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    Blog, Cronache Sociali — Marzo 24, 2016 8:05 am

    Tre significativi film in questi giorni nelle sale consentono, oltre a una non trascurabile esperienza estetica, di riflettere su uno degli aspetti più contraddittori e paradossali della modernità borghese, ossia che all’eccezionale sviluppo tecnico ed economico corrisponda un progressivo imbarbarimento dei valori.

    AVE, CESARE! ROOM, IL CLUB E ROUSSEAU

    Pubblicato da franco.cilenti

    Ave, Cesare! di Ethan Coen e Joel Coen (valutazione: 6,5) è un vero e proprio manifesto del cinema post-moderno. È un film programmaticamente manierista, antirealista, disimpegnato, destoricizzato, ultra ideologico, iper ironico, in cui in primo piano appare costantemente la personalità scettica dei registi, pronti a desacralizzare tutto, immolando la cosa stessa al loro ipertrofico ego romantico. Il film è ideologicamente improntato in chiave post-moderna e, dunque, programmaticamente e paradossalmente post-ideologica, che finisce con l’annoiare, nonostante sia costellato da scene esilaranti e magistralmente girate. Restano, però, dei puri esercizi di stile, strapieni di citazioni a beneficio dei cinephile.

    La straripante e sempre sopra le righe ironia ultra-soggettivista dei registi è fondata su una visione del mondo decisamente scettica, in cui si mescolano casualmente elementi progressivi dello scetticismo classico, che rimette al proprio posto – al posto subalterno che gli compete – tutto ciò che è accidentale, ed elementi reazionari dello scetticismo post-moderno che si fa gioco di ciò che è sostanziale. In quest’ultimo caso non fa affatto ridere, come nel primo caso, ma provoca solo irritazione e sacrosanta indignazione.

    Abbiamo, così, tutta una serie di gag piuttosto riuscite ed efficaci volte a ridicolizzare lo star system e, a maggior ragione, tutti coloro che lo idolatrano. Ancora più efficace è la taglientissima ironia che si abbatte sui rappresentanti ufficiali delle diverse congregazioni dedite a tenere artificialmente in vita visioni del mondo mitologico-religiose, la cui funzione si è ridotta nel mondo dominato dal dio denaro a divenire il cuore artificiale di una società senza cuore, dove tutto è ridotto a merce e l’unico reale valore resta il profitto, vero e proprio Leviatano a cui tutto deve essere sacrificato, fosse anche il 99% del genere umano, o la stessa possibilità di sopravvivenza dell’uomo sulla terra. La brillantissima gag illustra in modo esemplare il rapporto utilitaristico che con tali congregazioni intrattiene il potere reale, che monopolizza i mezzi di produzione e sussistenza. Gli elementi particolarmente assurdi e paradossali delle diverse credenze e rappresentazioni religiose sono fatti emergere proprio dalla necessaria concorrenza fra le diverse chiese che finiscono con il ridicolizzarsi a vicenda.

    Ovviamente, il quadro cambia del tutto quando si pretende di fare della meschina ironia sulla tragedia della banalità del male, incarnato in modo esemplare dal protagonista, indeciso se abbandonare il ruolo di general manager nell’industria dell’intrattenimento, con le sue temibili armi di distrazione di massa, a favore dell’apparato militare, con le sue micidiali armi di distruzione di massa. Evidentemente nell’opacità del quotidiano, in cui si auto-rinchiude l’ottica miope e opportunista dell’intellettuale post-moderno, l’una occupazione – con la conseguente complicità nella de-emancipazione del genere umano – vale essenzialmente l’altra.

    Tale differenza indifferente, tale possibilità di scelta fra due facce della stessa medaglia, un po’ come nella bipartitica e bipartisan democrazia borghese, si fonda sulla negazione improntata allo scetticismo reazionario, proprio del pensiero debole, nei confronti di qualsiasi alternativa di sistema. Non può, dunque, che infastidire lo spettatore – che ha preservato anche un minimo di moralità, di eticità – la stolta ironia, da servetta trace, per lo spirito dell’utopia, per lo stesso principio speranza.

    Risolvendosi per la tenebra del quotidiano, per l’opacità dell’immediato, come unica dimensione possibile per l’uomo divenuto consapevole della morte di dio, non resta che accettare stoicamente – e al contempo, opportunisticamente – il “vitello d’oro” del profitto, al quale è possibile sacrificare qualsiasi valore universale, a partire dalla stessa verità. Se non esistono più valori assoluti, universali, se chi se ne fa portatore come i marxisti non sono altro che una setta di intellettualoidi gufi, pronti a tramare nell’oscurità costituendosi come quinta colonna del “nemico della nazione”, sino a utilizzare mezzi violenti ai limiti del terrorismo per le loro assurde e velleitarie utopie, non resta che trovare il modo migliore per adattarsi all’esistente, che del resto rappresenta l’unico mondo possibile.

    Ecco allora che il protagonista, vero alter ego dei registi e sceneggiatori, si adatta nel modo più filisteo e pedissequo al senso comune e si pone come “grande inquisitore” del pensiero unico dominante, pronto a prendere senza remore o esitazioni a ceffoni le star che rischiano di farsi imbrogliare da chi ne sfrutta l’ingenuità per realizzare dei filmati piccanti o per dargli a bere che un altro mondo è possibile, che esiste lo sfruttamento, che il padrone non è un padre buono da servire e riverire fedelmente.

    Dinanzi alla vomitevole depravazione di questi raffinatissimi esponenti dell’intellighenzia oggi dominante, al servizio di un sistema in cui lo sviluppo economico e tecnologico non comportano affatto una purificazione dei costumi ma, anzi, il loro sviluppo non può che essere inversamente proporzionale a questi ultimi, non può che affascinare lo sguardo straniante del protagonista di Room (valutazione 7,5), che incarna al meglio l’ideale rousseauiano del buon selvaggio. La moderna società capitalista è così depravata che un giovane pare paradossalmente poter conservare la sua purezza e lo stesso sano buon senso umano, solo se costretto a vivere in uno stato di cattività che, per quanto spaventoso e allucinante, lo preserva dall’influenza di un mondo grande e terribile, che non può che corromperlo.

    Paradossalmente anche la madre, ottimamente interpretata da Brie Larson, meritato oscar come migliore attrice, trova maggiormente intollerabile e spaventosa la depravazione e l’ipocrisia della filistea società “civile” borghese, che raggiunge l’apice della propria barbarie nel nonno benpensante e nella rappresentante della società dello spettacolo, piuttosto che la giungla dalla quale è fuggita. Nello spaventoso “stato di natura” in cui era stata costretta, sebbene costantemente alla mercé della violenza del più forte, riusciva a vivere mossa dall’istinto di sopravvivenza e di protezione per la propria creatura, mentre nel “mondo libero” in cui si ritrova il mix di ipocrita spietatezza che vi impera è talmente letale da rendergli preferibile il suicidio, al punto da fargli obliare il pur amatissimo figlio.

    Particolarmente significativo è il modo radicalmente opposto in cui viene valutata la società dello spettacolo, l’industria dell’intrattenimento, questo micidiale strumento di egemonia e di distrazione di massa, monopolizzato dal capitale. Nell’eterno presente a cui si condanna il pensiero debole e opportunista dei fratelli Coen appare un circo tutto sommato divertente, mentre le terribili zanne che si celano dietro il sorriso da clown dei grandi intrattenitori appare in modo evidentissimo in Room, proprio perché per quanto in modo assurdo e paradossale, la società civile borghese viene storicizzata.

    La terribile esperienza della prigionia in un artificioso regno della giungla, consente di vedere in modo davvero critico e straniato la società capitalista e l’industria dello spettacolo, per quanto dal punto di vista necessariamente limitato di un bambino e di una ragazza madre che hanno subito dei gravissimi traumi, mentre due ricchi e coltissimi intellettuali come i fratelli Coen finiscono con l’impersonarsi completamene nel loro protagonista, il general manager incaricato di mantenere l’ordine nel regno dell’anarchia.

    Ancora più imbarazzante, e di conseguenza irritante, è l’assoluta immoralità e carenza di eticità di un intellettuale raffinatissimo autore di un film al contempo notevole e intollerabile come Il club (valutazione 5). In questo caso siamo dinanzi alla vigliacca e ultracinica estetizzazione di due spaventose tragedie, la micidiale violenza esercitata da adulti che assumono le sembianze di uomini di dio per meglio poter violentare le creature più deboli e ingenue del mondo, e la collaborazione fra potere politico e religioso per poter sottrarre a chi si batteva per un mondo migliore, oltre alla vita, gli stessi figli, da assegnare a famiglie di complici o aguzzini.

    Siamo, dunque, dinanzi a un prodotto di un raffinatissimo regista, magistralmente eseguito dal punto di vista tecnico e formale, che ha il coraggio di denunciare crimini terribili, gli stessi che l’attuale pontefice di “sinistra” si è ben guardato dal denunciare, oggi come allora, e che tuttavia non solo non può che lasciare con l’amaro in bocca uno spettatore non del tutto depravato, ma che riflettendoci a mente fredda non può che apparire un’intollerabile strumentalizzazione ed estetizzazione di spaventosi crimini contro l’umanità, tutt’oggi sostanzialmente impuniti.

    Al di là del fastidio che provoca l’autocompiacimento di un regista che non fa che mettere in mostra e ammirarsi le labbra, mentre pronuncia una denuncia così inequivocabile delle responsabilità della Chiesa dei potenti al servizio dell’oppressione, il film presenta comunque degli spunti di riflessione non trascurabili. Il club ci mette davanti in modo quanto più crudo e spietato possibile l’ambiente sociale profondissimamente ingiusto che favorisce il costituirsi e persino il ricostituirsi di questo spaventoso rapporto di signoria e servitù fra un sedicente uomo di dio e un povero disgraziato.

    Tale rapporto di assoluta oppressione non può che realizzarsi tramite una sorta di – per quanto passiva, inconsapevole e soprattutto indotta – “complicità” da parte di chi è costretto a giocare il ruolo dello schiavo. È, infatti, l’assurda ingiustizia di una società che dà tutto il potere, materiale e spirituale nelle mani degli oppressori e che rende privi di qualsiasi possibilità di difesa, del tutto inermi le vittime, prive di qualsiasi voce in capitolo, preda del silenzio degli innocenti, che rende possibile il realizzarsi e anzi il perpetuarsi di tali crimini.

    Quindi, oltre che commemorare come doveroso le vittime, denunciare e provare a far pagare almeno in parte il fio delle loro colpe ai potenti criminali sarebbe indispensabile battersi in modo razionale e organizzato per togliere di mezzo dei rapporti di produzione che rendono possibile e in certi casi favoriscono tali spaventosi abusi.

    Renato Caputo e Rosalinda Renda

    15/3/2016 www.lacittafutura.it

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    Autore: franco.cilenti
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