AIDS 2016 – Secondo Bollettino

AIDS2016

Obiettivo 90-90-90: porre fine all’epidemia di AIDS pediatrico

Alla 21° Conferenza Internazionale sull’AIDS (AIDS 2016) è stata proposta una nuova strategia per porre fine all’epidemia da HIV in bambini e adolescenti.
Obiettivo di questa strategia è far sì che bambini e adolescenti non restino esclusi dagli sforzi per raggiungere l’obiettivo 90-90-90 (90% delle infezioni da HIV diagnosticate, 90% delle persone trovate HIV-positive in trattamento, 90% di queste ultime con carica virale soppressa): essa prevede che, nel giro di due anni, la terapia antiretrovirale (ART) venga resa disponibile a 1,6 milioni di bambini e 1,2 milioni di adolescenti.
Il presupposto di questa strategia è la consapevolezza che l’erogazione della ART a bambini e adolescenti presenta delle particolari criticità.
Il primo passo è aumentare i tassi di diagnosi. I test di tipo point-of-care (ossia sul sito di cura del paziente) diventeranno sempre più diffusi, e ci saranno più occasioni di eseguire il test anche al di fuori delle strutture sanitarie tradizionali.
È opportuno che la ART sia disponibile a tutti i bambini e gli adolescenti, a prescindere da età e conta linfocitaria. Un’altra priorità è poi la semplificazione dei regimi.
In questi pazienti, ottenere la soppressione virale può essere difficoltoso, in parte per via di problemi legati all’aderenza, ma anche a causa delle farmacoresistenze. Tuttavia l’introduzione di innovazioni nell’erogazione dei servizi (ad esempio l’istituzione di centri di cura gestiti da personale infermieristico o l’integrazione del sostegno inter pares) può contribuire a migliorare la ritenzione in cura e gli outcome terapeutici.
Agire subito, è stato detto ai delegati, è un imperativo morale.
A confermare l’importanza di un’azione tempestiva in proposito è anche un nuovo studio. Come affermato alla Conferenza, in Sudafrica l’epidemia da HIV sta assumendo dimensioni preoccupanti soprattutto tra i giovanissimi – tanto che si parla di ‘bolla giovanile’. I tassi di trasmissione verticale sono infatti in diminuzione, e la sopravvivenza dei bambini nati HIV-positivi è notevolmente migliorata. Dati raccolti tra il 2004 e il 2014 confermano questa nuova tendenza nella demografia dell’epidemia nel paese, oggi che i bambini nati HIV-positivi nei primi anni Duemila iniziano a raggiungere l’adolescenza e il tasso di infezioni da HIV tra gli adolescenti resta elevato.
Nel passaggio dalle cure pediatriche – o comunque da servizi più tagliati sulle loro necessità – a servizi orientati a pazienti adulti, i giovani incontrano spesso difficoltà a rispettare le visite di controllo periodiche e ad aderire alla terapia. Occorre dunque che nei programmi terapeutici nell’Africa subsahariana si inizi a tener conto delle esigenze di questa fascia di popolazione sempre più colpita dall’infezione.
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Articolo di aidsmap.com sulla nuova strategia per porre fine all’AIDS pediatrico entro il 2020
Articolo di aidsmap.com sull’epidemia tra gli adolescenti in Sudafrica: i programmi terapeutici devono prepararsi ad affrontare una ‘bolla giovanile’

Trattamento come prevenzione: dal follow-up dello studio PARTNER ulteriori conferme del rischio di trasmissione zero
I nuovi dati dello studio PARTNER, che analizza l’infettività dei pazienti che assumono la terapia antiretrovirale e hanno raggiunto la soppressione virologica, confermano ulteriormente che gli individui con carica virale non rilevabile abbiano pochissime probabilità di trasmettere il virus HIV ai partner sessuali: il rischio di trasmissione potrebbe perfino essere pari a zero.
PARTNER è uno studio condotto su coppie sierodiscordanti (in cui, cioè, uno solo dei partner è HIV-positivo) con l’obiettivo di verificare l’efficacia deltrattamento come prevenzione. I risultati pubblicati nel 2014 mostravano che non si era verificato neanche un evento di trasmissione dopo un rapporto sessuale non protetto quando il partner HIV-positivo presentava una carica virale non rilevabile.
Gli ultimi dati riguardano 888 coppie, il 38% delle quali formate da uomini gay. Ogni coppia è stata seguita in media per 1,6 anni.
Si sono effettivamente verificate 11 nuove infezioni, ma dal sequenziamento virale è emerso che, in ognuno di questi casi, il virus dell’individuo prima HIV-negativo era molto diverso da quello del partner, il che fa propendere per l’ipotesi che sia stato contratto da un’altra relazione.
Si tratta di un’analisi statistica, e di conseguenza i ricercatori non sono ancora pronti ad affermare che, in presenza di soppressione virale, il rischio di trasmissione sia pari a zero, ma è più che probabile: resta comunque degno di nota il fatto che non si sia verificato alcun evento di trasmissione nelle coppie, sia gay che etero, quando la carica virale del partner HIV-positivo non era rilevabile.
Lo studio si protrarrà per un altro anno: i risultati finali sono attesi per il 2018.
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Obiettivo 90-90-90: abbandono delle cure HIV in Sudafrica meno diffuso di quanto non si pensasse
Pare che i ricercatori abbiano ampiamente sottostimato la percentuale di persone HIV-positive in Sudafrica che non abbandonano il percorso di cura. La ritenzione in cura è un elemento chiave della cosiddetta treatment cascade dell’HIV, ed è fondamentale per il raggiungimento dell’obiettivo 90-90-90.
Dagli studi condotti in singoli centri medici emergeva costantemente che le percentuali di pazienti che abbandonavano le cure erano elevate.
È tuttavia possibile che questo tipo di studi non forniscano un quadro reale della situazione, dato che normalmente non tengono conto delle persone che si trasferiscono ad altre strutture assistenziali.
Un gruppo di ricercatori ha pertanto deciso di passare in rassegna i dati raccolti dall’Health Laboratory Service del Sudafrica, che dispone di informazioni su oltre 9 milioni di individui, compresi i 3 milioni che ricevono la ART.
È stato preso in considerazione un campione di circa 67.000 persone che hanno iniziato la terapia tra il 2004 e il 2005.
Secondo i risultati degli studi precedenti, quelli circoscritti a singole strutture sanitarie, a distanza di nove anni solo il 17% di loro sarebbe dovuto essere ancora in cura; ma ampliando l’analisi si è osservato che la percentuale effettiva di persone che continuava ad accedere ai servizi sanitari dopo nove anni si attestava sul 54%.
Le donne sono risultate più propense a rimanere in cura rispetto agli uomini. Nel complesso, lo studio dimostra che la migrazione interna è un fenomeno molto diffuso tra le persone HIV-positive in Sudafrica.
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Violenza sessuale associata con acquisizione dell’HIV nelle immigrate africane in Europa
Le donne immigrate dall’Africa che hanno contratto il virus dell’HIV dopo il loro arrivo in Francia sono risultate avere una probabilità di aver subito violenza sessuale quattro volte maggiore rispetto alle altre immigrate.
Dallo studio emergerebbe come la violenza sessuale sia un importante fattore di rischio di acquisizione dell’HIV per le immigrate che vivono in Europa.
Lo studio ha coinvolto circa 1000 donne, tutte nate in Africa e ora residenti nell’area di Parigi, che sono state intervistate sulla loro vita, con domande su eventi verificatisi prima e dopo la loro migrazione in Francia.
Complessivamente, erano 156 le donne che hanno contratto l’HIV dopo il loro arrivo in Francia: il 24% aveva subito rapporti forzati, e il 15% di queste ultime dichiarava che la violenza era avvenuta in Francia.
A dichiarare più frequentemente di aver subito violenza sono risultate le donne che erano state minacciate nel loro paese d’origine, oltre che quelle senza fissa dimora o che vivevano in famiglia o presso amici.
Sono inoltre risultate particolarmente vulnerabili alla violenza sessuale nel corso del primo anno dopo l’arrivo in Francia e nel periodo dell’esordio sessuale.
Da uno studio separato emerge che è alto il numero di migranti che ha contratto l’HIV dopo l’arrivo in Europa. In Italia, Svezia e Belgio, le percentuali variano tra il 23 e il 29%, mentre quella del Regno Unito è ancora più elevata, il 43%.
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Nuovi dati sul ricorso alla PrEP negli Stati Uniti
Dai dati raccolti presso farmacie statunitensi emergerebbe che negli ultimi quattro anni oltre 79.000 persone hanno iniziato ad assumere la profilassi pre-esposizione (PrEP) a base di Truvada (tenofovir/emtricitabina) negli Stati Uniti. Il ricorso alla PrEP è risultato particolarmente elevato tra i maschi gay residenti in grandi città, ma meno frequente in altri gruppi di popolazione.
Negli Stati Uniti, la PrEP è stata approvata nel 2012. L’adesione inizialmente è stata lenta, ma è aumentata vertiginosamente dal 2013, quando maschi gay e bisessuali hanno iniziato a promuoverla all’interno delle loro comunità.
Per avere un quadro più chiaro della situazione attuale, un gruppo di ricercatori della Gilead, la casa farmaceutica che produce il Truvada, ha svolto un’indagine presso le farmacie dove è disponibile la PrEP negli Stati Uniti.
È risultato che, tra il 2012 e il 2016, oltre 79.600 persone hanno iniziato ad assumere la terapia profilattica.
Oltre 60.000 prescrizioni erano per individui di sesso maschile, e il trattamento veniva iniziato a un’età media di 33 anni.
Più della metà delle prescrizioni totali si concentravano in cinque stati – California, New York, Texas, Florida e Illinois.
I risultati sembrerebbero indicare che la PrEP non abbia ancora raggiunto alcune popolazioni a rischio particolarmente elevato di contrarre l’HIV, come i giovani maschi neri gay e bisessuali, soprattutto quelli che vivono negli Stati sudorientali.
Si tratta tuttavia di cifre probabilmente inferiori ai valori reali, e che dunque sottostimerebbero la diffusione del ricorso alla PrEP negli Stati Uniti, dato che non è stato possibile raccogliere dati sull’uso dei farmaci senza prescrizione.
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Servizi di prevenzione e trattamento per sex workers
Uno studio randomizzato su sex workers non è riuscito a provare che il potenziamento dell’offerta di ART e PrEP incida positivamente sulla soppressione della carica virale.
Una possibile spiegazione è che i servizi e il sostegno offerto alle donne che facevano parte del gruppo di controllo erano di per sé già sufficienti a migliorare sensibilmente i loro outcome sanitari.
È raro che i/le sex workers, che pure sono particolarmente vulnerabili all’infezione, possano fruire di assistenza sanitaria completa e servizi di prevenzione dell’HIV.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda che i servizi prevedano la fornitura di preservativi e altri contraccettivi, l’offerta di test HIV e counseling, l’invio a servizi specializzati nell’assistenza di persone HIV-positive, la terapia delle infezioni sessualmente trasmesse (IST), supporto legale e sostegno inter pares.
Nello studio in questione, questi servizi rappresentavano l’offerta standard, mentre l’altro braccio ha ricevuto un’offerta potenziata, che comprendeva l’erogazione della ART presso un centro specializzato per l’assistenza a sex worker HIV-positive, l’offerta di PrEP, un servizio di promemoria inviati per SMS alle donne che erano risultate HIV-negative per invitarle a sottoporsi nuovamente al test, un servizio di supporto per l’aderenza sia alla ART che alla PrEP e una serie di attività di mobilitazione nelle loro comunità.
Lo studio è stato condotto in Zimbabwe: l’endpoint era la percentuale di sex workers con livelli di carica virale potenzialmente infettivi, definiti in un valore superiore alle 1000 copie/ml.
I risultati confermano che le sex worker dello Zimbabwe sono esposte a un rischio estremamente elevato di contrarre l’HIV.
All’inizio dello studio, il 30% delle partecipanti di ambo i bracci presentava una carica virale superiore al valore di 1000 copie/ml.
Durante il follow-up, però, questa percentuale è calata al 16% nel braccio di partecipanti che ha ricevuto servizi potenziati e al 19% nel braccio di controllo: la differenza tra i due bracci non è statisticamente rilevante.
La treatment cascade ha mostrato buoni risultati: è stato diagnosticato l’80% delle infezioni stimate nelle donne di entrambi i bracci dello studio; di queste, l’83% ricevevano la ART e l’89% di queste ultime erano riuscite ad abbattere la carica virale sotto la soglia di rilevabilità.
Le partecipanti hanno mostrato qualche perplessità e qualche sospetto nei confronti della PrEP, ma il supporto di altre sex workers ha contribuito a far emergere ed affrontare le loro preoccupazioni.
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Aumenta la criminalizzazione dell’HIV
Secondo una nuova indagine, è in aumento il numero di paesi che criminalizzano la mancata comunicazione dello stato di positività all’HIV al partner sessuale. I risultati sono stati presentati nel corso di un incontro preliminare intitolato Beyond Blame, tenutosi questa settimana a Durban.
Settantadue paesi del mondo e 30 dei 50 Stati USA hanno leggi che criminalizzano la mancata comunicazione dello stato di positività all’HIV o la trasmissione dell’infezione.
In 61 paesi sono note azioni giudiziarie per mancata comunicazione, (presunta) esposizione di terzi all’HIV e trasmissione non intenzionale del virus. Tra questi paesi, 26 hanno leggi specifiche sull’HIV, mentre in altre giurisdizioni vengono applicate le normative in vigore in materia sanitaria o penale.
Nell’Africa subsahariana sono ad oggi 30 i paesi che hanno leggi ad hoc per la criminalizzazione della trasmissione dell’HIV o della mancata comunicazione dello stato di positività.
Tra i fattori che contribuiscono alla criminalizzazione delle persone con HIV si possono annoverare paura, panico morale, stigma e gli interventi compiuti dalle autorità per limitare l’autonomia sessuale dei singoli.
Alla Conferenza sono state portate testimonianze dell’impatto devastante che può avere sulla vita di una persona l’essere perseguita per la mancata comunicazione del proprio status di positività all’HIV.
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Studio su un vaccino per l’HIV al via nella seconda metà di quest’anno
Alla Conferenza è stato annunciato uno studio per testare l’efficacia di un vaccino per l’HIV, con avvio previsto per la seconda metà di quest’anno.
Lo studio, denominato HVTN 702, recluterà 5400 uomini e donne in Sudafrica; la durata prevista è di quattro anni.
L’efficacia del vaccino è già stata indagata in uno studio pilota ancora in corso, denominato HVTN 100, condotto su 252 partecipanti sempre in Sudafrica, con 42 di loro che ricevevano un placebo. I primi risultati sembrano promettenti, dato che in tutti i partecipanti si è avuta una risposta anticorpale e in oltre la metà di loro anche una risposta in termini di CD4.
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Il bollettino – in formato pdf – è disponibile cliccando qui.

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