Brasile: le sfide di fronte alla catastrofe

La nuova forma di colpo di stato si svolge in più fasi ed è ben lontana dall’essere giunta al termine. Quali caratteristiche della storia brasiliana trasformano il paese in un laboratorio del capitalismo contemporaneo e dei nuovi fascismi?

Per affrontare questa situazione, è necessario elaborare strategie tanto nella sfera macropolitica quanto in quella micropolitica. Riusciremo a occupare la fabbrica di mondi dell’inconscio? Il necessario dialogo tra i movimenti per rivitalizzare il campo soggettivo e sociale.

Il brutale assalto alla sede dei tre poteri della Repubblica brasiliana è stato l’ennesimo atto dell’avanzata di un movimento di estrema destra che ha cominciato a mostrare il proprio volto nel 2005, durante il primo governo Lula. Un movimento risultato dall’insediamento nel Paese della nuova forma di golpe, tipica del capitalismo nella sua fase finanziaria nel quale  convergono neoliberismo e un conservatorismo dei più arcaici e feroci. Come descrivo nel mio libro Sfere dell’insurrezione [2], la nuova modalità golpista si articola in più fasi (l’elezione di Bolsonaro nel 2018 è stata solo una di queste) ed è ben lontana dall’essere giunta a termine. Da quando questo scenario ha cominciato a delinearsi, ci siamo ritrovati sul filo del rasoio, cercando di restare in equilibrio su una corda allentata correndo il rischio di scivolare e cadere nell’abisso da un momento all’altro.

In primo luogo, durante questi otto anni abbiamo vissuto sotto una tremenda tensione che è andata peggiorando di giorno in giorno. Poi, il sollievo arrivato con la recente vittoria di Lula alle presidenziali ha aleggiato nell’aria per qualche giorno. Ma la gioia è durata poco, interrotta bruscamente dall’intensificarsi delle manifestazioni di massa dei bolsonaristi in tutto il Paese e dai loro presidi nei pressi delle caserme dell’esercito e di altre istituzioni pubbliche (non solo militari), che hanno assunto un aspetto più bellicoso dopo il fallito tentativo di far esplodere una bomba fuori dall’aeroporto di Brasilia. Infine è venuto il giubilo per la festa di insediamento di Lula il 1° gennaio e il la consegna della fascia presidenziale da parte di rappresentanti di settori sociali da sempre esclusi dal banchetto repubblicano.

Oltre ai risultati elettorali, questa è stata la risposta del nuovo governo al silenzio di Bolsonaro e al suo rifiuto di assumersi la responsabilità di consegnare la fascia presidenziale, fuggendo vigliaccamente in Florida (paradiso preferito dei nuovi ricchi in America Latina), due giorni prima. La scena, senza precedenti nella storia della Repubblica (non solo in Brasile), conferisce un corpo potente all’immagine del fatto innegabile ma spesso omesso che il Presidente della Repubblica è l’emissario della società e di tutti i settori che la compongono. Una settimana dopo, una nuova interruzione con la raccapricciante invasione di Praça dos Três Poderes [Piazza dei Tre Poteri sede del Congresso, del Tribunale Supremo e dell’esecutivo federale – ndt] interruzione che ha ricevuto la pronta reazione da parte del governo che è riuscito a disarmarla con fermezza. E la situazione va avanti così, su questa fune lenta sempre più pericolosa.

Affrontare questa situazione non riguarda solo lo scenario nazionale, visto che è il risultato di strategie dalla forma nuova (molto ben orchestrate e con finanziamenti consistenti), introdotte dal potere globale raggiunto dal capitalismo contemporaneo.

Come ho commentato nel libro di cui sopra, il Brasile è stato un laboratorio importante per queste strategie, facilitato da una caratteristica specifica della nostra storia. Condividiamo con gli altri paesi d’America il segno strutturale della creazione della nostra esistenza come nazione da parte dell’impresa coloniale e della violenza che le è intrinseca: l’espropriazione delle terre dei popoli originari, il loro genocidio, il rapimento di migliaia di persone sequestrate nel continente africano e vendute come schiave ai proprietari delle terre usurpate (il Brasile, tra l’altro, è stato il paese che ha ricevuto il più alto numero al mondo di africani in schiavitù e venduti, per un totale di 4,86 milioni). Tuttavia, è singolare il modo in cui questa violenza strutturale si è concretizzata nel nostro territorio nel corso della sua storia, oltre al fatto che siamo l’unico Paese del continente che non ha mai riconosciuto l’esistenza di questa violenza, né ha fornito risposte adeguate alla sua importanza.

Un breve riassunto dei momenti chiave del manifestarsi di questa violenza nella storia del Brasile potrebbe iniziare dal fatto che siamo l’unico paese in America nel quale l’indipendenza è stata proclamata dalla stessa famiglia reale nella Metropoli [Rio de Janeiro, all’epoca capitale del Regno del Brasile – ndt]. La corte portoghese si era trasferita in Brasile quindici anni prima per mettersi al riparo dall’invasione del Portogallo da parte delle truppe napoleoniche. Durante questo periodo, per proteggere il proprio regno, Giovanni VI di Braganza (diventato Principe Reggente del Portogallo e dell’Algarve quando la regina, sua madre, venne ritenuta malata di mente), modificò lo status giuridico della colonia, fino ad allora sua personale Metropoli sovrana, per formare un Regno Unito con Portogallo e Algarve. Nell’anno 1821, quando Giovanni VI (già allora Re del Portogallo) dovette tornare nella Metropoli con tutta la famiglia reale, suo figlio Pietro di Alcantara divenne principe reggente del Regno del Brasile. Sotto la sua reggenza, tra il 1821 e il 1822, il Consiglio dei Ministri era composto da grandi proprietari terrieri e commercianti.

La Dichiarazione di Indipendenza si materializzò nel 1822, in risposta alle minacce della Metropoli all’autonomia politica del Brasile, contraria agli interessi dell’élite “brasiliana” che non voleva perdere tale autonomia, conquistata con l’arrivo della famiglia reale nel paese. Allo stesso tempo, questa stessa élite non voleva mettere a repentaglio l’ordine sociale, basato sulla produzione agricola tramite il lavoro forzato, né tanto meno l’unità nazionale. Ecco perché si è servita del ruolo del principe reggente (che avrebbe impresso un senso di continuità dinastica) per il quale fu in seguito proclamato Pietro I, Imperatore del Brasile. Un dato di fatto inoppugnabile è che il Brasile ha dovuto pagare il Portogallo per la propria indipendenza, cosa che non è successa a nessun altro paese.

In sintesi, non soltanto l’indipendenza nazionale è avvenuta per decisione del figlio della stessa famiglia reale della Metropoli, ma abbiamo anche dovuto pagargli un “indennizzo” per averci emancipato, il che si aggiunge al fatto che furono presi in considerazione soltanto gli interessi delle élites locali con le quali il Principe Reggente si era alleato, ignorando totalmente gli altri attori del movimento indipendentista. In contrasto, in questo momento vale la pena ricordare che la prima Dichiarazione di Indipendenza delle colonie del continente, oltre al fatto che avvenne ad Haiti nel 1804 (diciotto anni prima del Brasile), fu il prodotto di una rivolta di popoli ridotti in schiavitù contro il dominio coloniale francese.

Inoltre, siamo stati l’ultimo Paese del continente ad abolire la schiavitù, verso la fine del XIX° secolo, senza fornire alcun tipo di sostegno agli schiavi liberati, che rimasero così abbandonati a se stessi. In realtà, in questo Paese, l’assoluta precarietà delle condizioni di vita degli schiavi africani non venne mai stata abolita, e continua a esserlo tutt’oggi, generazione dopo generazione.

Va ricordato che la condanna della tratta degli schiavi africani nell’Atlantico era stata emanata settantatré anni prima, nel 1815, al Congresso di Vienna, tenutosi dopo la fine dell’era napoleonica. Da quel congresso iniziarono a essere promulgate le prime leggi che limitavano la (male)detta tratta. È importante notare che l’accordo a cui si fa riferimento venne siglato dietro pressione del Regno Unito, il cui interesse non era assolutamento quello di abolire la schiavitù, ma piuttosto quello di impadronirsi della rotta commerciale del Atlantico del Sud che era nelle mani dei trafficanti di schiavi. I mercanti portoghesi e “brasiliani” erano quelli che detenevano il maggior potere nella tratta, il che portò al fatto che la legge che la proibiva in Brasile venisse emanata solo nell’anno 1831; e, nonostante questo, i trafficanti hanno continuato a praticarla illegalmente (per inciso, è stato in parte con questi soldi che venne pagato il cosiddetto “debito” con l’ex-Metropoli). In quel periodo, una delle questioni più dibattute era come compensare economicamente i proprietari terrieri che, a causa dell’interruzione della tratta, non riuscivano a sostituire la propria forza lavoro. Questa discussione durò decenni e, quando l’abolizione venne concretizzata, arrivò a includere la richiesta di risarcimento per la perdita degli schiavi. Mentre si discuteva di questo “risarcimento” per i latifondisti, non si arrivò mai nemmeno a prendere in considerazione un compenso per i neri liberati (con rarissime eccezioni di pochi abolizionisti).

La Proclamazione della Repubblica avvenne nel 1889, un anno dopo che venne decretata la fine della schiavitù, frutto di un colpo di stato militare sostenuto dalle stesse élites agrarie. Dopo circa cinque anni di governi militari, il comando passò nelle mani di questi grandi proprietari terrieri, principalmente coltivatori di caffè di San Paolo.

È interessante notare che, mentre i neri liberati continuavano a essere ignorati senza alcun tipo di sostegno governativo, il governo finanziò l’immigrazione di cinque milioni di europei (per lo più contadini poveri), ai quali offrì terra, attrezzature, sementi e tutte le strutture, come parte del progetto delle élites al potere che auspicavano uno “sbiancamento” della società brasiliana.

Successivamente, già nel XX° secolo, ci furono una serie di dittature, al termine delle quali i responsabili delle atrocità commesse dai vari regimi furono sempre amnistiati (un patto perverso celato dietro la maschera della cordialità che dovrebbe caratterizzare i brasiliani), al contrario di quanto successo, ad esempio, in Argentina. In questo senso vale la pena guardare il film Argentina, 1985, diretto da Santiago Mitre, che mostra come i magistrati siano riusciti a perseguire e arrestare i responsabili delle violenze orribilmente perverse commesse dalla dittatura militare in quel paese negli stessi decenni. In questo film vediamo come questa accusa sia stata ampiamente sostenuta dalla società, ma concentrandosi sulle figure dei pubblici ministeri (che il film presenta come degli eroi), il vigoroso movimento sociale che ha preceduto il processo e ha preteso questa punizione, senza il quale i pubblici ministeri probabilmente non sarebbero riusciti a condannare i militari, risulta offuscato. Questa sentenza ha richiesto alle Forze Armate di sottomettersi al potere civile, evento senza precedenti nella storia non solo di quel Paese, ma anche dell’intero continente. Qui in Brasile, niente.

L’aver lasciato impunita questa serie di violenze significa che i traumi che hanno causato (e che continuano a causare) non sono mai stati elaborati collettivamente. La conseguenza è che queste ferite incurabili rimangono aperte, incapsulate nella memoria corporea dei brasiliani, insieme alle risposte inadeguate (risposte reattive derivanti dall’impossibilità di trovare risposte adeguate).

Queste ferite si infettano nuovamente in situazioni di crisi, come quella che stiamo attraversando adesso, producendo eruzioni di reattività di massa. Per questo siamo molto più vulnerabili alla nuova modalità di potere del sistema capitalistico, che ha affinato i propri  meccanismi di produzione di soggettività e la cui manifestazione estrema possiamo definire fascista per il tipo di dinamica che la caratterizza, anche se diversa da quello che è stato il fascismo storico, a causa delle differenze nei rispettivi contesti. Una di queste differenze più evidenti è lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione, e quindi della manipolazione, che sono diventate altamente sofisticate e molto più efficienti. Tali tecnologie creano anche le condizioni per la gestione globale di questa macchina algoritmica infernale, adattata alle specificità non solo di ogni paese sotto il proprio dominio, ma anche dei diversi gruppi che compongono le rispettive società.

Per quanto riguarda la nostra speciale vulnerabilità alle strategie di potere del capitalismo contemporaneo, vale la pena notare che, per la prima volta nella storia, ci sono segnali che questo argomento stia cominciando a essere oggetto di discussione. Mi riferisco allo slogan “No amnistia” (#SemAnistia), baluardo di una campagna di massa scatenatasi sui social poco dopo l’insediamento di Lula e intensificatasi dopo la raccapricciante invasione degli edifici dei poteri della Repubblica. Infine, sembra emergere una risposta da parte della società al patto di impunità che permea la storia del Paese; l’inizio di un movimento per guarire le ferite purulente che ci rendono così vulnerabili alla violenza. In sintonia con questo grido popolare, il governo appena insediato ha intrapreso diverse iniziative per indagare e arrestare i responsabili delle violenze. [3]

Quando si è verificato l’assalto vandalico agli edifici dei Tre Poteri della Repubblica, ci trovavamo già in questa complessa situazione di alta tensione e sapevamo che sarebbe stato molto difficile gestirla per il governo di Lula.

A livello nazionale, doveva evitare manovre da parte di oppositori molto ostili ai suoi progetti (posizionati strategicamente nel Congresso, nelle Forze Armate, nella Polizia Federale e nella Magistratura con la complicità attiva di una parte significativa della comunità imprenditoriale, in particolare degli imprenditori agroalimentari al potere fin dalla proclamazione dell’indipendenza). Questo è il motivo per il quale Lula ha dovuto stabilire una politica di larghe alleanze. Sul piano internazionale, sebbene per ora Lula disponga del sostegno di governi non allineati con la nuova estrema destra, le forze interne che gli si oppongono godono dell’appoggio di questa destra organizzata a livello globale (e che potrebbe uscire vincente nelle prossime elezioni in paesi che appoggiano l’attuale governo brasiliano).

E la sfida non finisce qui: oltre a confrontarsi con queste forze in ambito macropolitico, Lula dovrà fare i conti con l’ascesa del fascismo nella società brasiliana, che non si limita a ideare strategie di azione in ambito macropolitico, ma include anche la sfera micropolitica.

Mi riferisco alla sfera del regime inconscio coloniale-razziale-patriarcale-capitalistico, fabbrica di mondi i cui meccanismi (affrontati nel libro citato e rielaborati in un saggio di più recente pubblicazione [4]) sono responsabili della produzione e riproduzione di un certo modo di soggettivazione e delle sue formazioni in campo sociale, che hanno nel fascismo la manifestazione più grave dei propri effetti patologici (nel senso della violazione della vita prodotta da questo regime). Non è  scontato sbarazzarsi della soggettività fascista, che colpisce già quasi la metà della società brasiliana,  proporzione chiaramente espressa nei risultati dei sondaggi.

È vero che non tutti coloro che hanno votato per Bolsonaro nel 2022 si identificano con i ripetuti atti terroristici culminati nella scorsa invasione di Brasilia. Tuttavia, che si identifichino o meno con questo estremismo, le menti di molti di loro sono invase da una sorta di collasso cognitivo che, più o meno gravemente, li tiene lontani dalla realtà, intrappolati in storie paranoiche che rasentano il delirio. Tra i più fanatici, giunti alla convinzione che la Terra sia piatta e che il fatto che ci abbiano fatto credere che sia rotonda farebbe parte del “complotto” (che si ostinano a chiamare comunista, nome generico che danno a chi è diverso da loro, sul quale proiettano la figura del nemico).

La strategia per affrontare questo scenario consiste nell’occupare la fabbrica di mondi e strapparne il controllo della gestione dalle mani del regime inconscio dominante. Adempiere a questo compito non è per nulla scontato, perché richiede un lavoro complesso e delicato che comporta, prima di tutto, liberare la nostra stessa soggettività dal potere di quel regime che la produce e ne plasma gli aspetti caratteristici, tra i quali una corazza narcisistica nei confronti del diverso.

Trasformiamo l’altro in uno schermo dove proiettiamo rappresentazioni che si presuppongono  universali, estratte dall’immaginario prodotto da uno degli ingranaggi della macchina di questo regime inconscio. Sono queste rappresentazioni che prendiamo come guida per le nostre azioni, invece di essere guidati dagli effetti della presenza viva dell’altro nei nostri corpi, una presenza che comincia a comporci e che, se venisse presa in considerazione, ci porterebbe a un processo di creazione che ci trasformerebbe e che trasformerebbe l’ecosistema ambientale, sociale e mentale di cui facciamo parte. Che siano le rappresentazioni “cattive” di soggetti di destra che demonizzano l’altro, o quelle “buone” di gente di sinistra che lo idealizzano, sono entrambe ugualmente segnate dalla fallacia secondo la quale ci sarebbe una presunta gerarchia tra i vari gruppi umani.

La differenza tra questi due tipi di rappresentazione dell’altro si limita a una mera inversione di segno in questa presunta gerarchia che risale alla fine del XV secolo, quando il concetto di razza comincia a essere applicata alla specie umana. Tale nozione si basa su elementi non solo come  il colore della pelle e l’origine etnica, ma anche il cosiddetto genere (altra nozione tossica inventata in questo stesso contesto), al quale a partire dalla rivoluzione industriale di fine Settecento si aggiungono elementi di classe. L’invenzione della gerarchia razziale è stata accompagnata da quest’altra perversa idea secondo la quale la nostra specie avrebbe seguito una linea evolutiva unica e universale (da cui l’idea di progresso), al cui vertice ci sarebbe il modello di esistenza dell’europeo bianco e maschio delle élites coloniali, oggi élite dei mercati finanziari, che non a caso chiamiamo mondo sviluppato. La fake news di questa gerarchia razziale naturalizza e giustifica (micropoliticamente) la cartografia dominante nella sfera macropolitica: lo sfruttamento di tutti coloro che si troverebbero ai cosiddetti livelli inferiori, così come l’iniquità nella distribuzione dei diritti di accesso ai beni materiali e immateriali, al limite del diritto all’esistenza.

A questa difficoltà si aggiunge il fatto che, contrariamente all’esperienza di resistenza accumulata nella sfera macropolitica, l’attivismo micropolitico è relativamente recente nella storia dell’Occidente moderno, il che rende questo compito ancora più impegnativo. La buona notizia è che adesso alcuni movimenti sociali stanno agendo in questo ambito, oltre a far sentire la propria voce nella sfera pubblica della lotta fondamentale contro la disuguaglianza dei diritti (militanza macropolitica). Mi riferisco a una delle tendenze presenti nei movimenti di neri, indigeni, ambientalisti e femministi, così come dei sovversivi della nozione di genere e delle pratiche eterocisnormanti (movimenti che, negli ultimi decenni, si sono rafforzati molto in tutto il continente).

Nei movimenti neri e indigeni in particolare, il lavoro micropolitico è stato alimentato dal prospettivismo, una politica che regola un modo di produzione di mondi in costante mutamento e che è comune alle loro diverse origini ancestrali. Tale variazione risulta da quello che la vita richiede per concretizzare l’effetto che la presenza viva dell’altro (non solo umano) produce nei nostri corpi.

In questo senso, i diversi modi di essere condividono una politica ontologica simile. Niente a che vedere con l’essenzialismo identitario (forma culturale che caratterizzerebbe ogni popolo nella sua presunta essenza), né tanto meno con il multiculturalismo (la sommatoria delle presunte identità culturali essenzializzate dei diversi popoli). Si tratta invece dell’incontro con l’altro: da qui derivano le forme dell’esistenza in un processo continuo di creazione guidato da una micropolitica attiva. I movimenti in questione hanno cominciato ad attivare il prospettivismo ai giorni d’oggi; lo esercitano nella loro vita, soprattutto per quanto riguarda la propria presenza sulla scena pubblica. Questo tende a ridurre l’autorità della politica ontologica che controlla la gestione della produzione di mondi sotto il regime inconscio dominante, riduzione che ha una grande forza contagiosa. Questo è ulteriormente rafforzato dall’attivismo micropolitico degli altri movimenti sociali.

La posta in gioco è una cura clinico-politica del modo dominante di soggettivazione. Si tratta di aprire l’accesso alle sensazioni dei sopra menzionati effetti delle forze dell’ecosistema con le quali interagiamo (sensazioni che nel citato saggio descrivo come affetti, evocando Spinoza). La possibilità di una costruzione collettiva di mondi all’altezza delle esigenze della vita (la nostra responsabilità etica) dipende dalla valutazione di questi effetti, dal punto di vista di quanto la vita ci richiede per stare al passo con il suo scorrere (valutazione che in questo saggio definisco affetto, evocando di nuovo Spinoza). Dipende anche dal nostro impegno a far esistere quello che questa esigenza ci richiede, senza il quale il processo non è completo. Isolarci dall’altro ci rende sordi a tali richieste, e questo genera le condizioni affinché la vita venga sviata dal proprio destino etico, per essere piegata al servizio dell’accumulazione di capitale (non solo economico e politico, ma anche e inscindibilmente sociale e narcisistico). Una possibilità di cambiamento esiste ma richiederà decenni, forse addirittura secoli, perché curare la vita non è altro che curare il trauma della violenza coloniale che ci costituisce, condizione per un’effettiva trasfigurazione della nostra realtà socio-culturale e politica.

L’11 gennaio 2023 c’è stato un nuovo momento di gioia sulla corda allentata che abbiamo percorso con cortei e controcortei: nel governo Lula sono stati inaugurati due nuovi ministeri che rappresentano una tappa molto importante della nostra storia: il Ministero dell’Uguaglianza Razziale e il Ministero dei Popoli Indigeni, che saranno presieduti da due donne, stimate pensatrici e attiviste.

Si tratta rispettivamente di Anielle Franco (nera, sorella dell’attivista Marielle Franco, consigliera di Rio de Janeiro uccisa nel 2018) e Sônia Bone de Sousa Silva Santos (conosciuta come Sônia Guajajara perché originaria del popolo indigeno con questo nome). Non a caso, le violenze di domenica 8 gennaio 2023 sono avvenute alla vigilia della cerimonia prevista per l’insediamento delle due nuove ministre a Palazzo di Planalto [sede ufficiale della Presidenza della Repubblica del Brasile – ndt], costringendo a un rinvio della cerimonia di due giorni, quando gli spazi dell’edificio erano già stati ricomposti (cosa che, tra l’altro, è avvenuta in tempi record). Questo ha reso la cerimonia ancora più emozionante. Se questo deve essere un progresso inconfutabile nella lotta contro il razzismo nella sfera macropolitica (derivante dai movimenti indigeni e neri, in particolare delle donne impegnate in quei movimenti che aggiungono la prospettiva femminista al loro attivismo) deve essere accompagnato dai progressi nella sfera micropolitica. Come afferma Sandra Benites, attivista e curatrice di origine guarani, «sono due i muri che devono essere abbattuti».

Come molti latinoamericani, oggi i miei desideri sono tutti rivolti versi il dialogo con gli attivisti dei movimenti sopra menzionati e con il loro pensiero. In questo dialogo, partendo da esperienze e linguaggi diversi, condividiamo le diverse forme con le quali esercitiamo il conflitto micropolitico che, non senza attriti e grazie al loro confronto, sta generando trasmutazioni nelle nostre rispettive soggettività, soprattutto nei modi di relazionarsi con gli altri, più precisamente con la vita dell’ecosistema e le sue oscillazioni. Questo è quello che ha permesso a molti di noi di non soccombere al disastro che stiamo vivendo e di riuscire a rimanere attivi.

La mia intuizione è che questa svolta micropolitica in corso riuscirà, nel lungo o meglio nel lunghissimo periodo, a stabilire una nuova politica di formazione dell’inconscio in campo sociale (in altre parole, una nuova politica ontologica), che includa nuove forme di governo, che devono essere sostenute da un processo continuo di creazione collettiva, in sostituzione del cosiddetto “patto sociale” sul quale siamo fondati. Un patto basato sul consenso tra gli interessi delle élite, che oltre a ignorare gli interessi degli altri settori sociali nella sfera macropolitica, blocca i processi di creazione nella sfera micropolitica, soffocando tutto ciò che le sfugge.

Insomma, la mia intuizione è che, parallelamente al panorama che stiamo osservando, sia in atto il rinvigorimento del campo soggettivo e sociale. In questa operazione si sostituisce a poco a poco la monocultura imposta dalla fondazione coloniale del Brasile, che sottometteva la vita per metterla al servizio del capitale. Se è vero che questo compito ha incontrato molti ostacoli (e continuerà senza dubbio a doverli affrontare ancora per molto tempo, con vari gradi di violenza il cui limite estremo è lo sterminio), quello che ha mantenuto inalterato il nostro afflato è che, secondo tutti gli indicatori, sembra esserci qualcosa di irreversibile nell’aria.

[1] Versione riveduta e ampliata del testo originariamente pubblicato sulla rivista “CTXT Contexto y Acción” (numero 292, Madrid: gennaio 2023). La prima versione in portoghese è stata pubblicata sul blog Outras Palavras, Jornalismo de Profundidade e Pós-Capitalismo, il 20/01/2023 (accessibile all’indirizzo https://outraspalavras.net/descolonizacoes/suelyrolnik-para-o-brasil-esconjurar- o-fascismo/), mentre la presente versione, riveduta e ampliata anche nella lingua originale, è stata pubblicato nel blog  Laboratório de Sensibilidades (accessibile all’indirizzo https://laboratoriodesensibilidades.wordpress.com/2023/01/22/brasil-desafios – frente-ao-sinistro-di-suely-rolnik-versao-rivisto-e-allargato/) e, in spagnolo, sul blog del quotidiano elettronico cileno “Vitria Dystopica”. La realtà non è capitalistica  (accessibile su https://dystopica.org/category/txt/ ). Sarà presto disponibile anche in francese sul sito Chimères-Révue des schizoanalyses.

[2] Rolnik, Suely, Sfere dell’insurrezione. Appunti per decolonizzare l’inconscio. Buenos Aires, edizioni Tinta Limón, 2019). Pubblicazione originale in portoghese: Spheres da insurreição. Appunti per una vita senza caffeina (San Paolo, edizioni n-1, 2018; edizione esaurita). Un’edizione riveduta di questo libro sarà pubblicata nel 2023, sulla base della revisione effettuata per la pubblicazione in Inghilterra (Spheres of insurrection. Notes on decolonizing the inconscious. London, Polity Press, 2023; con prefazione di Stefano Harney e copertina di Verónica Gago). Il libro è stato pubblicato anche in Portogallo, con il titolo Esferas da insurreição. Appunti per una vita non alla grande (Lisbona, casa editrice Teatro Praga / Solar System, 2020).

[3] Nella dispersione dell’aggressione vandalica da parte  della Polizia Federale sono stati arrestati 2.090 estremisti della nuova estrema destra (di cui 54 erano candidati a cariche pubbliche alle ultime elezioni) e, a oggi (20/01/2023), 1.028 sono ancora in carcere, mentre una parte di quelli che sono stati liberati sono agli arresti domiciliari con braccialetti elettronici. Poco dopo, il governatore del Distretto Federale è stato rimosso dall’incarico e indagato, e il suo segretario per la Pubblica Sicurezza (da lui già esonerato subito dopo i fatti) è dovuto rientrare da Miami (dove si era rifugiato per incontrare l’ex-presidente, due giorni prima dell’invasione del palazzo) per rispondere a un’inchiesta ed è attualmente in carcere. Immediatamente, il governo ha avviato indagini penali e emesso mandati di perquisizione e arresto per i presunti responsabili degli eventi, così come per i loro finanziatori, i cui beni sono stati in parte bloccati. Il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito è stato destituito, così come a oggi 46 militari che lavoravano nel coordinamento dell’amministrazione del Palazzo Alvorada [residenza del Presidente del Brasile – ndt] o nel dipartimento delle politiche abitative e 38 militari che lavoravano nel GSI (Gabinetto per la Sicurezza Istituzionale della Presidenza). A questi si aggiungono una serie di riformulazioni da parte della Polizia Federale (PF) e della Polizia Stradale Federale (PRF) in vari stati.

[4] Rolnik, Suely, I ragni, i Guarani e i Guattari. Altre note per una vita non sotto sfruttamento, in: Psicoanalisi e Schizoanalisi: differenza e composizione,San Paolo, m-1 edizioni, 2022 (traduzione libera). Una versione rivista e ampliata di questo saggio sarà pubblicata nel 2023 dallo stesso editore in Brasile come libro.

Pubblicato il 24 gennaio 2023 sul sito della casa editrice indipendente Tinta Limón che ringraziamo per la disponibilità

Traduzione in italiano di Michele Fazioli per DinamoPress.

Immagine di copertina di Gianluigi Gurgigno, elezioni in Brasile, 2018, Rio de Janeiro

Suely Rolnik

14/3/2023 https://www.dinamopress.it

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