STELLANTIS. ANATOMIA DI UNA FUSIONE

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Antefatto

L’azienda denominata FIAT è stata un’entità che ha attraversato la vita italiana dal 1899 ad oggi e nessuno ha mai veramente colto appieno né la sua sostanza e nemmeno la sua forma. Come nel classico aneddoto, in molti (in qualsiasi campo: sociale, economico, tecnologico e politico) hanno toccato, bendati, un suo aspetto peculiare e, da quel dettaglio, hanno provato ad indovinare di quale animale effettivamente si trattasse. Sbagliando sempre.

Anche gli approcci emotivi hanno sempre sofferto di una oscillazione tra estremi: madre o matrigna, piovra o chioccia, angelo o demone. Nessuno l’ha mai trattata come una normale azienda manifatturiera che, ad oggi, conta circa 90.000 addetti solo in Italia e partecipa ad un paio di punti di PIL, ma che in passato ha pesato ben di più. C’è da dire che anche FIAT ci ha messo del suo per evitare di rientrare nei canoni della normalità al fine di capitalizzare alcuni risultati, ma questo, per certi versi, rientra storicamente nel gioco del capitale: l’immagine che dai di te è un prodotto da vendere esattamente come i pezzi che produci.

A partire dagli anni’90 del secolo scorso il mondo dell’industria è iniziato a cambiare travolto dalla febbre della “finanziarizzazione” e dall’esplosione delle conseguenze della globalizzazione. Un mondo più piccolo e più “immateriale” ha aperto infinite possibilità ai mezzi di accumulo del capitale ed ha reso la vita (più) difficile alle braccia ed alle menti che concorrevano a tale scopo. Storia nota, ma che ha cambiato radicalmente (anche) la creatura FIAT: la smaterializzazione, iniziata negli ’80 ma il cui epicentro è stata l’ era-Fresco, è stata tentata, ma è fallita; continuare a produrre in autonomia (soprattutto in senso generalista: dall’utilitaria alla berlina di lusso) era troppo dispendioso e, fedeli alla profezia pronunciata dall’avvocato Agnelli nel secolo scorso, si è aperta l’era della ricerca di un partner che nel periodo 2000-2020 si può dividere in due fasi.

La prima, dal 2000 al 2010, è servita (non senza confusione ed incapacità manageriali) per ridefinirsi e ridimensionarsi all’interno del perimetro originario cercando, contemporaneamente, di guadagnare dimensioni complessive per potersi poi “mettere sul mercato” (in questo senso va letta l’acquisizione di Chrysler) e la seconda, dal 2010 al 2020, finalizzata a riordinare i conti della neonata FCA e presentarsi a nuove e definitive nozze con dote ed abito bianco. Il comun denominatore delle due fasi è stato il crollo di attenzione e cura nei confronti di prodotto, processo e maestranze in nome della riduzione dei costi ed inaugurando la devastante equazione che vede gli stessi investimenti come “costo”.

Da anni il cuoco sta cucinando quello che è rimasto in dispensa (l’immagine, efficacissima, la prendo a prestito da un giornalista de “il sole 24ore”) e in cucina, con un retaggio culturale risalente agli anni peggiori, chi è addetto ai primi non si cura di chi prepara i secondi, i pasticceri pensano solo ai dolci e nessuno si preoccupa se il cliente esce sazio e soddisfatto. Il risultato è la solita zuppa, anche se sul menu si cerca di valorizzare il prodotto con espedienti linguistico-commerciali. Alla fine il pasticcio di granturco con pesce veloce del Baltico resta sempre polenta e baccalà.

Intanto la cucina (italiana) ad oggi consta di circa quattro stabilimenti di meccanica (motori-cambi), sette di carrozzeria (assemblaggio finale), un head-quarter ed un paio di poli progettativi. Il piatto principale è per tutti, ad intensità variabile, la cassa integrazione. In alcuni siti non si lavora la mesata “piena” da più di dieci anni. Fa eccezione solo lo stabilimento di Atessa in cui, in società al 50% con PSA, si produce da sempre il Ducato: uno dei pochi stabilimenti automobilistici in Europa che per il momento lavora su tre turni giornalieri.

Fatto

Sorvoliamo, per scarsità di spazio, sulle nozze annunciate e mancate con Renault (con lo stato francese che urla che il matrimonio non s’ha da fare perché lui non avrebbe potuto contare nulla nel rapporto) ed arriviamo alla attuale fusione con il gruppo PSA.

La reazione iniziale dei lavoratori è stata di sollievo perché, pur vedendone i rischi, hanno interpretato la fusione come l’unica opportunità per ricominciare a lavorare davvero. Adesso, nel divenire degli esiti della fusione, aumentano le preoccupazioni perché nei primi 100 giorni successivi alla firma, dedicati alla designazione del gruppo dirigente diffuso, abbiamo potuto vedere che tutti i ruoli chiave sono stati assegnati a manager ex-PSA relegando agli italiani ex-FCA meri ruoli di rappresentanza con limitata autonomia decisionale. Discorso a parte meritano i manager ex-FCA statunitensi a cui, in anticipo rispetto alla chiusura formale della fusione, sono stati precipitosamente assegnati ruoli di responsabilità all’interno del settore progettativo.

L’impressione è che PSA abbia intenzione di produrre autoveicoli con elevato tasso di standardizzazione di componenti adottando in larga parte quelli già utilizzati sulla gamma PSA, con tutti i potenziali rischi che ciò comporta per la filiera di fornitura “italiana”. Ma in questa encomiabile volontà di produrre appare chiaro che i francesi si stiano rendendo conto che le potenzialità di FCA non siano così elevate come sembrava. Nel profondere sperticate lodi al “capitale umano” di conoscenza che effettivamente risiede all’interno degli stabilimenti, nessuno sembra però rendersi conto che le maestranze italiane di FCA hanno un’età media molto elevata che, di fronte alle incertezze indotte dalla fusione, ha scatenato la reazione più ovvia: speriamo di riuscire ad andarcene il prima possibile. L’attenzione per ciò che sostituirà “quota 100” è oggi infinitamente più elevata di quella posta alla pesante riorganizzazione in atto. Altro dato drammatico è la fuga (non contrastata dall’azienda) dei pochi 30-40enni ad elevata scolarità ancora presenti nei settori impiegatizi.

In ultima e definitiva analisi: l’essere arrivati alla fusione nelle condizioni di sfinimento descritte poco sopra, con una stasi quasi ventennale delle attività ed una totale latitanza su elettrico ed ibrido, non ha certo giovato al potere contrattuale che FCA ha potuto esercitare nella fusione. Per questo, e non per altro, si può parlare di “acquisizione” di FCA fa parte di PSA.

Misfatto

I misfatti che rendono questa fusione diversa da altre e che contribuiscono a ridefinire completamente ed irreversibilmente la forma della creatura-FIAT sono tre, due voluti ed uno casuale:

Il primo riguarda il sindacato, od almeno una parte consistente di sindacato presente in FCA: il fatto di essere caduti nel tranello del contratto separato (2010) a fronte di una “piena occupazione” mai raggiunta ha contribuito a disilludere i lavoratori ed ha privato i sindacati firmatari della prerogativa di poter esercitare un’analisi autonoma degli eventi. Anche la FIOM-CGIL, che non ha aderito a quel contratto, ha pagato un prezzo altissimo potendo rientrare in fabbrica (con una agibilità sindacale “monca” anche solo a livello di monte-ore) solamente in seguito ad una sentenza della Corte costituzionale ed essendo di fatto esclusa da tutte le commissioni previste dal contratto e dalle (invero poche) occasioni di contrattazione. La FIOM-CGIL sta dicendo da tempo che quel periodo è da superare ed è necessario ricostruire, per quanto possibile, un fronte sindacale compatto per poter affrontare la fase in arrivo iniziando simbolicamente a fare assemblee unitarie ovunque. Purtroppo le risposte delle altre sigle sono al momento molto variegate e non sempre chiare dando l’impressione di dipendere da dinamiche locali piuttosto che da strategie complessive.

Il secondo è costituito dall’arrivo della pandemia: l’utilizzo diffuso della cassa integrazione COVID (spesso molto al di là della funzione anti-contagio) ha fatto impazzire tutte le statistiche sulla produttività e sulle vendite e, contemporaneamente, l’esigenza dei lavoratori di vedere tutelata la propria salute ha fatto rientrare prepotentemente in campo i delegati e le delegate della FIOM-CGIL, con in prima linea gli/le RLS.

Tutti i tavoli aventi per tema la sicurezza sono stati unitari e la collaborazione tra gli RLS di tutte le sigle è tuttora buona. L’introduzione del cosiddetto Smart Working (snaturandone inevitabilmente i caratteri di volontarietà e le limitazioni temporali) ha riguardato migliaia di impiegati ed impiegate che, pur comprendendone la necessità, hanno manifestato numerosi disagi insiti nel metodo e soprattutto nella sua inadeguata normazione (FCA applica lo Smart Working secondo le regole contenute nel contratto separato che, tra le altre cose, prevede “rintracciabilità” dalle 8:30 alle 20). Con lo Smart Working l’orario di lavoro è aumentato a dismisura e numerose autorevoli organizzazioni internazionali stanno pubblicando studi sulla nocività di tale prolungamento (Organizzazione Mondiale della Sanità ed Organizzazione Mondiale del Lavoro hanno recentemente pubblicato uno studio denominato “WHO/ILO Joint Estimates of the Work-related Burden of Disease and Injury”) denunciando drammatici impatti sulla salute in termini di stress, patologie ed infortuni con relativi costi sociali.

La pandemia finirà, ma sembra che il management non abbia alcuna intenzione di abbandonare il ricorso diffuso al lavoro da remoto. Questo è un discorso assolutamente aperto che può avere impatti notevoli sulle persone e sulla loro socialità, nonché sulla capacita del sindacato di rappresentare questo mondo.

Il terzo misfatto, forse il più grande, è costituito dall’atteggiamento che la politica italiana ha avuto nei confronti di questa fusione e dei suoi possibili esiti. I casi sono due: o la politica italiana (indipendentemente dal colore) ha deciso che è diventata l’ultima e più intransigente paladina della totale supremazia dell’iniziativa privata rispetto a tutto il resto, oppure tace perché non sa cosa dire dal momento che, impegnata in sterili baruffe e battaglie di segreteria piuttosto che da comparsate nei salotti televisivi, ha smesso da tempo di esercitare quella costante attività di osservazione ed analisi (per quanto approssimativa, come scritto in apertura) che avrebbe consentito di richiamare il management FIAT/FCA ad un più stringente rispetto delle sue responsabilità sociali.

Da questo punto di vista la fusione è solo uno dei tanti aspetti in cui oggi si misura la distanza tra lavoratori ed entità in grado di rappresentarli politicamente, sia a livello locale che nazionale. Lavoratori e lavoratrici meriterebbero attenzione e se qualcuno fosse disposto a prestarla deve necessariamente mettere in conto una fase iniziale di fischi e rimproveri vista la prolungata e totale assenza, ma non può prescindere da questo prezzo se vuole ricostruire nel tempo un rapporto che consenta di ricostruire consenso attraverso la pratica di tutele reali volte a preservare e valorizzare il lavoro e le persone che lo esercitano.

Fabio Di Gioia

FIOM-CGIL Strutture Centrali torinesi di FCA Italy

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