Autodeterminazione e giustizia patriarcale nel dibattito pubblico

Metti una sera due uomini e una donna a cena insieme. Si mangia, si chiacchiera e si alza il gomito, soprattutto lei. Non sappiamo chi riempia il bicchiere a chi. La serata finisce in camera da letto ma non è una scelta consensuale: la donna viene portata lì e spogliata per essere abusata dai due uomini. Appena si riprende, infatti, va al Pronto Soccorso, chiede aiuto e denuncia la violenza subita.

Inizia il processo e il primo grado di giudizio si conclude con l’assoluzione degli accusati: le dichiarazioni della donna non vengono ritenute attendibili.

Sarà poi la Corte d’appello di Torino a emettere la sentenza di condanna per stupro con l’aggravante dell’uso di alcol ai fini della violenza.

Qualche giorno fa è stata la Cassazione a rivedere di nuovo la sentenza, su richiesta della difesa, imponendo un nuovo processo per riformare al ribasso le condanne. Secondo la Cassazione fu stupro, agito su un soggetto in condizioni di ridotte capacità psichiche, malgrado ciò non è applicabile l’aggravante per l’uso dell’alcol perché fu assunto volontariamente dalla vittima e non fu indotto con la minaccia o con la forza.

Questa sentenza è stata al centro di un acceso dibattito pubblico i cui termini vale la pena analizzare.

La notizia della sentenza viene inizialmente rilanciata dai giornali in termini allarmistici quanto approssimativi. Non è la prima volta che accade, in particolare quando si parla di violenze sessuali o di femminicidi. La qualità dell’informazione è questione su cui i movimenti femministi hanno puntato più volte il dito. Si tratta infatti di una narrazione scandalistica e morbosa, semplificatoria e ingannevole, concentrata su dettagli scabrosi, espone il corpo della vittima ma è pronta a assecondarne la colpevolizzazione degli atteggiamenti.

Questo stile narrativo stavolta ha avuto tutto l’agio di trasferirsi al resoconto giudiziario e la sentenza della Cassazione viene data in pasto all’opinione pubblica senza chiarirne correttamente i contenuti.

Ciò scatena un inevitabile effetto domino sui social network che, da una parte, riproduce e moltiplica la confusione sulla sentenza, dall’altra, concentra l’attenzione e polarizza le posizioni sugli aspetti tecnici astraendoli dalla concretezza e dai limiti di un simile approccio, bloccando il dibattito su un piano meramente formalistico.

Si rincorrono dichiarazioni, commenti, articoli, rettifiche sulla legittimità dell’applicazione dell’aggravante per uso di alcol. Rimangono fuori i corpi in carne e ossa coinvolti nello stupro e passati sotto la lente del tribunale. Primo fra tutti quello di una donna violentata le cui parole e i cui comportamenti sono l’oggetto fondamentale della verifica dell’eventuale costrizione al rapporto sessuale.

Ciò che ci restituisce questo dibattito truccato, quindi, è l’immagine di una società che, trasversalmente, sul tema delle violenze sessuali ha interiorizzato senza residui la logica giudiziaria estromettendo ogni valutazione critica sui rapporti di potere sbilanciati che informano le relazioni tra generi nella società, nelle leggi e nei tribunali.

Ed è questo appunto il nodo politico della questione: la legge italiana sullo stupro assume la costrizione, la violenza e la minaccia come parametri su cui accertare e  “misurare” una violenza sessuale. Per quanto l’espressione del consenso esplicito stia lentamente affermandosi come elemento centrale, permane il modello giuridico vincolato per cui il rifiuto da parte di una donna a un rapporto sessuale forzato si riscontra attraverso segni visibili di “opposta resistenza” – i lividi, le lacerazioni, le ecchimosi, le urla -, altrimenti può essere interpretato per un silenzioso assenso, trascurando che una donna può non resistere per paura o per autotutela. Così come è il contegno della vittima a dover essere tale da non essere considerato equivoco e accondiscendente. Questo modello, sintomo di un retaggio culturale patriarcale, finisce inevitabilmente per colpevolizzare la vittima, per metterla sul banco degli imputati e processarne i comportamenti, attraverso un processo di “vittimizzazione secondaria” che rispecchia pienamente il ruolo che le strutture sociali vorrebbero assegnato alle donne.

E della sentenza è proprio questo che più ci ha colpito: ricostruendo la vicenda processuale dal suo inizio, emerge che a essere vagliate sono le dichiarazioni della vittima, i rapporti del pronto soccorso, le analisi tossicologiche della donna, i segni di violenza rinvenuti sul suo corpo, le contraddizioni in cui è caduta con le parole e con le azioni nel lasso di tempo tra lo stupro e la denuncia. Dei comportamenti e delle dichiarazioni dei due uomini non c’è quasi traccia nel testo della sentenza.

Il consenso resta tuttora marginale nei processi per stupro in Italia, per quanto anche la sentenza della Cassazione affermi un principio utile in questo senso per cui condizioni di ridotte capacità psichiche sono incompatibili con il consapevole consenso.

Ben diverso è il percorso che si è aperto in Spagna. La pessima conclusione del processo a La Manadaha prodotto una enorme mobilitazione e ha imposto una svolta copernicana sul piano legislativo e giudiziario. Il governo ha infatti annunciato l’apertura dei lavori per la modifica della legge sulla violenza sessuale proprio in direzione del modello giuridico del consenso: se dico no è no! se non dico si è no! Tale principio mette al centro il soggetto offeso limitando la discrezionalità del giudice nello stabilire se sia o meno violenza.

A questo proposito e tornando in Italia, è il dibattito pubblico scaturito a partire dalla sentenza a sollecitare una necessaria riflessione sul tema del consenso e della violenza sessuale nella percezione pubblica. Il richiamo insistente alla lettera della sentenza e alla sua cattiva o parziale interpretazione ha dimostrato molta resistenza a uscire dagli steccati della norma e ad aprire l’orizzonte al di là dei formalismi, relegando la questione a mera procedura sganciata da qualsiasi dinamica di potere e di lotta.

Del resto la storia normativa della violenza sessuale in Italia è un indicatore importante di conquiste sociali e culturali cruciali quanto tardive: solo nel 1981, ad esempio, si dichiara illegittimo il matrimonio riparatore, mentre nel 1996 lo stupro passa da reato contro la moralità a reato contro la persona. Malgrado ciò la legge conserva ancora l’impostazione del Codice Rocco proprio nella preponderanza data alla costrizione rispetto al consenso.

Si commette, dunque, un grossolano errore – o si rivolge un greve insulto al movimento femminista – se si confonde un potente processo politico di autodeterminazione con un’invocazione forcaiola e giustizialista. Rivolgere lo sguardo alla concretezza delle relazioni violente e asimmetriche, anche nei tribunali, impone un rovesciamento del rapporto tra norma e processi sociali tale da immaginare e affermare rotture radicali e nuovi avanzamenti rispetto a ciò che le femministe spagnole chiamanoJusticia Patriarcal.

La necessità posta dal movimento femminista oggi di ricostruire e approfondire un discorso condiviso e pubblico che articoli il tema della violenza strutturale si riconferma più che mai centrale e urgente. Ora la sfida é far proliferare il Piano Femminista in pratiche di solidarietà e autotutela, in battaglia politica e immaginario; rimettendo al centro la sessualità e il consenso, le relazioni e i rapporti di potere nello spazio pubblico, nel lavoro e nel privato delle case.

24/7/2018 www.dinamopress.it

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