Al diavolo con le loro gambe

Dieci anni fa una minaccia grossa è arrivata a Marradi: il cinipide del castagno, l’insetto più nocivo che attacca le gemme delle piante. Per il comune di 3.000 abitanti dell’Alto Mugello sull’Appennino che guarda la Romagna, ma che sta ancora in Toscana, ricco del suo mare di castagni rischiava di essere una vera e propria pestilenza. Se una terra ha una coltura ne porta in grembo anche la cultura e così grazie al professor Elvio Bellini di Marradi, conoscitore del castagno a livello mondiale e fondatore e direttore del Centro Studi e Documentazione sul Castagno è stato trovato l’antagonista e si è scampato il pericolo. 

Nel frattempo il Centro Studi sul Castagno a Cuneo in Piemonte ha iniziato a studiare gli innesti per rendere il castagno come frutteto, ad addomesticarlo, a togliergli il selvatico, il boschivo e a renderlo meno attaccabile dalle malattie. Ne è nato il bouche de Betizac che popolano giardini di castagni piuttosto bassi, che fa marroni grossi come grandi bocche, che non sono soggetti alla stagione, che sono sempre primizie, che però non hanno sapore. Il Centro Studi del Nord ha comunque certificato il Marrone di Marradi come il migliore al mondo. Un certificato di qualità e protezione che inorgogliva il territorio e pareva mettere al riparo da tutto.

Invece fra Natale e Capodanno le operaie sono state chiamate dai sindacati: vogliono delocalizzare la fabbrica a Bergamo. La notizia è corsa fra una decina di dipendenti e una novantina di stagionali per lo più donne. Ma poi è risuonata nell’indotto: la fabbrica garantisce lavoro ai raccoglitori di marroni, ai proprietari di castagneti, alle botteghe enogastronomiche. In poco tempo tutto il paese sa, perché tutto il paese è collegato a quella fabbrica: ha conoscenti, parenti, amici che ci lavorano direttamente o meno. Il paese è anche quella fabbrica. Il paese è scioccato come le sue operaie.

«Stavo facendo le composizioni natalizie a lavoro quando mi ha chiamato mia mamma. La sentivo strana, quasi non voleva dirmelo, poi ha ceduto» mi dice Elisa, figlia di Libera operaia della fabbrica di marroni da 35 anni. Elisa è nata nell’84 come la fabbrica. «Io sono cresciuta con questa storia qua. Su questa strada che non era asfaltata venivo a incontrare mia mamma all’uscita della fabbrica per poi andare a fare il bagno al fiume. Mi ferisce che vogliono portare via un pezzo di storia del paese. E mi ferisce anche per il lavoro che faccio». 

Elisa lavora per Agricomes, una cooperativa sociale agricola, nata a servizio della Comunità Sasso Montegianni di Marradi come strumento di inserimento lavorativo. Una cooperativa di recupero dalla tossicodipendenza sviluppata negli anni Ottanta intorno alla diffidenza, ma che ha costruito nel tempo una realtà lavorativa molto estesa nel territorio e che riguarda molti servizi locali. «Noi lavoriamo sul concetto di filiera corta, di chilometro zero, di rispetto e facciamo molta fatica a conciliare tutti gli aspetti e mantenerci. E qua, dietro questi cancelli c’è un valore riconosciuto a livello nazionale e vogliono farla diventare un fantasma?».

Molte operaie mi raccontano che i loro figli hanno fatto qualche stagione in fabbrica, poi hanno trovato lavoro a Faenza o altrove. Anche il fratello di Elisa ci ha lavorato per qualche stagione. Elisa ha fatto un colloquio lo scorso anno. Nulla sembrava presagire una decisione in tal senso, anche se alcune mi dicono che a ripensarci adesso avevano cambiato un po’ il modo di lavorare, con meno scorte, quasi a preparare lo stop. 

«La castagna è stato il pane dei nostri vecchi. Farine e zuppe di marroni spezzettati a placare la fame. Il marron glacé non lo avevo mai mangiato» mi dice Donatella, un’operaia dell’Ortofrutticola del Mugello, che dai primi anni Novanta lavora il marrone nel prodotto di pasticceria più lussuoso per quel frutto. La fabbrica dei marroni, come viene nominata da tutti, nasce a Marradi negli anni Ottanta dalla famiglia Battistini e il marrone viene lavorato solo come pelatura. Nei primi anni 2000 viene acquistata dal campano De Feo che trasferisce la pelatura ad Avellino e a Marradi ritorna il prodotto surgelato che viene lavorato come marron glacé e inscatolato per andare in tutto il mondo anche per noti marchi come Caffarel, Lindt, Virginia, Vergani. De Feo ha problemi di salute e nell’agosto del 2020 la fabbrica viene acquistata da Italcanditi di Bergamo di proprietà al 70% del fondo Investindustrial che fa capo ad Andrea Bonomi. Le promesse sono di aumentare la produzione, investire e assumere e di diversificare il prodotto ad esempio facendo la marmellata di marroni. Il fatturato è sempre attivo, il commercio del prodotto riguarda Giappone, Messico, Francia. Gli stagionali hanno contratti sempre più lunghi. La nuova direzione però non si fa mai vedere in fabbrica, neppure per dare la notizia della delocalizzazione. 

«I sindacalisti ci hanno raccontato che erano in riunione presso un’altra azienda e che avevano visto una chiamata col prefisso di Bergamo. Credendo fosse un call center non avevano risposto. Poi vedendo che insistevano lo hanno fatto. Non era neppure la proprietà, ma un loro consulente. È una vecchia storia quella di non guardarci in faccia per darci decisioni già prese. Eravamo in ferie dal 23 dicembre e dovevamo rientrare il 10 gennaio» mi racconta Sonia, operaia. 

È una ferita collettiva la notizia, ma la reazione è immediata. Si diffonde l’idea che a tutti stiano rubando qualcosa e che bisogna reagire. Poche ore dopo le telefonate c’è già un tendone davanti alla fabbrica e le bandiere dei sindacati. Poi arrivano i tavoli, i sebac, qualche camper per la notte, le stufe e i braceri. L’abbraccio della comunità è forte e inaspettato. La Marradese calcio sposta gli allenamenti nel prato davanti alla fabbrica, si dice la messa con quattro preti, gli Alpini preparano 300 polente, un uomo si mette a fare le bruciate per chi arriva al presidio, due olandesi che vivono a Marradi portano le chitarre e suonano intorno al fuoco, arrivano delegazioni di altri luoghi di lavoro a portare striscioni e sostegno. C’è un faldone che raccoglie le firme di chi passa di lì in solidarietà. C’è anche il Collettivo di Fabbrica della Gkn di Campi Bisenzio in assemblea permanente da luglio e che invitano a insorgere e convergere le lotte. 

Un bambino chiede a sua mamma «Cosa vuol dire presidio?». Si torna a maneggiare parole che parevano dimenticate. Ognuno fa quel che può e che sa fare e nel farlo si alimenta energia, ci si incoraggia e si impara. «Io non so parlare, ma poi alla fine ti viene» mi dice un’operaia vedova ancora lontana dalla pensione perché ha soltanto trent’anni di contributi. 

Al ridosso della fine dell’anno, con le ferie, col freddo e i contagi che decimano le presenze: non poteva capitare nel periodo peggiore. Nella notte fra il 5 e il 6 gennaio nevicava, la tenda si è sgonfiata. Alle 3.30 le operaie di turno al presidio hanno chiamato il sindaco che ha attivato la protezione civile. Non si sono fatte prendere dallo sconforto, in fondo sono abituate quando si guastano i macchinari e c’è un solo meccanico non sempre presente. Alle 5.30 erano già attive a preparare la colazione per il presidio. 

«Ci eravamo adagiati, ma da domani bisogna dargli ancora più valore. È come quando hai preso una scossa. Bisogna svegliarsi. Ora ci mettiamo di buona lena e che so, facciamo delle merendine buone, degli snack salutari che possono mangiare anche i celiaci. Insomma dal disastro bisogna che ne esca qualcosa di buono» mi dice Elisa. Sua mamma mi sorride, ma non si ferma un attimo. A Gennaio aveva l’appuntamento al patronato per farsi fare i conteggi sulla pensione. Ha sessant’anni e dovrebbe essere vicina. Eppure vorrebbe riuscire a coinvolgere più giovani operaie, non si risparmia anche nelle discussioni. 

Guardo i brick di acqua sui tavoli al presidio. Sono di un’azienda startup di Marradi, Acquainbrick, nata da poco tempo. L’idea è di utilizzare acqua di sorgente del territorio e ridurre l’impatto ambientale utilizzando materiale più riciclabile della plastica. Troppo spesso si ha l’idea della montagna come qualcosa che non evolve mai, che non sa reinventarsi o valorizzare ciò che ha. 

Parlo anche con Walter che in un periodo della vita ha tirato su un birrificio artigianale. Vide una birra a base di castagna e pensò: «ma possibile che non lo produciamo qua che siamo così ricchi di questo frutto?». Walter da una mano al presidio e mi dice che il morale è alto e che si tenta di risolvere le questioni «alla marradese». Cerco di farmi spiegare e capisco che come terra di confine sono abituati ad arrangiarsi e a interpretare a modo loro certe disposizioni. 

Sara fa la guida ambientale, ha passato infanzia e adolescenza a Marradi e ora vive a Faenza. Ha imparato a guidare lungo la strada dritta che costeggia la fabbrica, che bisognava andarci quando non uscivano le operaie per non rischiare di metterle sotto. Ha vissuto personalmente una delocalizzazione di una grande azienda e ora quando può sta al presidio a dare una mano, a imbastire relazioni per dare visibilità e quindi forza a questa vertenza. Sara è venuta alla stazione di Marradi per darmi un passaggio per andare insieme al presidio. Abbiamo scherzato sul treno che stranamente era in orario. Qua come in tutto il Mugello, bucato dal treno veloce che passa e se ne infischia, il treno lento con pochi vagoni è diventato sempre più un’incognita. Commentavamo insieme ad altri cittadini marradesi che già è dura barcamenarsi quando tagliano servizi, se poi non c’è neanche più il lavoro, di che si vive e come in Appennino?

Nicoletta è l’operaia stagionale che appena ho varcato il tendone del presidio mi ha messo in mano un marron glacé. Non mi ha detto nulla se non un flebile «tieni». Non c’è bisogno di tanti discorsi, quello che fanno sta lì, piccolo e lucido fra le mie mani. Nicoletta mi aveva lasciato lì in piedi e si era messa a sistemare. Non mi ha chiesto neppure se mi era piaciuto, non hanno bisogno di conferme. L’ho ritrovata un po’ di ore dopo, quando calava la sera e il freddo e il fuoco nei bidoni iniziava a scoppiettare illuminando lo striscione «Non ci rompete i marroni». Mi ha indicato la collina oltre la fabbrica.

«Quello là dove vedi quella casa si chiama Bastia. C’era il podere del mio babbo. Portavo le bestie al pascolo a cinque anni e invidiavo mia sorella che aveva due anni più di me e sapeva leggere e così era esente da quel lavoro. Dico questo per dire che non ho fatto una vita agiata, ma faccio parte di una generazione che non ha fatto niente per il paese. Se penso anche alle battaglie delle donne, alla Liberazione, a quelle morte in fabbrica, al ’68, noi in confronto cosa abbiamo fatto? Noi abbiamo goduto di conquiste e ideali di altri. Abbiamo attinto da questo capitale capisci? Lì per lì sentendo le battaglie più grosse delle nostre in tv, ho pensato che siamo un granellino, ma poi, mi sono detta: qua c’è tutto. In questa piccola realtà ci sono tutti i discorsi che sentiamo. Il lavoro delle donne, le zone disagiate, il ripopolamento della montagna, il turismo agricolo e sostenibile, il prodotto dop. Se passano qua, possono fare tutto. Se non andrà bene qui, tutti questi discorsi che senso avranno? E mi sono detta che se almeno non servisse a me, che serva a qualcun altro perché tutto questo sistema non funziona. A volte dico che andrebbe preso il moschetto per andare con quello a Roma». 

Nicoletta insegna ad arrampicarsi, sta appesa alla roccia, sa cosa significa fidarsi degli altri, stare collegati e attaccati per non precipitare. La montagna e quel suo scalare le ha insegnato molto sulla comunità, sulla classe, sullo stare insieme. Mi mostra il suo camper e mi fa sentire che dentro è caldo. Mi racconta del suo lavoro e che comunque, pur salvandolo, andrebbe rigirato come un calzino. «I marroni nascono qua, ma vengono pelati altrove. Fanno dei viaggi immensi e poi ritornano. Abbiamo bancali di imballaggi. Prendiamo scatole, le rompiamo, lavoriamo e poi rimpacchettiamo. Ogni marchio ha la sua confezione ed è assurdo. Siamo donne e stiamo molto attente a riporre con cura gli scarti, ma sono sempre rifiuti. Produciamo un sacco di rifiuti che poi ce li ritroviamo in casa. È un circuito terribile. Potrei lavorare meno se questo prodotto fosse meno confezionato. La tecnologia dovrebbe aiutarci a farci lavorare meno, a curarci, a migliorarci la vita. Invece stiamo creando dei cortocircuiti. Il lavoro deve far parte della mia vita, ma non è la mia vita».

Al presidio avevo notato alcuni con delle grandi scatole bianche sottobraccio: le confezioni finali ricche di imballi dei marron Glacé. Sono tante le istituzioni che si sono presentate al presidio, hanno scattato foto di gruppo o selfie, hanno speso parole di impegno. Come insegna la vertenza della Gkn, soprattutto nella fase iniziale c’è molta frequentazione di esponenti politici di ogni colore e ruolo, poi va visto come si spendono nell’azione vera e propria a sostegno delle lotte, soprattutto nel lungo periodo. Quando arrivo al presidio c’è in visita una delegazione di Italia Viva, compresa la vice ministro Bellanova che ha militato nel sindacato dell’industria alimentare, la Flai Cgil. Anche il sindaco di Marradi è di Italia Viva, fa parte dello staff di Eugenio Giani, il presidente della Regione Toscana, ed è stato eletto con un consenso schiacciante: ha preso l’86% dei voti. Un sindaco quarantenne, presente al presidio, conosciuto e molto apprezzato. Sarebbe stato interessante imbastire un dibattito sullo sviluppo degli Appennini, sui servizi pubblici, sulle delocalizzazioni visto che alla proposta di legge costruita all’assemblea permanente della Gkn e presentata in Senato come emendamento, Italia Viva ha votato contro. Il risultato? Una legge opposta a quanto chiedevano i lavoratori in lotta della Gkn: consente le delocalizzazioni con piccole multe. Sistemi e cortocircuiti. 

I fuochi scoppiettano. Si è fatto buio. Le operaie si riuniscono nel tendone. C’è da pensare ai turni e alle prossime cose da fare. Dall’orologio appeso volteggia il calendario delle iniziative. Dall’altro lato una piccola befana svolazza sulle crostate. Le donne si prendono cura e imparano sulla loro pelle provando e riprovando, aggiustando il tiro. Danno fiducia, ma sono capaci anche di misurarti. Non temono di mostrare debolezze e difficoltà e in questa noncuranza per il fallimento, in questo essere fuori dai giochi del potere e della competizione per raggiungerlo, ci trovo tanta forza e capacità di insistere e crescere insieme. Questo sì che sarebbe importante fosse contagioso per il nostro paese. Per dirla alla Dino Campana, per vizio d’orgoglio vogliono andare al diavolo con le loro gambe. 

Simona Baldanzi è nata a Firenze e vive nel Mugello. Ha scritto Figlia di una vestaglia blu (Alegre, 2019), Il Mugello è una trapunta di terra (Laterza, 2014), Maldifiume. Acqua, passi e gente d’Arno (Ediciclo, 2016), Corpo Appennino (Edicilo, 2021) e Pietra pane e il mondo che c’è (Rrose Sélavy, 2021).

11/1/2021 https://jacobinitalia.it

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