Alla gender equality serve più del family act

L’emergenza creata dalla pandemia, con la chiusura delle scuole e la difficoltà di usufruire delle reti familiari (i nonni), ha evidenziato l’inadeguatezza del modello di work-life balance dato che l’effetto del maggior peso del lavoro di cura è ricaduto sulle madri. Pure il ricorso al telelavoro imposto per esigenze di salute pubblica ha in realtà sovraccaricato di responsabilità prevalentemente le madri lavoratrici, allontanandosi dall’istituto dello smart-working di cui manca l’elemento tipico, ovvero l’accordo delle parti. Il tema ha un’importanza cruciale, che va oltre il difficile periodo contingente. La fase emergenziale è stata fronteggiata con misure provvisorie: congedi parentali straordinari assistiti da un’indennità che, pur essendo superiore a quella dei congedi ordinari, non va oltre il 50% della retribuzione e “bonus baby-sitter” per i lavoratori e le lavoratrici autonome. Auspicando che la riapertura delle scuole avvenga nel minor tempo possibile, tali misure probabilmente decadranno e dunque è opportuno istituire un quadro regolativo in materia, tenuto conto anche della Direttiva europea 2019/1158 sul work-life balance e secondo le indicazioni della comunicazione della Commissione europea Towards a gender equal Europe  sulla Strategia per l’eguaglianza di genere 2020 – 2025.[1] La recente approvazione da parte del Consiglio dei ministri del disegno di legge Misure per il  sostegno e la valorizzazione della famiglia – bilancio 2020 (il cosiddetto family act) solleva, tuttavia, non poche questioni circa i valori accolti in particolare dalle norme attinenti i congedi e la flessibilità dell’orario e del rapporto di lavoro secondo gli articoli 4 e 5 del disegno di legge.

Al di là delle misure finanziarie di welfare come l’assegno unico e i rimborsi, che esulano da questo commento, un’osservazione preliminare sull’impianto del family act riguarda la mancanza di riferimenti a un piano concreto e puntuale per rimediare alla scarsa diffusione dei servizi pubblici di assistenza e degli asili nido in diverse regioni, che pure è stato indicato al punto 17 delle raccomandazioni del Consiglio dell’Ue sul Programma nazionale di riforma 2019 dell’Italia, rilevando l’insufficienza degli investimenti nei servizi di assistenza e nella partecipazione delle donne al mercato del lavoro.[2] Non viene preso in considerazione neppure il lavoro di cura degli anziani o altri familiari che viceversa la direttiva riconosce nella figura del caregiver – titolare di specifici diritti. Nell’impianto complessivo del provvedimento approvato dal consiglio dei ministri, inoltre, risulta poco considerata l’esigenza di promuovere non solo la conciliazione ma soprattutto la condivisione del compito di cura genitoriale incentivando il ruolo paterno affinché la madre possa accedere e mantenere il lavoro retribuito, oltre che per i benefici psicologici connessi al  legame tra il padre e i/le figli/e.

Perché il family act non è abbastanza

Su questo punto, il family act si limita a riconoscere il congedo di paternità di 10 giorni, senza andare oltre quanto dispone la direttiva, anche se è positivo l’innalzamento rispetto agli attuali 7 giorni e il superamento del sistema che ne rimette il riconoscimento alle leggi di bilancio annuali. La visione minimalista che in merito presiede il family act è un’occasione mancata per definire più organicamente i principi ispiratori della disciplina, definendo non solo la titolarità del congedo, che il disegno di legge correttamente estende ai lavoratori autonomi e liberi professionisti, ma anche altri profili tra cui uno dei più importanti concerne gli strumenti per garantire l’effettivo godimento del congedo.  

I dati sullo scarso utilizzo dei congedi da parte dei padri confermano l’importanza di colmare il vuoto di strumenti sanzionatori nella normativa vigente che rende pura finzione la qualificazione come “obbligatorio” del congedo di paternità. È evidente che giocano anche altri fattori, connessi non solo ai modelli culturali, ma altresì ai condizionamenti indiretti nei confronti dei padri lavoratori, molti assunti con contratto a tempo determinato e quindi più soggetti alla pressione del datore di lavoro per il timore di pregiudicare le possibilità di stabilizzazione del rapporto. Introdurre sanzioni efficaci è quindi un passo indispensabile che non viene peraltro considerato dal disegno di legge. Ma guardando al quadro comparato si trovano altre soluzioni che incentivano e rendono più diffusa la scelta di fruire effettivamente del congedo non solo di paternità ma anche dei congedi parentali, e utilmente potrebbero essere accolte anche nel nostro ordinamento. Al congedo di paternità potrebbe essere estesa tra l’altro la possibilità di fruirne in modo flessibile, a giornate o a ore, in analogia con la soluzione già in vigore per i congedi parentali.[3]

Servono congedi di paternità obbligatori e non cedibili

Un altro  tema di grande rilievo concerne la condivisione dei congedi tra madre e padre per evitare di riproporre la divisione tradizionale dei ruoli che accolla soprattutto alla madre i compiti di cura.[4] È importante che l’ordinamento incentivi l’assunzione da parte del padre delle responsabilità genitoriali, secondo l’impostazione già accolta dal Testo unico per ciò che concerne i congedi parentali, di 6 mesi per ciascun genitore e non cedibili, il cui monte ore complessivo aumenta però se il padre ne utilizza effettivamente almeno una parte. A questo riguardo è piuttosto sorprendente che il family act modifichi radicalmente il sistema di valori vigente introducendo al contrario la facoltà di cedere la propria quota di congedi parentali, salvo 2 mesi.[5] Vi è il rischio concreto che il padre, anziché assumersi la propria responsabilità, ceda alla madre la propria quota di congedo parentale, delegandole pressoché totalmente la funzione familiare, con un salto indietro di decenni di legislazione tendente a favorire il modello di condivisione dei compiti di cura.

Occorre ricordare, inoltre, i riflessi che l’esercizio della funzione di cura proietta sul livello retributivo delle donne (rafforzando la loro posizione di secondary earners all’interno della famiglia) tenuto conto che il regime economico vigente prevede solo per il congedo obbligatorio l’indennità pari all’intera retribuzione, come anche per i riposi e le assenze legate alla malattia del figlio fino ai 3 anni, mentre i congedi parentali non superano la soglia del 30%. Né vanno sottostimate le ripercussioni negative sugli istituti di retribuzione differita, come ferie e tredicesima nel caso dei congedi parentali e delle assenze per malattia del figlio, e nel caso dei congedi parentali sull’ammontare del premio di produzione, che solo recentemente una parte della giurisprudenza ha considerato a stregua di discriminazione indiretta.[6] 

Tale regime è anche una delle principali ragioni della scarsa fruizione da parte dei padri dei congedi parentali, per il noto fenomeno secondo il quale al fine di limitare le perdite di reddito nell’economia familiare i congedi sono fruiti da chi tra i due partner riceve una retribuzione minore, che è con larga frequenza la madre a causa delle altre forme di discriminazione e segregazione nel mercato del lavoro. Sarebbe opportuno, pertanto, aumentare in primo luogo la copertura economica dei congedi parentali –  anche oltre la misura del 50% finora applicata ai congedi straordinari – contrastando inoltre gli effetti negativi dell’assenza ai fini del calcolo di ogni voce di retribuzione differita. Soluzioni in conformità alla direttiva che sottolinea  come “il trattamento economico dei congedi parentali dovrebbe esser tale da incentivarne l’effettiva condivisione anche da parte dei padri”. Il family act non interviene su tale ampia materia, limitandosi a stabilire che in caso di assenze per malattia del figlio la retribuzione debba essere rimodulata, e istituendo una misura di incerta funzione e di dubbia costituzionalità consistente in un assegno da corrispondere a favore della madre che rientri al lavoro dopo il congedo. 

Per uno smart-working condiviso e sensibile al genere

Infine, altro nodo cruciale per la promozione della conciliazione e per favorire l’occupazione femminile riguarda la flessibilità degli orari di lavoro e il ricorso a forme flessibili del rapporto di lavoro. In proposito la direttiva europea, all’art. 9, insiste sull’importanza di riconoscere il diritto in capo ai dipendenti di chiedere al datore di lavoro misure, reversibili, di flessibilità degli orari e del rapporto di lavoro il cui eventuale rifiuto deve essere motivato. Come è noto, si tratta di materia di estrema importanza che se ben regolamentata, per esempio prevedendo anche la riduzione degli orari calibrata a livello aziendale, potrebbe consentire una maggiore partecipazione delle donne al lavoro oltre che una redistribuzione delle occasioni di lavoro. La flessibilità degli orari in funzione delle esigenze di “conciliazione” è tuttora un problema aperto nel settore privato sotto il profilo legislativo e ben si sarebbe potuta cogliere l’occasione per introdurre un principio vincolante al riguardo.

Il family act prevede una formula molto più vaga che non contempla alcun diritto individuale ma istituisce: “forme incentivanti per i datori di lavoro che applichino contratti collettivi nazionali stipulati da OOSS comparativamente più rappresentative, e che nell’ambito della promozione dell’armonizzazione tra vita privata e lavoro stabiliscono modalità di lavoro flessibile con facoltà dei lavoratori di richiedere secondo le previsioni dei medesimi contratti, il ripristino delle precedenti condizioni contrattuali”.

Non è chiaro che cosa si intenda per “misure incentivanti”, ma se la disposizione si inquadra nell’esperienza dei cosiddetti “accordi aziendali di welfare”, per un verso non introduce nulla di nuovo, e per altro verso non tiene conto di un fenomeno rilevato da recenti studi che imporrebbe invece di riconsiderare la materia. Il sistema normativo vigente produce effetti negativi nei confronti delle lavoratrici dovuti al fatto che gli accordi di welfare relativi a misure di conciliazione sono alternativi a quelli che prevedono invece aumenti retributivi, cosicché le lavoratrici, che sono le principali destinatarie degli accordi di welfare, sono costrette a rinunciare all’incremento retributivo, perpetuando la situazione di un forte svantaggio retributivo.

Sul lavoro a distanza serve un quadro più approfondito

Per ciò che riguarda l’istituto dello smart-working, il family act se ne occupa unicamente per sancire il diritto di priorità dei genitori con figli di età non superiore ai 14 anni a ottenere di svolgere la propria prestazione con tali modalità che si dovrà coordinare alle disposizioni vigenti. Per un verso, nel settore pubblico lo smart-working già diffuso secondo percentuali obbligatorie, ha assunto la natura di modalità normale di svolgimento del rapporto di lavoro in base ai provvedimenti assunti durante l’emergenza. Per altro verso, nel settore privato, l’art. 90  del decreto legge 34/2020 ha già positivamente sancito la natura di “diritto genitoriale” dello smart-working per il periodo di emergenza ove sia compatibile con l’attività lavorativa, con uno spazio utile di intervento da parte della contrattazione collettiva sotto l’eventuale controllo giudiziale.

In linea generale, sarebbe comunque opportuno introdurre un quadro regolativo più approfondito di quello attuale in materia del lavoro a distanza, per evitare gli aspetti negativi derivanti dal rischio di sovrapposizione tra attività lavorativa e compiti di cura, e dal il rischio di isolamento, onde promuoverne nel modo migliore la funzione di strumento di conciliazione. Sviluppare la riflessione e la progettazione in questa direzione permetterebbe di predisporre una varietà di strumenti integrabili gli uni con gli altri in grado di affrontare la materia sotto molteplici punti di vista. 

Note

[1] Communication from the Commission to the European Parliament the European Economic, Social Committee and the Committee of the Regions del 5 marzo 2020.

[2] Richiamata nel corso dell’Audizione informale di rappresentanti del CNEL presso la XI Commissione (Lavoro pubblico e privato) Camera dei deputati, nell’ambito dell’esame delle abbinate proposte di legge sulla modifica dell’art. 46 D.Lgs. 198/2006 Codice pari opportunità uomo-donna.

[3] Art. 32, c. 1-bis Testo Unico sulla maternità e paternità, che tra l’altro rende pleonastica la disposizione in merito contenuta nel family act, all’art.4, c.2 , a).

[4] Nel nostro ordinamento la condivisione tra madri e padri dei compiti di cura nei confronti del padre riguarda il diritto ai riposi giornalieri di 2 ore ciascuno (ridotti a seconda dell’orario o di presenza di asilo-nido aziendale)  nel corso del primo anno di vita del figlio se la madre non possa o non voglia usufruirne; il diritto ad assentarsi per malattia del figlio fino a 3 anni, alternativamente alla madre, senza limiti di durata  e nel limite di 5 gg all’anno dai 3 agli 8 anni; mentre  sono a titolarità esclusiva del padre, e non trasferibili, i congedi parentali per un max di 6 mesi fino al compimento dei 12 anni di età del figlio/della figlia.

[5] Art. 4, c. 2 lett. c) Family Act.

[6] T. Torino 26.10.2016, in Rivista Italiana Diritto Lavoro, 2017, II, 286 con nota di M. Peruzzi, Criteri di distribuzione dei premi di risultato e possibili discriminazioni di genere.  

Riferimenti

Alessi, C., M.L.Vallauri, “Il lavoro agile alla prova del Covid – 19” in Covid 19 e diritti dei lavoratori a cura di O. Bonardi, U. Carabelli , M.D’Onghia, L. Zoppoli, Instant Book Consulta Giuridica Cgil – Ediesse Roma 2020

Alleri, C., M. Congeduti, S.Pittarello, F. Stangherlini, Quale lavoro femminile al tempo del Covid-19? Fase2: ritorno al passato, in www.questionegiustizia.it

Gottardi, D., “La forza e la debolezza: la normativa e le politiche contro le discriminazioni di genere in Europa”, in S. Scarponi (a cura di), Diritto e genere. Temi e questioni, Editoriale Scientifica 2020.

Vitaletti, M., Equilibrio tra attività lavorativa e vita familiare nell’emergenza del corona-virus, www.giustiziacivile.com 20.3.2020.

Zucaro R., La stagione del welfare contrattuale. Verso una nuova etica del lavoro?, in Quaderni Rassegna Sindacale, 2018, 1.

Stefania Scarponi

17/6/2020 http://www.ingenere.it

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