Autonomia differenziata: guardarla da SUD per vedere l’effetto che fa

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il fallimento dell’Italia verso il suo Sud è solenne, innegabile, immenso
Gunnar Myrdal, premio Nobel per l’Economia

Il tema della cosiddetta autonomia differenziata, più propriamente definibile “regionalismo separatista” o più efficacemente definita “secessione dei ricchi”, dovrebbe essere seppellito dall’evidenza dei fatti: la pandemia in atto sta dimostrando l’importanza di avere un servizio sanitario nazionale, una scuola pubblica statale, la parità di accesso ai diritti sociali, la centralità del pubblico per garantire l’interesse generale.

Al contrario, il Paese è imprigionato nelle sue diseguaglianze e la crisi di governo si è ricomposta in modo preoccupante.

Infatti, come prevedibile e previsto, il Governo Draghi-Mattarella, nato da un percorso extraparlamentare nel mezzo di una crisi senza precedenti in un sostanziale stato di eccezione, costituisce un ulteriore passo verso un epilogo conforme al disegno di ristrutturazione del capitalismo, a ulteriore danno delle fasce sociali più deboli e dei territori più svantaggiati.

A guardarlo da un’ottica meridionalista e costituzionale, nel senso della salvaguardia dell’unità e dell’uguaglianza della Repubblica, è chiaro il suo orientamento nordista a trazione di destra, per la storia del Presidente-banchiere e per la composizione della compagine governativa: il ministero degli Affari Regionali e Autonomie e quello al Sud nelle mani di Forza Italia, i ministeri del Turismo e dello Sviluppo Economico nelle mani della Lega, quelli finanziari e “tecnici” espressione del mondo delle banche, di Confindustria e delle grandi i grandi imprese del nord, con un sottobosco ministeriale screditato e la gestione dell’emergenza affidata a militari.

Nelle dichiarazioni alle Camere, la questione dell’autonomia differenziata non compare, insieme ad altre vistose assenze. Ciò non deve rassicurarci: essa rimane nei contributi programmatici dei partiti di questa inquietante maggioranza, nelle incaute e spregiudicate dichiarazioni di alcuni suoi esponenti (con sofisticato sussiego, la neoministra Stefani ha affermato che sull’autonomia differenziata sarà “come un falco”), negli atti e nelle prese di posizione di alcuni presidenti di regione, compiaciuti della impropria definizione di “governatori”, in una continua e dissennata sovrapposizione di poteri e di funzioni fra livelli istituzionali.

La delinquenziale subordinazione della salvaguardia della salute delle persone alle esigenze economiche, l’opacità di alcune operazioni oggi al vaglio della magistratura, le inadempienze sui piani di prevenzione sanitaria e per la sicurezza delle scuole hanno acuito le disuguaglianze.

I presidenti di Veneto, Friuli, Emilia Romagna, seguiti immancabilmente da altri colleghi, si sono dichiarati disponibili a rifornirsi autonomamente di vaccini su mercati paralleli tramite improbabili e ambigui intermediatori; l’assessora lombarda Moratti proponeva di distribuire i vaccini alle regioni in base alla ricchezza prodotta, il presidente della Liguria faceva riferimento agli “anziani improduttivi”; De Luca indulge in contradditorie esternazioni macchiettistiche; il presidente del Lazio non intende somministrare il vaccino ai docenti che provengono da altre regioni; quello della Puglia tortura docenti e famiglie con ordinanze per una scuola “a la carte” e chiusure oggetto di ricorsi e sentenze del TAR, nelle quali si richiama il dettato costituzionale, secondo cui “i diritti connessi all’istruzione scolastica sono quelli che la Repubblica esige che siano garantiti su tutto il territorio nazionale” e che “il compito della loro definizione spetta allo Stato, anche quando la loro realizzazione competa a Regioni ed Enti locali”.

Il contenzioso Stato-Regioni è una delle conseguenze della confusione di competenze. Di recente la Corte Costituzionale, a proposito della legge regionale n.11/2020 della Valle d’Aosta, ha affermato che il legislatore regionale, anche se dotato di autonomia speciale, “non può invadere con una sua propria disciplina una materia avente ad oggetto la pandemia da Covid-19, diffusa a livello globale e perciò affidata interamente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, a titolo di profilassi internazionale”.

Eppure si persevera nel rivendicare il progetto autonomista, anzi a praticarlo nei fatti con forzature locali e inadempienze nazionali. Il Veneto fa ancora da apripista e inaugura in piena terza ondata pandemica un “osservatorio” con lo scopo di “supportare la Regione nella delicata fase di negoziati con il Governo e nella successiva fase di attuazione della legge di differenziazione”.

Le scelte dell’attuale governo, a partire dall’impegno dei fondi europei, avranno ricadute sul destino del Paese: la differenziazione è parte di un disegno che prefigura una prospettiva di aggancio delle regioni più ricche alle economie europee più forti, lasciando alla deriva il Sud, considerato un peso. È una visione miope perché, se è vero che il Sud non si salva da solo, il Paese intero non può salvarsi senza il Sud. L’alternativa è la proiezione in una dimensione mediterranea, che faccia leva sulla coesione sociale, sull’adeguamento delle infrastrutture, su un’equa distribuzione delle risorse e su un diverso modello di produzione, di riproduzione e di partecipazione democratica.

In quest’ottica, una nuova questione meridionale è davanti a noi, intesa non come rivendicazione territoriale ma come grande sfida nazionale: il progetto di separatismo regionale è da avversare perché è esigenza strategica del capitale e comporta la rottura del mondo del lavoro e della solidarietà sociale.

È figlio della modifica del Titolo V della Costituzione del 2001, voluta dal governo Dalema e prima dalla Commissione bicamerale del 1997, come espediente del centrosinistra per sottrarre la questione del federalismo alla Lega, tentativo risultato con tutta evidenza inefficace e pericoloso.

Ma prima ancora è figlio dell’Europa dei trattati di Maastricht e di Lisbona, del processo neoliberista degli anni ’90 e delle macroregioni con cui si progettava di ridisegnare il territorio europeo, secondo cui l’Italia sarebbe smembrata in più parti, ciascuna appartenente a una diversa macroregione. Va da sé che Nord e Sud non farebbero parte della stessa macroregione.

Il titolo V, come “deformato” nel 2001, in cui sparisce il richiamo al Mezzogiorno e alle isole, riduce la potestà legislativa dello Stato a favore di quella concorrente delle Regioni, su ben 23 materie, in base a intese fra lo Stato (il governo) e le singole regioni che ne fanno richiesta.

Nel 2018 i tempi diventano maturi per passare all’incasso: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sottoscrivono con il governo Gentiloni, 4 giorni prima della scadenza, improbabili pre-intese con cui si rivendica, oltre che l’attribuzione di funzioni, il trattenimento dei tributi, privando lo Stato delle risorse destinate alla solidarietà e alla perequazione nazionale, non reperibili diversamente per i vincoli di pareggio di bilancio. La conferenza Stato-Regioni diventa una terza Camera, nella quale venti staterelli contrattano pezzi di autonomia, con ulteriore marginalizzazione del Parlamento.

Questo processo sembra apparentemente inceppato, anche grazie alla coraggiosa resistenza di comitati, movimenti e forze di sinistra, fra cui Rifondazione Comunista, che si è opposta a tutti i rimaneggiamenti costituzionali (dal Titolo V all’art. 81, alla deforma Renzi, fino al recente taglio del numero dei parlamentari) e ai trattati europei che li hanno generati.

Il ddl sull’autonomia differenziata, annunciato come collegato alla legge di Bilancio 2021, poi non è stato presentato, ma non facciamoci illusioni e comunque i processi disgregatori sono ampiamente in atto.

I fondi per l’attuazione del “federalismo fiscale”, negli anni, sono stati erogati in modo iniquo e truffaldino, dirottando verso i territori più ricchi le risorse necessarie al fabbisogno di servizi sociali delle zone più deprivate, come ampiamente dimostrato da inchieste giornalistiche, da studi di economisti e costituzionalisti, dai rapporti Svimez, ISTAT, Eurispes (cfr “Zero al Sud” di Marco Esposito, “Sud colonia tedesca” di Andrea Del Monaco, le relazioni del prof. Giannola, solo per citarne alcuni).

Le commissioni che nel tempo si sono occupate della questione erano formate da componenti a prevalenza del nord e quelli meridionali non hanno brillato per competenza, coerenza e onestà intellettuale.

Un recente studio di Openpolis conferma il quadro inquietante: l’Italia investe meno del resto d’Europa nel diritto all’istruzione e nei servizi all’infanzia, ma è il Sud ad avere maggiori difficoltà e a dover operare i tagli più consistenti: se il Comune di Milano destina 206,5 euro pro-capite per servizi agli studenti, Bari ne destina 82,37, Napoli 51,97 e Messina 42,18; per il diritto allo studio la Lombardia nel 2019 ha stanziato 420 milioni di euro, la Puglia, penalizzata da minori trasferimenti statali e da inique ripartizioni basate sul discutibile criterio della “spesa storica”, 32 milioni; per gli asili nido, a Trieste la spesa pro-capite è di 185,96 euro, a Messina 3,94.

In sostanza, c’è un nord che può permettersi servizi superiori alla media e un sud che deve accontentarsi delle briciole.

Nella legge di Bilancio 2021 non mancano sorprese inquietanti, che riguardano i LEP (Livelli Essenziali di Prestazione, previsti come obbligo costituzionale ma mai definiti e comunque ben lontani da livelli “uniformi” di prestazione). Viene previsto un bonus per l’assunzione di assistenti sociali fino al raggiungimento di 1 ogni 5000 abitanti, nei limiti delle risorse disponibili (180 milioni di euro nel 2021). Peccato che il bonus scatti solo per i comuni che hanno già raggiunto la soglia di 1/6500 abitanti, e anche per chi ha ampiamente superato la quota stabilita. Cioè, a chi è al disotto del parametro indicato, ai comuni più poveri o con problemi di conti, non andrà nulla, invece quelli “virtuosi” si saranno meritato un premio in più. Alla faccia della perequazione.

Questo fa sorgere alcuni inquietanti interrogativi: come mai i “governatori” delle regioni le cui popolazioni sono state private di servizi essenziali, i sindaci, il presidente meridionale dell’ANCI, non hanno indirizzato l’energia necessaria per realizzare il riequilibrio previsto per legge? Può essere tollerabile che un bambino che nasce a Reggio Calabria abbia meno diritti di uno che nasce a Parma? Perché non hanno fatto propria la lotta contro l’autonomia differenziata?

La risposta che comprensibilmente si affaccia, oltre a considerazioni di tipo etico-politico, è che l’uguaglianza ha costi esosi che evidentemente il nostro Paese non può permettersi, pena la messa in discussione di un sistema che si ritiene non modificabile e la rottura di equilibri interni alle gerarchie dei partiti che si sono avvicendati in Parlamento e nei diversi livelli istituzionali. Quindi si è accettata una perequazione dimezzata di costi e servizi invece che “integrale” come previsto dal dettato costituzionale. Oltretutto, a conti fatti e con un briciolo di malizia, può risultare comunque allettante godere di maggiore autonomia, funzioni e risorse, se si tralascia il dettaglio dell’interesse generale e la trascurabile inezia dell’articolo 3 della Costituzione.

Ora la questione presenta la novità riveniente dall’attuale stato di emergenza, che sta comportando la disponibilità di risorse europee aggiuntive, anche se a conti fatti ben al di sotto delle aspettative evocate dal racconto corrente e in larga parte sotto forma di prestiti e a condizioni stringenti.

In ogni caso, la presunta generosità dell’Europa nei riguardi dell’Italia vincola la destinazione dei fondi a parametri definiti: densità di popolazione, livelli di disoccupazione, reddito pro-capite, perdita del PIL. Ciò comporterebbe un’allocazione di oltre il 60% di fondi al sud, ben oltre il 34% fissato dal Recovery plan del Governo Conte, al quale il presidente Draghi ha detto di conformarsi, oltre ad affidarne in gran silenzio la supervisione ad una società privata multinazionale di consulenza, la Mackinsey, con sede mondiale a NewYork.

Gli fa eco con audace schiettezza il capogruppo alla Camera della Lega: “il Recovery non deve essere un sistema di perequazione territoriale”; non è da meno il presidente Bonaccini che parla di privilegiare la “parte produttiva del Paese”.

La pressione perché si continui così è fortissima, ma è assolutamente da contrastare perché allargherebbe definitivamente un divario che la stessa Europa sente come minaccioso.

Il governo Draghi non è una parentesi, è l’espressione di una comune visione di scelte strategiche che accomunano centrodestra e centrosinistra, ai quali si è aggiunto il M5S.

Nel prossimo periodo, oltre allo sblocco dei licenziamenti e al precipitare della crisi economica, ci sarà il ripristino del patto di “stabilità e crescita”, momentaneamente sospeso per il 2021. L’eurogruppo farà propria le linee guida che Draghi a dicembre aveva elaborato per il gruppo di economisti del G30: aiutare le aziende redditizie e mettere le banche al sicuro dai rischi d’insolvenza delle altre.

Costruire l’opposizione e l’alternativa sociale e politica è una necessità ineludibile. È gia tardi.

I diritti sociali e la difesa della Costituzione nata dalla Resistenza sono connessi.
In questo senso è necessario:

. riprendere il percorso che condividiamo con il “Comitato contro qualunque autonomia differenziata” e con tutti gli altri soggetti che lottano per l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei diritti, a partire dal ritiro delle intese e risignificando la stessa parola “autonomia” nel senso attribuitole dall’art.5;
. abrogare il comma 3 dell’art.116 e rivedere il Titolo V;
. ristabilire e ridefinire funzioni e ambiti (legislativo, di programmazione, amministrativo) dei vari livelli istituzionali;
. restituire dignità al Parlamento, alla democrazia ad ogni livello, alla partecipazione popolare per un vero municipalismo.

La lotta contro le spinte separatiste è innegabilmente intrecciata con un nuovo meridionalismo, tutto da rifondare in senso gramsciano per opporre la solidarietà della “popolazione lavoratrice” a quella “tra alcuni gruppi privilegiati a scapito degli interessi generali”.

Tonia Guerra

responsabile campagna “No Autonomia differenziata”

Segreteria nazionale Rifondazione Comunista

Pubblicato sul numero di marzo del mensile Lavoro e salute

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