Autonomia differenziata, sfruttamento generalizzato

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Con la fine del Governo giallo-verde, sembrava essere caduta nel dimenticatoio la riforma leghista per eccellenza: l’autonomia differenziata. A ben vedere, tuttavia, essa sembra soltanto rinviata. Se, come pare probabile, il prossimo sarà un governo di centrodestra a trazione leghista, si può scommettere che il regionalismo differenziato sarà uno dei primi punti all’ordine del giorno. E non è neanche detto che si debba aspettare il prossimo esecutivo. Nel disperato (e, probabilmente, illusorio) tentativo di conquistare il consenso dell’imprenditoria settentrionale, potrebbe essere lo stesso governo giallo-rosè ad anticipare i tempi di questa sciagurata riforma. D’altro canto, le recenti dichiarazioni del Ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia, in base alle quali la bozza di una fantomatica “legge quadro” sarebbe quasi pronta, appaiono come dei tristi presagi.

Tuttavia, al di là di qualche fumosa dichiarazione, ad oggi dell’autonomia differenziata si sa forse meno di prima. All’epoca della trattativa tra il Conte-I e le Regioni, interessate all’attuazione dell’articolo 116 della Costituzione, circolavano soltanto delle bozze di accordo, che non avevano mai trovato una forma definitiva. Trarre conclusioni su come, concretamente, avverrebbe il trasferimento di competenze e quindi di risorse dallo Stato alle Regioni è dunque pressoché impossibile. Logica vuole, tuttavia, che tale trasferimento comporti necessariamente un disimpegno da parte dello Stato, nel finanziamento delle competenze in questione, e un aumento delle risorse che le Regioni vorranno trattenere per adempiere ai nuovi compiti. Ma se il costo delle prestazioni è, in una certa misura, definibile, lo stesso non si può dire sulla quantità di denaro che le Regioni vorranno trattenere sul proprio territorio. Obiettivo dichiarato dei Governatori, soprattutto delle Regioni del Nord (ad alto reddito e, quindi, con più risorse), è quello di trattenere, attraverso l’attuazione dell’autonomia differenziata, una quota considerevole del cosiddetto residuo fiscale che rappresenta la differenza tra quanto un territorio versa, sotto forma di tributi, alle Pubbliche Amministrazioni centrali e l’ammontare di risorse che in quel territorio vengono spese o ritornano. L’esistenza stessa del residuo fiscale non è necessariamente un indicatore, come sostenuto dagli alfieri della “questione settentrionale”, della maggiore efficienza delle regioni settentrionali rispetto alle altre: è semplicemente il risultato del fatto che le entrate pro-capite per lo Stato sono maggiori laddove è più alto il reddito pro-capite. E il fatto che il reddito pro-capite di una determinata area geografica sia più alto di quello di altre dipende da una complessa rete di motivi, in cui la cosiddetta “efficienza” gioca un ruolo marginale.

Ci siamo già occupati del ruolo che i vincoli sulle finanze pubbliche dei Paesi membri dell’Unione europea e della zona euro giocano nel rendere ancora più dolorose e divisive le conseguenze dell’attuazione dell’autonomia. Allo stesso modo, abbiamo cercato di spiegare perché queste conseguenze possano essere particolarmente nocive per le Regioni a più basso reddito pro-capite, quelle meridionali, in particolare a causa della riduzione nel trasferimento di risorse da parte dello Stato centrale.

In questa occasione, proveremo a capire che ruolo abbiano i vincoli interni di finanza pubblica, vale a dire quelli che vengono imposti dalla legge a Regioni ed Enti locali; e se questa riforma possa davvero essere in grado di avvantaggiare così tanto il Nord del Paese, trasformando le regioni settentrionali in tanti Paesi di Bengodi e soprattutto se ciò avverrebbe a vantaggio dei lavoratori.

Vincoli esterni ed interni: gerarchia dell’austerità, in una guerra di tutti contro tutti

Sappiamo bene che l’articolo 81 della Costituzione, così come modificato dalla riforma del 2012 che ha introdotto il principio del pareggio di bilancio in Costituzione, prevede che lo Stato debba assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese. Inoltre, è previsto che l’indebitamento sia consentito soltanto “al fine di considerare gli effetti del ciclo economico, e previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta (…) al verificarsi di eventi eccezionali”. Quella sciagurata riforma, però, non si limitò a prevedere tali vincoli soltanto per lo Stato centrale. A essere modificati, infatti, furono anche gli articoli 97 e 119. L’articolo 97, al primo comma, prevede che “Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico”. Tra le pubbliche amministrazioni, ovviamente, ci sono anche Regioni ed enti locali. A confermarlo è la modifica dell’articolo 119, che oggi prevede che “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea”.

A tale riforma è stata data attuazione con una cosiddetta “legge rinforzata” (a differenza delle leggi ordinarie, infatti, essa può essere modificata soltanto a maggioranza assoluta), la legge n. 243 del 2013, la quale disciplina, per l’appunto, l’applicazione del principio dell’equilibrio tra entrate e spese nei confronti delle regioni e degli enti locali. La regola del pareggio, infine, è stata definitivamente introdotta nell’ordinamento italiano con la legge di stabilità 2016 (L. 208/2015).

Le somiglianze con i vincoli europei non si fermano qui. Anche per Regioni ed enti locali, infatti, è previsto un meccanismo di sorveglianza e, eventualmente, di punizione per gli indisciplinati. Cosa succede, infatti, a chi non rispetta le regole di bilancio? Diverse cose, tutte spiacevoli. Ad esempio, per gli enti locali è prevista la riduzione di alcune risorse derivanti dalla perequazione (fondo sperimentale di riequilibrio o fondo di solidarietà comunale), nella stessa misura dell’importo dello scostamento. Concretamente, ciò significa che se un Ente locale, ad esempio un Comune, per ristrutturare una scuola effettua spese eccedenti alle entrate per 100.000 euro, si vedrà ridotti di 100.000 euro i trasferimenti statali. In questo modo, sottraendo risorse impiegabili per i servizi ai cittadini, l’equilibrio dei conti è ristabilito e i tentacoli dell’austerità si estendono anche alle amministrazoni periferiche. Per quanto riguarda le Regioni, inoltre, è previsto che quelle inadempienti versino al bilancio statale, per un triennio, un importo annuo corrispondente a un terzo della violazione (e, se tale trasferimento non avviene, lo Stato si rivale sui soldi che le Regioni hanno versato presso la tesoreria statale: una sorta di prelievo forzoso dal “conto corrente” delle regioni). Inoltre, è previsto che gli enti, nell’anno successivo alla violazione, non possano impegnare spese correnti in misura maggiore all’importo dell’anno precedente, ridotto dell’1 per cento. Si vieta, inoltre, agli enti inadempienti di ricorrere all’indebitamento per gli investimenti e di procedere, ad assunzioni di personale. Si prevedono, inoltre, riduzioni per le indennità di funzione e i gettoni di presenza del Sindaco o del Presidente, nonché dei componenti della Giunta. Naturalmente, come nella migliore tradizione dell’austerità, sono previsti strumenti attraverso i quali è possibile, anche in presenza di violazioni, evitare queste punizioni. A patto, però, di entrare “in riabilitazione” attraverso dolorosi piani di rientro: anche questo ci ricorda qualcosa.

Ma non finisce qui. È anche previsto un meccanismo premiale per gli enti virtuosi, finanziato, colmo dei colmi, dalle sanzioni comminate agli enti “cattivi” e dalle riduzioni dei trasferimenti verso questi ultimi.

Insomma, una guerra di tutti contro tutti, con l’obiettivo dichiarato di imporre l’austerità a tutti i costi, compreso quello della disgregazione del tessuto sociale, dell’unità nazionale e della solidarietà tra cittadini.

Non è difficile immaginare in che modo un’autonomia differenziata incentrata sul principio della riduzione del residuo fiscale possa impattare su un sistema di premi e punizioni così costruito. Riduzione del residuo fiscale significa che le regioni più ricche, che hanno una maggiore disponibilità di redditi da cui attingere attraverso l’imposizione fiscale, potranno più facilmente rispettare i vincoli di bilancio, investire di più e ottenere ancor più facilmente i “premi” per essere state brave scolarette. Ai danni, però, degli studenti discoli, indisciplinati e spendaccioni, che, magari a causa di crisi industriali e vere e proprie deindustrializzazioni, a causa di condizioni infrastrutturali ed extraeconomiche che hanno una lunga storia alle spalle, sono perennemente in crisi finanziaria, hanno scarsi redditi dai quali attingere e hanno già dovuto provvedere a tagli draconiani della propria spesa per la fornitura di servizi ai cittadini.

Se Lauria piange, Brembate non ride (a lungo)

“Beh” – verrebbe a dire dopo questo breve racconto – “ma allora almeno i cittadini e i lavoratori del Nord dovrebbero essere a favore di questo progetto di autonomia differenziata. Gli enti locali e le Regioni del Nord potranno investire di più, fornire più beni e servizi, perseguire la piena occupazione e tutte quelle belle cose che dite voi”.

Certo, nel breve periodo, in un’ottica di “egoismo territoriale”, non sembrano esserci ragioni, fuori da quel sentimento di solidarietà di classe ormai da decenni compromesso dalle politiche di divide et impera fomentate all’interno della classe lavoratrice, per le quali un cittadino dell’Italia settentrionale debba essere contrario a questa riforma.

È senz’altro possibile che, almeno nei primi tempi, anche i lavoratori delle imprese insediate al Nord possano trarre dei benefici da una maggior disponibilità di denaro pubblico per costruire e riparare strade, ospedali, uffici delle amministrazioni locali e così via. Va detto però con chiarezza che si tratterebbe di un beneficio direttamente proporzionale al danno a carico di quelle regioni a più basso reddito che vedrebbero una minor quantità di risorse utilizzabili per i servizi ai propri cittadini. Un gioco a somma zero dunque, specchio di un mero conflitto scatenato all’interno della classe subalterna, un episodio della solita guerra tra poveri. Lavoratori che guadagnano qualche briciola a spese di altri in un contesto di austerità per tutti.

Tra l’altro, non mancano certo le frecce alla retorica leghista (opportunamente appuntite dalle nefaste tesi liberiste) sui terroni inefficienti e nullafacenti che, tra l’altro hanno eletto ripetutamente politici ladri e incapaci e che quindi, in fin dei conti, questa situazione se la meritano. Questo meccanismo, però, non è nuovo. Sfruttare più intensamente o impoverire alcuni lavoratori, quelli più deboli, per elargire alcune briciole a quelli più forti è una strategia vecchia quanto il capitalismo e volta, presto o tardi, a indebolire e impoverire tutti i lavoratori.

Il problema, però, per il funzionamento di questo meccanismo è che, prima o poi, gli sfruttati della “periferia” (in questo caso, il Mezzogiorno) inizieranno a migrare verso il “centro”. Come per altro già avviene, essi andranno, da un lato, a cercare lavoro al Nord (ancora più intensamente rispetto a quanto avviene già oggi), mettendosi in competizione coi lavoratori “autoctoni”, e, dall’altro, a cercare di usufruire dei migliori servizi di base (scuola e sanità, per dirne due) offerti dalle Regioni del Nord e ulteriormente messi in ginocchio in quelle del Sud. Non ci vuole troppa fantasia per immaginarlo, sta già accadendo. Così come non ci vuole troppa immaginazione per capire chi se ne avvantaggerà. Storicamente, dell’antagonismo tra lavoratori, che si alimenta di artificiose contrapposizioni socioculturali e ha il risultato di esacerbare la corsa al ribasso dei salari, soprattutto in un contesto di deregolamentazione del mercato del lavoro e di disoccupazione, si avvantaggiano sempre e solo i padroni.

Assisteremo, quindi, in maniera ancora più cruenta, a quanto avviene già in riferimento ai lavoratori stranieri e a quanto è già avvenuto, nella storia d’Italia, con le migrazioni di massa dal Sud al Nord, che non a caso, in questi anni di austerità, hanno ripreso vigore: tra i lavoratori litiganti, il terzo (padrone) gode.

Come nella famosa poesia di Brecht, con l’autonomia che verrà, e non è la prima, tra i vinti patirà la fame la povera gente e tra i vincitori patirà la fame la povera gente, ugualmente.

In conclusione, si è sempre i meridionali di qualcun altro

Con buona pace dei leghisti, insomma, che (ovviamente a chiacchiere) strepitano e si battono il petto nei confronti dei vincoli imposti dall’Unione Europea e contro l’immigrazione, si ripropone a livelli geografici inferiori quello che sta avvenendo con il processo di “integrazione” europea: meccanismi attraverso i quali gli Stati (Regioni/Enti locali) più poveri diventano sempre più poveri e quelli più ricchi sempre più ricchi, i lavoratori delle aree più povere sono costrette a emigrare verso quelle ricche, e i capitalisti ne raccolgono i frutti. Si esacerbano così le divergenze, invece che favorire la convergenza delle zone più svantaggiate verso le più ricche in un continuo processo di polarizzazione e divaricazione, sociale e territoriale. Se i reazionari e violenti vincoli comunitari avevano esteso all’Europa Meridionale, come suggerito anche da Krugman, il rischio di una mezzogiornificazione; l’autonomia differenziata non farà altro che acuire la drammatica situazione del mezzogiorno d’Italia facendone pagare le conseguenze ai lavoratori dell’intera Nazione, messi gli uni contro gli altri. L’autonomia differenziata, dunque, è l’ennesimo tassello della guerra tra poveri, della strategia di destrutturazione dell’unità della classe lavoratrice che si articola con terribile efficacia su diversi piani: dal falso conflitto generazionale tra giovani vecchi, al falso conflitto tra lavoratori precari e lavoratori garantiti fino al falso conflitto tra lavoratori di territori più ricchi e di territori più poveri. Tutto ciò, con il benestare del centro-sinistra, che da sempre ha cavalcato l’onda della cosiddetta “questione settentrionale” e con il silenzio complice dei Cinque Stelle, la cui memoria corta, evidentemente, impedisce di ricordare il carico di voti che hanno raccolto al Sud.

Collettivo economisti

18/12/2019  coniarerivolta.org

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