AUTONOMIA DFFERENZIATA E ABBANDONO DEL SUD. A CHE PUNTO SIAMO?

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di Loretta Mussi

Anche quest’anno, nell’elenco di provvedimenti collegati alla legge di bilancio, cioè il Documento di Economia e finanza 2021, è comparso, introdotto all’ultimo momento, il “titolo” – senza testo -di un disegno di legge contenente “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata, di cui all’articolo 116, comma 3 della Costituzione”. Tale articolo, infatti, in seguito alla modifica del Tritolo V della Costituzione nel 2001, prevede che alle regioni «possono essere attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia»; cioè le regioni potrebbero chiedere ed ottenere di gestire in totale autonomia anche tutte le 23 materie ora di competenza dello Stato. E’ ciò che ha chiesto il Veneto. Se anche le altre regioni seguissero l’esempio del Veneto, lo Stato sarebbe annullato e sostituito da 21 piccole repubbliche. Nella Sanità si avrebbero 21 Servizi sanitari regionali diversi, con possibilità di accesso e di cura molto differenti, visto che ciascuna regione deciderebbe in proprio come e dove allocare risorse ed investimenti.

L’autonomia regionale differenziata, dunque, non è mai uscita dall’agenda e dall’attenzione dei vari governi che si sono succeduti, almeno a cominciare dal 28 febbraio 2018, data in cui il Governo Gentiloni uscente firmò, in tutta segretezza, le pre-intese con Lombardia, Veneto, Emilia Romagna. Non solo, la sua posizione si è addirittura rafforzata, perché il collegamento con la legge di bilancio esclude che possa essere sottoposta a referendum popolare: i sostenitori dell’autonomia differenziata, che sono tanti e forti, non vogliono interferenze che possano impedire il loro disegno. Tutto sta avvenendo in gran segreto e in assenza di dibattito parlamentare e tra i cittadini, una gravissima ferita alla democrazia e l’ennesima delegittimazione del Parlamento. Ciò accade nonostante si tratti di un provvedimento che andrà ad incidere fortemente sulla Costituzione e sulla forma dello Stato.

Ma perché le regioni vogliono un’autonomia differenziata e non basta l’autonomia prevista dall’Art. 5 della Costituzione? (“La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo…”). Perché vogliono ridurre al minimo l’intervento dello stato, fare quello che vogliono, investire e usare i ‘loro’ soldi senza render conto a nessuno. Questo semplificando e ascoltando i governatori.

In realtà le istanze e le ragioni di chi, dietro i governatori, davvero muove la partita dell’autonomia differenziata sono più solide e antiche. Esse rispondono alla spinta degli interessi economici e finanziari che controllano l’economia del Centro-Nord, che ambisce ad integrarsi con il centro Europa: per queste forze non è conveniente uno sviluppo omogeneo del paese che recuperi i ritardi del mezzogiorno e che abolisca le disuguaglianze territoriali e sociali perché, secondo loro, ciò si tradurrebbe in un rallentamento della crescita del Nord ed in un disallineamento rispetto alle economie forti dell’Europa. Lo si è visto anche nella distribuzione dei fondi PNRR, che, contravvenendo alle stesse indicazioni europee, sono stati scippati al Sud cui è stato attribuito non più il 65% ma il 35%.
E tali realtà sono così forti e decisive che resistono e sono in grado di imporsi contro tutte le evidenze, come quelle sollevate dalla pandemia.

La pandemia, infatti, aveva dimostrato l’assoluta impreparazione/inadeguatezza/inaffidabilità delle regioni ad affrontare e gestire la crisi proprio sul terreno della Sanità pubblica, che era già di loro competenza esclusiva e che costituisce i due terzi dei loro bilanci.

In particolare la Lombardia, dopo aver mandato cinicamente a morire medici di base, anziani, lavoratori in combutta con Confindustria, ha riproposto e votato, e il Ministero approvato, una legge per la sanità regionale ancora peggiore della precedente, che aveva quasi azzerato presidi di prevenzione e del territorio, e messo buona parte della sanità in mano al privato. La nuova legge prosegue nella stessa direzione, intrecciandosi con il PNRR, e prevede che le case e gli ospedali di comunità, potranno anche essere gestiti dai privati: che potranno, in questo modo, prendersi oltre agli ospedali anche il territorio, compresa la prevenzione, già ridotta al minimo, adattandola alle proprie esigenze con la moltiplicazione di prestazioni inutili. In 20 anni di gestione decentrata della Sanità Il privato ha comunque ormai una presenza diffusa ormai in tutte le regioni, senza distinzione alcuna tra governi di centro destra e centro sinistra, vedi il Lazio dove il privato, come in Lombardia, assorbe quasi il 50% delle risorse per la sanità. Il fatto che Governo e Ministero della Salute, facciano passare, dopo tutto quello che è successo in questi due anni e quasi senza battere ciglio, il modello lombardo, dove addirittura si anticipa l’autonomia differenziata, fa capire che anche le forze politiche sono sostanzialmente d’accordo con essa, nonostante gli effetti perversi che l’accompagnano. Del resto il ministero della sanità si occupa solo ed esclusivamente di pandemia e vaccinazioni ed ha abdicato alle sue competenze di programmazione, indirizzo e controllo sul resto della Sanità.

Il ruolo delle forze economiche e dei poteri finanziari nella questione dell’autonomia differenziata emerge anche in altre materie, come nell’urbanistica, dove anni di smantellamento delle regole nel governo del territorio e assenza di controllo da parte dello stato centrale hanno dato origine in ogni regione a sistemi politico-affaristici. Come in Emilia Romagna, dove l’urbanistica è contrattata per legge: cioè qualsiasi attività sul territorio (destinazioni produttive e commerciali, aree fabbricabili, infrastrutture, espansioni urbane etc.) da parte di regioni e comuni è subordinata ad un’intesa con le forze economiche e gli interessi costituiti.

Sanità ed urbanistica sono solo due esempi, ma comportamenti analoghi si hanno anche per le altre materie, rispetto alle quali le regioni stanno costruendo una autonomia differenziata di fatto. Soldi e privato, poter agire senza interferenze da parte dello stato: questi sono gli intenti delle regioni quando chiedono l’autonomia differenziata: non la chiedono per amministrare meglio. E vogliono che i soldi continuino ad affluire alla parte ricca del paese.

Infatti, l’autonomia differenziata aumenterà ulteriormente il divario tra Nord e Sud, per quanto riguarda risorse, infrastrutture, servizi poiché i finanziamenti sono stati distribuiti sempre secondo la spesa storica che, stante gli scarsi servizi del Sud, ha continuamente riprodotto il sottofinanziamento degli stessi. Un esempio eclatante è dato dal finanziamento degli dagli asili nido al Nord e al Sud. Nel 2013, un bambino con meno di tre anni, se residente a Reggio Calabria aveva 31 euro l’anno, se residente a Bologna ne aveva 3400, come se un bambino bolognese valesse più di 100 bambini reggini. Nel 2017, su base regionale, un bambino con meno di tre anni, se residente in Campania aveva 219 euro l’anno, se residente in Emilia Romagna ne aveva 1754: come se, per lo Stato, un bambino emiliano valesse otto bambini campani. Il divario è confermato se si esamina la spesa totale del nostro bambino per macroaree (Report Istat 2016): a un bambino residente al Sud vanno 206 euro, nelle isole 443 Euro, al Nord-ovest 817 Euro, al Nord-est 1.056 Euro e al Centro 1.328 Euro. Ulteriori dati si trovano al seguente link:
https://www.fanpage.it/politica/torna-lautonomia-differenziata-cosi-il-governo-draghi-rischia-di-allargare-il-divario-nord-sud

Che la situazione sia alquanto precaria e penalizzante per il Sud è riportato anche dal “Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica”, della Corte dei Conti, nel paragrafo “Finanza degli enti territoriali: criticità e prospettive”. Da esso risulta che Il sottofinanziamento riguarda sia le Regioni del Sud sia i Comuni, che vi è molta incertezza sulla definizione dei fabbisogni legati alle funzioni fondamentali, sulle fonti di finanziamento e sui meccanismi perequazione dei livelli essenziali. Quindi, dopo quasi 12 anni, gli effetti della legge Calderoli sul federalismo fiscale sono devastanti: la mancata applicazione dei Lep (livelli essenziali delle prestazioni) e il calcolo dei fabbisogni standard dei Comuni, sulla base della vecchia spesa storica, hanno messo in ginocchio le Regioni e i Comuni del Mezzogiorno. Uno scippo continuo di risorse, in tutti i settori, che ha finito per acuire il divario tra Nord e Sud.

E’ quanto emerge anche dal database di OpenCivitas, il portale di accesso alle informazioni degli enti locali. Se si prende in considerazione il capitolo “istruzione”, le Regioni del Sud registrano uno scarto negativo tra spesa storica e spesa standard del 30,89%, mentre il Nord ha potuto investire il 9% in più rispetto al reale fabbisogno. Anche qui, c’è un’Italia del Nord che riesce a incassare maggiori trasferimenti statali offrendo ai propri cittadini servizi efficienti e superiori alla media; e un’Italia del Sud che ne riceve molto meno.

Lo stesso succede negli investimenti per la sanità: dei 47 miliardi totali impegnati in 18 anni (2000-2017), oltre 27,4 sono finiti nelle casse delle regioni del Nord, 11,5 in quelle del Centro e 10,5 nel Mezzogiorno. In termini pro-capite significa, ad es. che, mentre la Valle d’Aosta ha potuto investire per i suoi ospedali 89,9 euro, l’Emilia Romagna 84,4, la Toscana 77, il Veneto 61,3; la Calabria ha dovuto accontentarsi di appena 15,9 euro pro-capite, la Campania 22,6 euro, la Puglia 26,2, il Molise 24,2, il Lazio 22,3, l’Abruzzo 33.

Forti differenze sono fornite anche dal sistema dei CPT (Conti pubblici territoriali) che riguarda l’insieme della spesa pubblica allargata al Sud e al Nord. Da essi risulta che nel 2018, un cittadino del Centro-Nord riceveva 17.621 Euro, un cittadino meridionale ne riceveva 13.613, con 4008 Euro di differenza. Quindi se i diritti dei meridionali valessero quanto quelli dei settentrionali, lo Stato spenderebbe nel Mezzogiorno quasi 83 miliardi in più ogni anno per i 20,697 milioni di abitanti del Sud.

A questo punto si è arrivati non solo perché la distribuzione dei finanziamenti è stata fatta sulla base della spesa storica che ha penalizzato il Sud, ma anche per l’acquiescenza della classe dirigente e politica del Sud e per la malversazione (tale deve definirsi) dei rappresentanti del Nord che si sono sistematicamente opposti non solo alla definizione di criteri per un’equa distribuzione ma anche a qualsiasi tentativo di perequazione da parte dello Stato.

L’autonomia differenziata serve anche a cristallizzare questa differenza storica, ad impedire che abbia luogo una perequazione. Il primo effetto sarà infatti che ogni regione tratterrà gran parte delle proprie tasse, quindi lo Stato non potrà esercitare più alcuna azione perequatrice, peraltro da sempre ridotta e insufficiente, a favore delle regioni più povere, la cui capacità impositiva è molto bassa.

A conferma della volontà di procedere con l’autonomia differenziata, il Governo ha inserito nella Legge di Bilancio 2022 4 articoli (43, 44, 45, 179) sui Livelli Essenziali di Prestazione (LEP) per la non autosufficienza e l’infanzia. I LEP, insieme ai fabbisogni standard, sono i criteri per la definizione e quantificazione dei finanziamenti. Non sono tuttavia previsti criteri per la definizione dei fabbisogni standard e non si individuano obiettivi, costi, livelli di prestazione. Assente qualunque riferimento al fondo di perequazione, indispensabile per un preventivo riequilibrio tra le diverse aree del paese e per superare lo squilibrio tra le regioni. I LEP non sono stati definiti – volutamente – in 20 anni, pare difficile che possano essere definiti in tempi brevi ora. Questo significa che il Governo pur consapevole delle enormi diseguaglianze che si sono create nel paese e tra parti dello stesso non intende iniziare a sanarle.

Di fatto non esistono forze di peso che si oppongano all’autonomia differenziata, perché i partiti e i sindacati maggiori, sono sostanzialmente a favore, e solo una piccola parte delle variegate realtà che popolano la società civile fa qualcosa per opporsi: ma non esistono forze in grado di opporsi, come non esistono nel paese forze in grado di opporsi alle politiche fortemente classiste di questo governo.

Come estrema ratio qualcuno sta pensando a una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per rivedere, all’interno del Titolo V, i punti di maggiore frizione nel rapporto Stato-regioni, come l’art. 116, 3 comma che ha aperto la strada alle richieste delle prime tre regioni, evitare il trasferimento delle materie fondamentali per la tutela e l’eguaglianza dei diritti e garantire un ruolo di coordinamento e controllo da parte dello stato. Altro non sembra possibile.

Loretta Mussi

Medico Sanità Pubblica

Collaboratrice di Lavoro e Salute

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