Basaglia180X40: dall’istituzione inventata alla società inventata

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Questo contributo rientra nel progetto di approfondimento #Basaglia180X40 realizzato in occasione dei 40 anni della Legge180 e che proseguirà fino alla metà di giugno attraverso la pubblicazione di estratti, riflessioni e segnalazioni.

Pratiche e politiche di salute mentale in un’epoca di crisi

Sono passati quarant’anni dalla promulgazione della legge 180 e cinquanta dal 1968, anno della pubblicazione dell’ “Istituzione negata” a completamento di una stagione di lotte che si sarebbe conclusa alla fine degli anni ’70 con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale e di una serie di leggi di riforma che non hanno avuto eguali nella storia di questo paese. Ebbene siamo ancora qui a parlare di psichiatria, delle sue istituzioni e degli effetti nefasti che continuano ad avere sulla vita e l’esistenza delle persone. E parliamo di una psichiatria sempre cattiva perché ha mantenuto e continua a mantenere quella stessa oppressione e quello stesso potere che esercitava quaranta/cinquant’anni fa. Perché ce lo dobbiamo dire chiaramente, noi oggi siamo tornati a fare psichiatria (magari in alcuni casi anche una buona psichiatria sociale) ma non facciamo più salute mentale.Fare salute mentale ha significato agire praticamente un progetto politico di grande rinnovamento culturale e sociale dentro e fuori le istituzioni. E’ stato lo sforzo di immaginare una società nuova in cui ogni rapporto rappresentasse davvero la possibilità di un riscatto individuale e collettivo per chiunque fosse stato escluso o marginalizzato dalla società capitalistica.

La situazione di questo paese, oggi come ieri, è sempre un po’ paradossale: a fronte di uno smantellamento progressivo dello Stato Sociale e di un impoverimento delle risorse umane e materiali, noi siamo arrivati al punto di guardare nuovamente all’estero come modello di riferimento delle nostre pratiche. Cioè siamo tornati all’epoca in cui Basaglia, nel vuoto culturale e pratico della psichiatria italiana dell’epoca, guardava con interesse e curiosità all’esperienza della comunità terapeutica di Maxwell Jones e la applicava a Gorizia. Se ci pensate sembra che 50 anni siano passati senza che si sia realmente prodotto quel cambio di cultura e di pratiche che auspicavamo negli anni in cui si lottava per distruggere il manicomio. Però qualcosa è accaduto e sarebbe ora di guardarlo senza false reticenze o pose ideologicamente nostalgiche. Ma non è questa la sede per poter rendere conto di tutto ciò che si è prodotto e che non si è realizzato negli ultimi 40 anni in questo paese in ambito psichiatrico. Forse prima o poi dovremo raccontarla questa storia e non più solo farcela raccontare o raccontarcela.

La psichiatria alternativa italiana è caduta dentro una sorta di incantesimo da cui sembra non riesca più a liberarsi: preda di una memoria congelata e ormai quasi completamente aneddotica. Eppure il re rimane nudo come lo era 50 anni fa. A me pare in generale che quello che accaduto è che, nonostante gli sforzi per proseguire il lavoro avviato da Franco Basaglia, Sergio Piro e da molti altri, noi non siamo stati più in grado di produrre qualcosa di innovativo in questo campo. Lo vediamo quotidianamente lavorando o entrando in qualsiasi servizio di un Dipartimento di Salute Mentale di questo paese. E lo vediamo maggiormente in una realtà come quella meridionale dove nonostante un buon impianto legislativo, l’arretratezza burocratica e istituzionale, l’immobilismo politico e amministrativo hanno da sempre avuto un ruolo decisivo nel contrastare qualsiasi forma di cambiamento e di innovazione. Tutto quello che è stato fatto qui è sempre stato il prodotto di un’auto-organizzazione nata dal basso e dal coraggio di alcuni tecnici illuminati, nel tentativo di compensare un vuoto istituzionale e politico dilagante. Penso, ad esempio, all’esperienza del Centro di Medicina Sociale di Giugliano o a quella di smantellamento del manicomio da parte di Sergio Piro e la sua equipe prima al Materdomini, e successivamente al Frullone e al Bianchi.

Quello che comunque appare evidente è che siamo tornati nuovamente ad occuparci della malattia e non del “malato”. Eppure qualcosa ancora esiste di quella cultura, di quella pratica e di quello slancio che seppe dare il movimento antistituzionale, sedimentata nell’ostinazione e nel coraggio di alcuni “sopravvissuti” (ormai sempre di meno per motivi anagrafici) di quella esperienza. Per questo oggi non vi voglio parlare delle carenze della psichiatria ma di una realtà presente in un piccolo paesino del Sud Italia. A dimostrazione che se c’è volontà politica, ostinazione e passione reale è ancora possibile lavorare diversamente e lo si può fare anche in un territorio da sempre considerato marginale e incapace di produrre cambiamenti. E questo nonostante le condizioni estremamente avverse in cui siamo costretti ad agire, nonostante gli interessi privati, il clientelarismo, l’immobilismo amministrativo e l’arretratezza spaventosa di un sistema burocratico che frena qualsiasi tentativo di applicazione di una legge regionale pugliese sulla salute mentale seppur avanzatissima. Io non credo che questa esperienza si possa considerare innovativa, credo piuttosto che faccia una cosa molto semplice che è quella di applicare pienamente la legge regionale pugliese n. 26/2006[1] e più in generale risponda al dettato della legge 180 inverandola nei presupposti e spingendosi anche aldilà del suo stesso quadro di riferimento.

A Latiano, un piccolo paese di 15.000 abitanti nel brindisino, grazie al coraggio e all’ostinazione di Carlo Minervini psichiatra basagliano, Maddalena Guida psicologa e sua stretta collaboratrice e di tutte le persone che lo frequentano e ci lavorano, esiste da 10 anni un Centro Sperimentale Pubblico[2] che quotidianamente fa prevenzione e salute mentale nel senso auspicato da Franco Basaglia. In che modo? Utilizzando fondi pubblici regionali attraverso una convenzione tra la Asl di Brindisi e un’associazione di utenti, familiari e cittadini (la 180amici Puglia). Il tutto nel quadro di un comma della legge regionale che prevede la possibilità di istituire sperimentalmente centri diurni autogestiti[3]. Il centro è cogestito da persone con esperienza diretta di sofferenza psichica che lavorano con regolare contratto da dipendenti a vario numero di ore e dagli operatori della Unità Operativa di Salute Mentale del territorio brindisino. In questo centro si fa una cosa che è ormai scomparsa non solo nei servizi psichiatrici ma in ogni contesto istituzionale attuale. Si fa l’assemblea, e l’assemblea è il motore di tutte le azioni, le decisioni e le attività che il centro organizza quotidianamente. Ma non si fa solo questo: si pongono anche i presupposti per una progettualità condivisa con il territorio attivando collaborazioni con altre agenzie sociali. Si cerca di avviare attività di cooperazione e impresa sociale, di costruire percorsi abitativi reali a partire dalle esigenze e dai bisogni delle persone. E soprattutto si cerca di distruggere l’istituzionalizzazione dilagante che un privato sempre meno “sociale” ha determinato sul territorio grazie alla sua offerta di residenzialità pesante, a riprova che non basta un dettato legislativo per cambiare la realtà.

Noi oggi in questo momento incarniamo però anche una profonda contraddizione: ci siamo dovuti inventare il lavoro perché mancano politiche del lavoro che tutelino le fasce deboli e dobbiamo fare i conti con un assistenzialismo di ritorno che rende invalidi ragazzi e ragazze di 25 anni senza prospettive di occupazione e di integrazione sociale. La loro diagnosi psichiatrica è spesso una pietra tombale su qualsiasi possibilità progettuale futura. Per le persone più anziane la situazione è ancora più drammatica e il rischio di istituzionalizzazione è sempre molto elevato. La loro condizione è lo specchio di un paese che continua ad invecchiare senza più una speranza progettuale e di vita dignitosa per coloro che hanno vissuto decenni di “internamento” nelle strutture private diffuse sul territorio. Abbiamo dovuto inventarci un “abitare reale” perché non esistono politiche abitative in grado di offrire possibilità di autonomia dignitose alle persone sofferenti e marginalizzate. Queste persone più che abitare sono sempre state “abitate” da luoghi e spazi chiusi e regolati dalla routinarietà della vita istituzionale.

Continuiamo ad inventare quotidianamente opportunità di relazioni sociali, di uscita dai percorsi programmati, di scambio e di confronto con la realtà sociale. Nell’ “inventare” quotidianamente questa istituzione ci manteniamo comunque in questa contraddizione: come risalire dall’escluso all’escludente? Come uscire dalla nostra stessa realtà istituzionale e proiettarsi fuori? Quando saremo capaci di uscire dalla logica degli eventi, degli spazi, delle opportunità costruite appositamente per una certa “categoria” di soggetti? Quando tutte queste persone potranno uscire realmente fuori e potranno abitare luoghi sociali reali e non più protetti? Quando potranno rientrare nel mercato del lavoro vivendone le contraddizioni da uomini e donne liberi dal marchio della “malattia”? Quando potranno avere relazioni sociali durature in grado di riempire la loro vita di scambi ed opportunità che annientino la loro solitudine e l’emarginazione?

Sono domande che continuamente poniamo a noi stessi e agli interlocutori politici, agli amministratori e alla cittadinanza. Abbiamo contribuito a fondare un movimento che si chiama “Rompiamo il silenzio”, Movimento di lotta e di tutela della salute mentale che vuole aggregare e raccogliere le esperienze più avanzate di salute mentale in Puglia, denunciare la miseria della psichiatria pugliese e soprattutto avere un ruolo sempre più forte e negoziale con le istituzioni e i decisori politici. Ma non ci fermiamo qui: vorremmo generalizzare questa lotta coinvolgendo tanti altri movimenti ed esperienze che come noi si battono per i diritti delle persone escluse e per promuovere una vera salute mentale comunitaria. Sappiamo che non possiamo vincere perché è il potere che vince sempre. Ma dobbiamo tornare a convincere cioè a determinare una situazione difficile da recuperare e lo possiamo fare solo a partire da una pratica che inveri ciò che diciamo. Quello che sempre di più stiamo maturando in questo percorso di lotta è che diciamo di fare salute mentale ma in realtà stiamo facendo una lotta politica per cambiare la società e le sue istituzioni. Il punto fondamentale per noi rimane questo: dopo l’istituzione inventata abbiamo bisogno di inventare una nuova società. Di questo ci rendiamo sempre più conto nel nostro lavoro quotidiano. Di questo vorremmo portare testimonianza per avviare pratiche e politiche nuove dimostrando ancora una volta che è possibile dare una risposta diversa alla persona che soffre e cambiare insieme la società in cui vive.

Note

[1] Si tratta della Legge Regionale pugliese n. 26/2006 dal titolo: “Interventi in materia sanitaria” pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Puglia – n. 104 dell’11-8-2006.

[2] Si tratta del Centro Sperimentale Pubblico per lo Studio e la Ricerca sulla Salute mentale di comunità “Marco Cavallo” di Latiano di cui si possono trovare informazioni più dettagliate qui: www.centromarcocavallo.it. Il Centro pubblica trimestralmente un periodico “180Meraviglie” su tutte le attività e le iniziative che promuove durante l’anno. Per un ulteriore riferimento si veda: www.centromarcocavallo.it/archives/category/periodico.

[3] Si fa riferimento al comma H dell’articolo 9 relativo alla Legge Regionale pugliese n. 26/2006 sopracitata che recita testualmente cosi: “gestione in via sperimentale di forme di autogestione di Centri Diurni da parte di utenti e gruppi di self-help”.

Riccardo Ierna


Operatore di salute mentale presso  Marco Cavallo
Marco Cavallo è una scultura di legno e cartapesta in forma di “installazione” e “macchina teatrale”. Fu realizzata nel 1973 all’interno del manicomio di Triest e da un’idea di Giuseppe Dell’Acqua, Dino e Vittorio Basaglia e Giuliano Scabia. 
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