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Altra Informazione, Blog, Comitati di Lotta, Cronache di Lavoro, Cronache Politiche, Cronache Sindacali, Cronache Sinistra Europea, Cronache Sociali, Culture, Politiche di Rifondazione, Storia e Lotte — Dicembre 10, 2019 11:15 am

Oggi in Italia si guadagna meno di trent’anni fa, a parità di professione, di livello di istruzione, di carriera. Vale per tutti, tranne per quella minoranza che sta in alto. Questo dovrebbe essere il problema. Ci è stato detto che bisognava rendere il mercato del lavoro più flessibile e abbassare i salari per aumentare la competitività delle aziende e saremmo stati tutti più ricchi: l’abbiamo fatto ma siamo solo più poveri e ricattabili. >>> In libreria il libro di Marta Fana, Simone Fana

“Basta salari da fame!”

Pubblicato da franco.cilenti

Basta salari da fame (Laterza 2019), l’ultimo libro di Marta e Simone Fana, è un contributo fondamentale per la comprensione di un fenomeno – il lavoro precario e povero – che il senso comune considera ormai una condizione naturale. Chi è nato tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Novanta del secolo scorso ha conosciuto quasi soltanto quel tipo di lavoro. Gli autori indagano le cause e le dinamiche che hanno prodotto questa situazione, offrendo al lettore non solo gli strumenti critici per inquadrare il proprio stato, ma anche l’indicazione per una possibile via d’uscita. Il tono appassionato della denuncia si intreccia al rigore logico dell’analisi dei dati economici – resi accessibili ad un pubblico di non specialisti – delineando un percorso di emancipazione dalla gabbia dell’ideologia dominante. Come vedremo, questo è un punto centrale dell’opera: i fratelli Fana sono ben consapevoli che le catene che legano gli attuali sfruttati non sono soltanto quelle del bisogno, ma anche quelle (non meno stringenti) delle forme di coscienza.

La parabola del lavoro

Il libro si apre con alcuni capitoli dedicati alla storia del lavoro – ma sarebbe più corretto dire alla storia della lotta di classe – in Italia nel secondo dopoguerra. I Fana dividono il periodo in tre momenti. Nel corso degli anni Cinquanta si realizza una profonda ristrutturazione dell’economia italiana, in cui elementi di modernizzazione si accompagnano a vecchie forme di sfruttamento. Gli autori rilevano la persistenza di modi di organizzazione del lavoro – su tutte, il lavoro “in affitto” – che accentuano la disgregazione della manodopera. Al contempo, va affermandosi la grande fabbrica, all’interno della quale le nuove tecnologie della produzione ridefiniscono la figura del lavoratore, determinando l’eclissi del vecchio “operaio di mestiere” e del suo potere. In queste circostanze il movimento operaio fa fatica a districarsi: il momento di rottura coincide – non casualmente – con gli anni del “boom”. A partire da allora – con la breve eccezione della cosiddetta “congiuntura” (1963-64) – le lotte operaie si riaccendono e la dinamica salariale conosce una rapida accelerazione. Il caso italiano è particolarmente significativo perché nella fase precedente i salari erano cresciuti a un ritmo sistematicamente inferiore rispetto alla produttività. Questo aveva permesso alle imprese di accumulare profitti crescenti sulla cui base effettuare gli investimenti per ampliare la scala della produzione. La spinta del movimento operaio non solo mette in crisi questo modello di accumulazione, ma pone con forza il problema del potere.

Negli anni Settanta si registra dunque uno stallo, che si risolve con la sconfitta del blocco sociale raccolto intorno alle classi lavoratrici. Indagare le ragioni di tale esito non è fra gli obiettivi del libro, ma si tratta di uno snodo cruciale per comprendere la successiva evoluzione dei rapporti di forza nella società. A questo proposito gli autori offrono alcuni spunti interessanti. Dopo un maldestro tentativo di riequilibrare i conti con l’estero – destabilizzati dallo shock petrolifero (1973) – attraverso una manovra restrittiva (1974-75), i governi e le autorità monetarie del nostro paese ricorrono sistematicamente alla svalutazione del cambio. In questo modo le imprese possono “scaricare” sui prezzi gli aumenti salariali e gli stessi adeguamenti automatici delle retribuzioni al tasso d’inflazione (la cosiddetta “scala mobile”). Tutto questo alimenta la spirale inflazionista, ma garantisce un “compromesso sociale” che fa da sfondo all’esperimento politico della solidarietà nazionale. In questa direzione si muovono anche le partecipazioni statali, a cui in quella fase viene chiesto – dal basso e dall’alto – di attutire gli effetti della crisi. Contestualmente però sul fronte dell’impresa qualcosa inizia a mutare significativamente: la struttura della grande fabbrica viene erosa dalla progressiva esternalizzazione di segmenti del processo produttivo. Ma è soprattutto la svolta di politica economica che matura alla fine del decennio a imprimere un netto cambio di passo agli equilibri fra capitale e lavoro. L’entrata nel Sistema monetario europeo (Sme) e l’adozione di politiche monetarie restrittive (ispirate al nuovo corso della Federal Reserve di Paul Volcker) creano un nuovo orizzonte di compatibilità che fa saltare il compromesso degli anni Settanta. Il progressivo smantellamento delle protezioni sociali conquistate in quel decennio è una conseguenza di un più vasto processo di ristrutturazione che modifica a fondo l’economia italiana.

Marta e Simone Fana mettono bene in evidenza il senso di questa “grande trasformazione”: alla base dei processi di precarizzazione e di impoverimento del lavoro c’è il degrado strutturale del sistema produttivo nazionale. L’industria – e soprattutto la grande industria – declina, mentre gli investimenti si riversano nei settori a più basso valore aggiunto (in particolare nei servizi). La deregolamentazione del mercato del lavoro è un’esigenza per le imprese (spesso piccole e piccolissime) che operano in quei comparti, ma al contempo quelle politiche stimolano i capitali a intraprendere quella direzione. In sostanza, nel momento in cui le imprese individuano la compressione dei salari e dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori come il fattore decisivo della loro competitività nel quadro sempre più stringente del mercato globale, si innesca un pericoloso circolo vizioso che trascina sempre più in basso la produttività complessiva del sistema economico italiano.

Le origini della sconfitta

Ora, prima di esaminare le proposte che i fratelli Fana avanzano per fronteggiare questa situazione, è opportuno fermarsi a riflettere sugli elementi che hanno determinato tale esito. Fra questi gli autori annoverano opportunamente l’ideologia. I sostenitori della controrivoluzione liberista nel propugnare le loro “ricette” fanno leva non solo su un’idea astratta di “razionalità economica”, ma anche sui desideri e le aspettative degli individui. Essi, per esempio, contrastano l’egualitarismo salariale affermatosi con le lotte degli anni Settanta in nome del “merito”, e in ultima istanza delle differenze che distinguono ogni essere umano dal suo simile rendendolo unico (lo slogan “meriti e bisogni” caratterizzò la nuova stagione del PSI craxiano all’inizio degli anni Ottanta). È un amo lanciato verso le istanze emerse con i movimenti di emancipazione dei decenni precedenti: una presa che si rivelerà estremamente efficace. Va così compiendosi una “rivoluzione passiva” in cui quelle traiettorie ideali, un tempo leve di contestazione del compromesso socialdemocratico – accusato di ingabbiare l’individualità nella mediazione dei corpi intermedi e dello Stato –, vengono rifunzionalizzate trasformandosi in forze propulsive del nuovo ordine. Da qui emerge una nuova disciplina sociale che fa ricadere sul singolo l’intera responsabilità della sua esistenza e pone gli individui in uno stato permanente di competizione reciproca. Se i movimenti avevano contestato la monotonia del lavoro “fordista”, il neoliberismo trae da questa premessa le conseguenze a sé più funzionali: il lavoro – un lavoro che può e deve cambiare sulla base dei desideri individuali – va inteso come la principale dimensione di realizzazione personale, per cui il singolo deve investire le proprie energie nella ricerca di un’occupazione adeguata alle sue aspettative e riversarvi tutto se stesso. Se non ci riesce, è colpa sua – e la frustrazione di aver accettato un “lavoretto” qualunque sarà la pena da espiare per aver fallito. È su questa base che le condizioni di sfruttamento vengono naturalizzate, e il conflitto da sociale diventa esistenziale, con tutto ciò che ne consegue in termini psicologici.

A questo punto il libro dei fratelli Fana sollecita una questione che lo trascende, ma che non può non “pungere” il lettore interessato a capire i processi di cui si parla. Come mai il blocco del lavoro non è riuscito a sua volta a lanciare una sfida egemonica nella crisi degli anni Settanta? L’impressione che si ricava dal testo è che il movimento operaio sia rimasto impigliato nei suoi stessi successi, non riuscendo a immaginare una via d’uscita dalla cornice che li aveva resi possibili. In altri termini, fino a un certo momento gli aumenti salariali contribuiscono a consolidare il modello keynesiano: essi generano una domanda di beni e servizi che stimola la stessa produzione – e quindi i profitti –; per quanto non sia una tendenza pacifica, essa contribuisce a espandere le basi del sistema economico. Da un certo punto in avanti invece, quando anche i nuovi consumi si stabilizzano, la dinamica delle retribuzioni inizia a erodere i margini delle imprese: come si è detto, la svalutazione – cui ricorre non solo l’Italia in quel frangente – è un modo per sterilizzare il conflitto distributivo, ma il capitale non può resistere a lungo in una situazione di stagnazione. Mentre esso scatena i suoi “spiriti animali” per rilanciare l’accumulazione, il blocco del lavoro si trova in un cul de sac: l’arma salariale è spuntata, mentre le esperienze di controllo operaio dell’organizzazione del lavoro vengono spiazzate dalle ristrutturazioni aziendali. Il movimento operaio non riesce neanche più a indirizzare le istanze di modernizzazione che emergono dalla società: dopo aver incanalato lo spirito del Sessantotto in un ampio movimento di emancipazione che riguardava diversi aspetti della vita (la casa, la salute, la scuola) e poneva al centro la costruzione della democrazia, lo scontro con i settori giovanili più radicali alla fine degli anni Settanta è duro e a tratti drammatico. Il destino del blocco del lavoro sembra consumarsi con la consuzione del modello keynesiano, in mancanza (per ragioni oggettive e soggettive) di una prospettiva di transizione verso un sistema di tipo nuovo. Un tema ancora tutto da approfondire in chiave storica e politica, di fronte al quale non si può non percepire una certa vertigine.

La prospettiva del salario minimo

Individuato nella frantumazione del mondo del lavoro (e della stessa coscienza dei lavoratori) il problema da aggredire, Basta salari da fame segnala come possibile terreno di riaggregazione dei soggetti subalterni la battaglia per il salario minimo. I Fana precisano che questa misura può avere diverse funzioni, a seconda del suo rapporto con i livelli retributivi riconosciuti dai contratti collettivi. Il salario minimo cioè può alzare o abbassare il “pavimento” della contrattazione, orientando quest’ultima in un senso o nell’altro. Si tratta dunque di una scelta politica, e propriamente politica – più che sindacale – è la prospettiva di lotta che i Fana immaginano. Essi registrano infatti la difficoltà dei sindacati a organizzare ampi strati di lavoratori – in particolare i più marginali –, da cui discende una debolezza fondamentale nel rapporto con la controparte. Il salario minimo dovrebbe configurarsi dunque come un’interferenza politica nelle relazioni industriali a vantaggio della parte “debole”: fissando un livello relativamente alto, si riequilibrerebbe il piano inclinato su cui si trovano i salari e i diritti, e si frenerebbe la competizione fra lavoratori. In definitiva, si immagina un circolo virtuoso di segno opposto rispetto alla spirale di svilimento del lavoro di cui si è detto sopra: la conquista del salario minimo, frutto di una riaggregazione dei soggetti subalterni, a sua volta rafforzerebbe l’unità dello stesso fronte del lavoro. Si tratta di un progetto politico che merita attenzione: sebbene sia evidente la difficoltà di centrare un obiettivo di quella portata dati gli attuali rapporti di forza, il punto di fuga individuato dai Fana disegna una prospettiva per la costruzione di quella soggettività del lavoro che manca drammaticamente nel nostro paese. Lo sguardo, non a caso, è rivolto alla sfida di Bernie Sanders e, in particolare, della parlamentare socialista Alexandria Ocasio-Cortez, che negli ultimi anni sono riusciti a riportare nel dibattito politico statunitense la condizione di vita della maggioranza delle persone. Chissà che non valga la pena provarci anche in Italia.

Salvatore Romeo 

www.rifondazione.it

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Autore: franco.cilenti
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