AUMENTO DELL’ETÀ PENSIONABILE: UNA QUESTIONE DI VITA O DI MORTE

anziani1

Detto, fatto. Da quest’anno si dovrà lavorare 4 mesi in più prima di poter andare in pensione. In questo modo, gli uomini, siano essi dipendenti o lavoratori autonomi, potranno andare in pensione all’età di 66 anni e 7 mesi, le donne, a 65 anni e 7 mesi per le lavoratrici del settore privato ed a 66 anni e un mese per le lavoratrici autonome.

Provate a immaginare un uomo quasi settantenne su un ponteggio a mettere su mattoni o a spostare sacchi di cemento; oppure una donna ultrasessantenne costretta otto ore in piedi, assumere posizioni anche scomode per assemblare pezzi in serie ripetendo freneticamente la stessa operazione centinaia di volte al giorno. Provate ad immaginare una infermiera a 65 anni sollevare di peso e accudire pazienti anche più pesanti di lei; oppure un autotrasportatore di 66 anni costretto a lunghi ed estenuanti viaggi per consegnare merci qua e là lungo la Penisola e oltre.

Nel libro-intervista La lotta di classe, dopo la lotta di classe, Luciano Gallino spiegava che “La fatica non uccide sul colpo, ma peggiora la vita e l’accorcia”. Il sociologo torinese affermava, dati alla mano, che la fatica da lavoro spiega un accorciamento della speranza di vita: “L’esistenza di forti disuguaglianze nella speranza di vita a danno delle persone che arrivano alla pensione da carriere di lavoro subordinato con basso reddito e modesta posizione sociale è ampiamente documentata nella letteratura internazionale”. Si arriva quindi ad “una inaccettabile redistribuzione di risorse a scapito delle persone che arrivano alla pensione da carriere di lavoro subordinato con basso reddito e modesta posizione sociale, risorse che vengono riversate sui gruppi sociali più avvantaggiati», affermava Gallino. E questo è un chiaro «indicatore di classe”.

Ecco, vista così, non è poi così naturale, come afferma Renzi, andare in pensione più tardi, mentre è palese l’attacco padronale contro quelle classi sociali più deboli fatte di persone che per il lavoro che svolgono vedono accorciata la loro speranza di vita; e che sono costrette a condizioni di vita, durante gli anni della pensione, sempre più drammatiche. Dopo anni vissuti a lavorare subendo carichi e ritmi di lavoro sempre più intensi, i pensionati si ritrovano con schiene affaticate, braccia doloranti, malattie professionali. E con una pensione che troppo spesso non permette l’accesso alle cure mediche. L’ultimo rapporto Inps (2014) mostra che quasi 5 milioni e mezzo di pensionati per vecchiaia percepisce mediamente poco più di 700 euro al mese. Soldi che spesso non sono sufficienti nemmeno per una vita dignitosa, specie con i tagli alla spesa sociale che sistematicamente e con cinismo vengono portati avanti da governi filo padronali.

Il risultato? In Italia aumentano i morti come fossimo in guerra. Il bilancio demografico dell’Istat mostra un aumento del numero di decessi nel 2015, pari a +68.000 rispetto al 2014, che trova ordini di grandezza comparabili, appunto, solo con gli anni di guerra. È presto per spiegare compiutamente il fenomeno, ma Gian Carlo Blangiardo, docente di demografia presso l’Università di Milano Bicocca, lancia un allarme. Secondo il professor Blangiardo, la rilevazione dell’Istat deve essere consegnata “alla riflessione sia del mondo scientifico sia di quello della politica, della pubblica amministrazione e delwelfare”. Siamo infatti di fronte ad “un evento straordinario che richiama alla memoria l’aumento della mortalità nei Paesi dell’Est Europa nel passaggio dal comunismo all’economia di mercato: un déjà vu che non vorremmo certo rivivere”. Quell’economia di mercato la cui logica trova applicazione nei provvedimenti di governi nazionali come quello italiano che applicano servilmente i memorandum della troika. Provvedimenti che si traducono in tagli anche a settori essenziali come la sanità pubblica. Una politica, ricorda ancora Blangiardo, che “può avere effetti molto pesanti sul già fragile sistema demografico”.

Un altro dato dovrebbe fare riflettere chi, come Renzi, sostiene che è naturale aumentare l’età pensionabile: i morti sul lavoro. Fino a tutto il mese di ottobre del 2015, sono stati denunciati 185 infortuni con esito mortale di lavoratori tra i 55 e i 64 anni e 79 di lavoratori di oltre 65 anni di età. Questo dato, in rapporto agli occupati delle stesse classi di età, si traduce con la macabra statistica di 7 morti ogni 100.000 lavoratori nella fascia di età tra i 55 ed i 64 anni e di 21 morti sul lavoro ogni 100.000 lavoratori che, compiuti 65 anni, anziché godersi una meritata pensione, la mattina si alzano per andare al lavoro. La statistica fredda e spietata mostra che i lavoratori con più di 64 anni di età sono vittime di infortuni mortali con una frequenza maggiore di 5 volte rispetto a chi ha non più di 54 anni ed addirittura 23 volte rispetto a lavoratori che hanno un’età compresa tra i 25 ed i 34 anni. E siamo di fronte a cifre che sono confermate anno dopo anno e che sarebbero anche peggiori se non ci fermassimo a leggere i dati ufficiali dell’Inail, visto che questi riguardano solo i lavoratori assicurati a quell’ente. Ma ciò dimostra il fatto che costringere al lavoro persone in età avanzata significa esporre cinicamente i lavoratori al serio rischio di abbandonare il posto di lavoro stesi dentro una bara.

È in un quadro così macabro che il governo guidato dal segretario del Pd permette ancora l’innalzamento dell’età pensionabile. C’è di che riflettere. Soprattutto, c’è da incazzarsi e da cominciare ad organizzare una seria di risposta all’attacco di classe del padronato e dei governi  suoi amici. È proprio il caso di dire che è una questione di vita o di morte.

Carmine Tomeo

8/1/2016 www.lacittafutura.it

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *