Aumentano i miliardari, diminuisce la democrazia

È ormai largamente riconosciuto che negli ultimi dodici mesi si sono verificate due pandemie molto diverse. Tra le innumerevoli storie di miseria sepolte in mezzo ai numeri mensili sulla disoccupazione, i resoconti di fame diffusa e le tragiche (sebbene evitabili) morti di lavoratori in prima linea, il Covid-19 ha rappresentato una vera manna per i pochissimi ai vertici dell’economia globale iperfinanziaria. Gli ultimi dati pubblicati dal Financial Times sottolineano quanto siano stati davvero drammatici questi guadagni:

Negli ultimi due decenni, la popolazione globale di miliardari è aumentata di oltre cinque volte e le maggiori fortune hanno superato i 100 miliardi di dollari… La pandemia ha rafforzato questa tendenza. Con la diffusione del virus, le banche centrali hanno iniettato 9 trilioni di dollari nelle economie di tutto il mondo, con l’obiettivo di mantenere a galla l’economia mondiale. Gran parte di questo stimolo è finito nei mercati finanziari e da lì al patrimonio netto degli ultra-ricchi. La ricchezza totale dei miliardari in tutto il mondo è aumentata da 5 trilioni a 13 trilioni di dollari in dodici mesi, l’aumento più drammatico mai registrato nell’elenco annuale dei miliardari compilato dalla rivista Forbes.

Oltre ad accrescere la ricchezza dei miliardari esistenti, la pandemia ne ha creati di nuovi. Come osserva Ruchir Sharma del Times, la sola Cina ne ha aggiunti 238 al totale globale, circa uno ogni 36 ore. Negli Stati uniti nell’ultimo anno sono arrivati più di cento nuovi miliardari, il numero globale di individui che possiedono un miliardo o più è passato dai circa 2.000 di un anno fa a un record di poco più di 2.700 dell’aprile scorso. Alcuni, come il Ceo di Tesla, Elon Musk, hanno visto picchi nella loro ricchezza che rasentano l’incomprensibile (nel caso di Musk da 25 miliardi a oltre 150 miliardi di dollari in un solo anno).

Per semplici motivi etici, l’attuale distribuzione della ricchezza sarebbe difficile da difendere per tutti tranne che per i seguaci più irriducibili di Ayn Rand. Dopo la crisi finanziaria del 2008-2009, uno spettro che va da istituzioni abbastanza conservatrici come il Fondo monetario internazionale o la leadership del Partito democratico fino alla sinistra socialista concorda sul fatto che la «disuguaglianza» – intesa nel senso più ampio concepibile – è un problema. Per quanto un po’ rozza fosse la formulazione del 99% contro l’1%, Occupy Wall Street è riuscita a diffondere l’idea che una piccola minoranza in cima alla piramide stava accumulando guadagni per sé stessa mentre la maggioranza veniva lasciata indietro.

La questione, tuttavia, spesso non viene messa in relazione alla democrazia. Secondo una recente stima dell’economista Gabriel Zucman, la ricchezza dei miliardari negli Stati uniti si sta rapidamente avvicinando a un importo pari al 20% del Pil totale. In tale contesto, la disuguaglianza rimane certamente una chiave di lettura applicabile e importante. Ma si tratta di comprendere tutte le implicazioni della concentrazione della ricchezza.

Quando il divario cresce tanto, la ricchezza cessa di riguardare soltanto il modo in cui vengono distribuiti denaro e merci e si trasforma in potere e controllo. A prima vista, la rivoluzione del mercato degli anni Ottanta e Novanta è stata animata dalla presunzione che gli stati assistenziali keynesiani fossero diventati troppo centralizzati e monopolistici: il loro progetto strangolava la prosperità e dava a piccoli quadri irresponsabili della burocrazia pubblici il potere di prendere decisioni chiave su come fondi e le risorse della società dovessero essere stanziati.

La soluzione, almeno così si diceva, era semplicemente lasciare che i mercati funzionassero: la loro azione senza vincoli avrebbe diffuso il potere degli individui togliendolo dalle mani dei burocrati non eletti e concesso agli imprenditori che si assumevano il rischio l’opportunità di determinare in modo più efficiente le scelte sugli investimenti cruciali. In questo nuovo contesto, si diceva, la concorrenza avrebbe agito da freno contro la minaccia del monopolio o della concentrazione indebita: la maggior parte dei compensi sarebbero andati a quelli che possedevano le imprese più produttive o che generavano il più alto valore sociale.

Se questa favola non era credibile prima della pandemia, la recente impennata della ricchezza miliardaria rappresenta l’ultimo proverbiale chiodo sulla sua bara. L’osceno aumento della concentrazione della ricchezza nell’ultimo anno, dopotutto, non ha avuto nulla a che fare con la produzione o l’utilità sociale ma con la proprietà e l’estrazione delle rendite. I miliardari del mondo non sono diventati più ricchi e più potenti perché le loro imprese sono diventate improvvisamente più produttive, creative o utili al bene comune.

Il divario tra la stragrande maggioranza e la piccola minoranza al vertice rimane inutile e immorale. Ma c’è pure il fatto che la crescente concentrazione di ricchezza negli Stati uniti e nel mondo solleva la domanda piuttosto inquietante: cosa succede quando un sistema economico consente a un pugno di plutocrati non eletti di esercitare il potere su una scala così ampia? La risposta, chiaramente, è che gli effetti non sono affatto positivi.

Luke Savage è redattore di Jacobin. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

12/6/2021 https://jacobinitalia.it

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