri “i rimpatri e respingimenti, che la Grecia, a sua volta potrebbe riprendere, senza tenere conto della condanna subita nel caso Sharifi. La futura “lista di paesi terzi sicuri” che dovrebbe essere introdotta in Italia entro qualche mese, per decreto ministeriale, risulta in forte contrasto con la portata più ampia dell’art. 10 della Costituzione italiana. Occorre prepararsi per sollevare una valanga di ricorsi non appena venga approvato il relativo decreto, per impedire che possa fare altre vittime, come quelle che si sono registrate in altri paesi europei che ne fanno uso. Qualcuno infatti dopo l’espulsione in Afghanistan si è impiccato. E molti degli espulsi sono stati uccisi.

4. Tutti coloro che sono scoperti a bordo dei traghetti provenienti dalla Grecia o sui Tir subito dopo lo sbarco, e riconsegnati dalle autorità italiane ai comandanti delle navi, vengono rinchiusi all’interno di spazi angusti con possibilità molto limitata di accedere ai servizi igienici. La cabine in cui i migranti vengono detenuti sono estese pochi metri quadrati e sono sovente vicine al vano motori dove si raggiungono temperature assai elevate. Al loro interno sono rinchiuse diverse persone tra le quali ci sono spesso anche minori, donne e bambini. Il viaggio da Venezia alla Grecia ha la durata di 33 ore, quello da Ancona di 22 e quello da Bari di 17. Durante tutto il periodo di trattenimento, che va dal momento del rintraccio dei migranti sulla banchina o nel traghetto, fino al loro arrivo in Grecia, alla totalità dei migranti è negato l’accesso alla assistenza legale, la possibilità di comunicare con un interprete, la benché minima informazione sui propri diritti, e pertanto anche la possibilità di avanzare una richiesta di asilo politico. Non è consegnata loro alcuna informativa in merito alle procedure cui vengono sottoposti, tanto meno viene notificato loro un provvedimento di respingimento formale, scritto, motivato e tradotto avverso il quale poter proporre ricorso. Spesso dei respingimenti non rimane neppure traccia nei registri della polizia, come prescriverebbero invece la normativa italiana e il diritto internazionale.

Per coloro che non hanno voce, anche quando sopravvivono al viaggio e al respingimento sui traghetti, chiediamo che l’Unione Europea modifichi i suoi accordi con la Turchia in modo di garantire canali legali di ingresso. Chiediamo che si dia completa attuazione agli impegni di rilocazione in diversi paesi europei assunti con l’Agenda europea sulle migrazioni del 13 maggio 2015, e poi disattesi. Occorre concedere poi la possibilità di identificazione e di accesso alla procedura di protezione internazionale, sia nei porti greci che in quelli italiani, ponendo fine alla pratica dei respingimenti collettivi sulla base degli accordi bilaterali vigenti tra Italia e Grecia, che vanno immediatamente modificati, in modo da impedire i respingimenti collettivi vietati dal Quarto protocollo allegato alla CEDU) e i respingimenti di minori, vietati dall’art. 19 del vigente Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998.

Di fronte alla gravità e al ripetersi delle procedure di riammissione dai porti italiani verso la Grecia è evidente che le vittime di queste prassi “informali” ben difficilmente possono fare valere con ricorsi individuali i loro diritti fondamentali, dal diritto alla vita e alla salute, ai diritti di comprensione linguistica e di protezione internazionale. La rapidità delle procedure di allontanamento forzato dalle aree portuali di Ancona e di altri porti dell’Adriatico, riesce a impedire persino l’intervento delle organizzazioni umanitarie” convenzionate” con le prefetture locali.

Dopo il respingimento a Patrasso le persone allontanate dalle frontiere marittime dell’Adriatico, comprese donne e minori, vengono “sistemati” in container ubicati all’interno della zona portuale, o sono trasferite in centri di detenzione, e le possibilità di fare richiesta di asilo o di presentare un ricorso individuale sono nulle.

5. Va ricordato che, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, sono espulsioni collettive tutte quelle misure che obbligano gli stranieri “in quanto gruppo” a lasciare un Paese. Se il divieto vale per le espulsioni disposte con formale provvedimento amministrativo, non può non valere parimenti quando l’effetto sia raggiunto attraverso un mero comportamento di fatto, attuato dalle autorità statali.

Occorre invece promuovere i canali umanitari ed evacuare urgentemente verso tutti i paesi europei che si dichiarino disponibili decine di migliaia di persone intrappolate in Grecia, oltre che per effettodegli accordi, ammesso che si possano definire tali,tra Unione Europea e Turchia, da gravi lacune nel sistema nazionale greco dell’asilo.

Queste richieste si inquadrano nell’ambito di una revisione sostanziale del vigente Regolamento Dublino, anche oltre le modeste aperture apportate dalla Proposta di modifica approvata quest’anno dal Parlamento europeo. Non si può prevedere quando questa revisione del Regolamento Dublino potrà realizzarsi, probabilmente mai più, considerando le posizioni dei paesi europei “sovranisti” (seppure in forte contrasto tra loro proprio su questo punto) e le incombenti elezioni europee, in occasione delle quali ciascun partito populista e nazionalista darà sfogo alle pulsioni più basse del corpo elettorale. Rimane anche in questo caso da sostenere l’impegno collettivo per organizzare sistemi di accoglienza transitoria autogestita, possibilità concrete di mobilità verso altri paesi europei, e strumenti di difesa legale che possano essere adottati nell’immediatezza della scoperta di migranti irregolari a bordo dei Tir che sbarcano dai traghetti provenienti dalla Grecia o a bordo degli stessi traghetti, prima dello sbarco.

Fulvio Vassallo Paleologo

Avvocato, componente del Collegio del Dottorato in “Diritti umani: evoluzione, tutela, limiti”, presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Palermo. È componente della Clinica legale per i diritti umani (CLEDU) dell’Università di Palermo

27/12/2018 www.a-dif.org

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