Breve storia dei 35 euro

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Non solo fra i seguaci di Salvini ma anche in un pensiero comune, si levano segnali di insofferenza rispetto all’accoglienza riservata in Italia ai profughi e migranti, in relazione soprattutto ora alle condizioni di coloro che hanno subito i danni del terremoto. Se un noto quotidiano cerca di accaparrarsi acquirenti mettendo in copertina le foto contrapposte di “italiani” nelle tendopoli ed eleganti migranti davanti ad un albergo commettendo semplicemente il reato di falsa informazione, più subdoli sono i meccanismi che penetrano in maniera viscerale negli ambiti meno informati della società. Occorrono informazioni semplici per rompere questo meccanismo ed occorre anche fare proposte in avanti, che guardino alla prospettiva e non alla onnipresente emergenza. Proviamo in piccole pillole informative, utili a chi, magari al bar o su un autobus, voglia provare a smentire simili menzogne.

Una premessa, dei circa 111 mila richiedenti asilo o protezione umanitaria presenti in Italia al 31/3/2016 (ultimo dato reso noto dal Ministero dell’Interno) oltre il 72% sono in strutture denominate CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) gli altri sono nei diversi centri che corrispondono diverse situazioni. Una parte è in case di accoglienza per minori, 23.000 circa sono nel sistema SPRAR (Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati) altri nei CPSA (Centri di primo soccorso e accoglienza) negli Hotspot, nei CARA (Centri Accoglienza Richiedenti Asilo) nei CdA (Centri di accoglienza), meno di 250 sono nei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) gli unici in cui si potrebbe privare della libertà personale i migranti senza infrangere leggi fallimentari come la Bossi Fini. In realtà l’esperienza di chi ha visitato le altre tipologie di centro si rende conto di quanto la libertà sia discrezionale.

Semplificando potremmo dire che esistono di fatto due sistemi paralleli dell’accoglienza, gli SPRAR, gestiti dagli enti locali e i CAS dalle prefetture. Gli ormai famosi 35 euro al giorno vanno a pagare le intere spese di accoglienza, cibo, assistenza sanitaria, psicologica, operatori e medici, spese logistiche, utenze, rientrano insomma in un circuito di cui a beneficiare sono soprattutto istituzioni italiane. Quasi il 30% dei 35 euro giornalieri serve a pagare gli stipendi degli operatori dell’accoglienza che svolgono  un lavoro duro su cui certo non si arricchiscono e sovente con contratti totalmente inadeguati. Ai richiedenti asilo viene corrisposta una diaria giornaliera di 2,5 euro, circa 75 euro al mese. In molti centri questa somma (chiamata pocket money) può essere spesa solo all’interno del centro.

Il sistema Sprar, per quanto in maniera non omogenea, è quello che si è rivelato migliore. Sono i Comuni a decidere quante persone prendere, a chi affidare la gestione dei servizi e come impiegare le risorse messe a disposizione. I Comuni debbono anche contribuire direttamente a tale gestione, con il 5% delle spese, garantire accoglienza “integrata” (dai corsi di lingua alla formazione lavoro) e rendicontare fino all’ultimo centesimo con fatture ogni spesa effettuata. Molti comuni hanno fatto la scelta meritoria di perseguire l’accoglienza diffusa, predisponendo appartamenti in cui piccoli gruppi o nuclei familiari possano costituire una propria indipendenza e autonomia responsabilizzandosi nella gestione dello spazio. In tali contesti gli “operatori” non vengono percepiti come “guardiani” ma amici a cui relazionarsi per risolvere anche problemi di conflittualità, legati ai tempi di attesa per la richiesta di asilo, o semplicemente di sostegno alla costruzione di una normale quotidianità. Quando questo si realizza difficilmente c’è scontro con la comunità ospitante.

Il sistema CAS è invece più problematico. Si tratta sempre di centri (ce ne sono oltre 3000 in tutta Italia ma il Ministero dell’Interno si rifiuta di rendere pubblico sia dove sono ubicati sia quale è l’ente che li gestisce). L’ubicazione la decide, sentiti magari gli enti locali, alla fine la prefettura. Lo scopo è duplice, da una parte i Comuni si chiamano fuori da qualsiasi responsabilità anche verso i propri elettori, dall’altra le prefetture hanno pressoché mano libera nel decidere sede del CAS ed ente gestore. L’ente gestore percepisce i 35 famosi euro al giorno per persona, senza dover documentare come li ha spesi ma solo in base al numero degli ospiti. E qui viene il bello?

Chi ha inventato il sistema CAS? Si tratta del noto buonista e bolscevico Roberto Maroni, oggi Presidente della Regione Lombardia all’epoca (2011) ministro dell’Interno. C’era la cosiddetta Emergenza Nord Africa e Maroni istituì i CAI (Centri di Accoglienza per Immigrati). In nome dell’emergenza se ne fecero in ogni luogo e senza controlli e alcuni finirono anche, su richiesta dei proprietari, negli hotel in quel periodo vuoti, Da ricordare il caso di Montecampione, in provincia di Brescia dove vennero ospitati oltre 200 migranti provenienti da Lampedusa e con indosso magliette e infradito quando la temperatura notturna a luglio era vicina agli zero gradi. Ma l’albergo era vuoto e “casualmente” la società che ne era proprietaria era la stessa che gestiva un famoso albergo a Lampedusa in cui alloggiavano sottufficiali e ufficiali delle forze dell’ordine. L’imprenditoria padana anche di stampo leghista non considerava affatto una invasione questa ma un utile stimolo alla propria attività. Lo stesso ragionamento che farà una nota famiglia della criminalità organizzata romana continua ad esser pagata perché mette a disposizione un proprio albergo. Il “caro” Maroni (in senso di costoso) garantiva all’epoca 50 euro al giorno per ogni ospite ma la memoria è corta. Corta e poco pragmatica anche come Presidente di Regione che vorrebbe gli “sfollati” del terremoto nell’ex Expo se non spostare addirittura i padiglioni verso le zone colpite dal sisma. Lo stesso Maroni che blatera dicendo che le case popolari se le prendono “gli immigrati” e poi ha tagliato del 50% i fondi per l’edilizia pubblica colpendo tutti i lumbard. Problemi di memoria o furbizia?

I soldi che vanno agli immigrati debbono essere destinati ai terremotati. Si, abbiamo sentito dire anche questo ma peccato che non si dicano alcune cose.

1) Che i soldi per l’accoglienza, oltre che dare lavoro a tanti concittadini, provengono dall’UE e da specifici fondi quindi non utilizzabili per diverse causali.

2) L’UE ha assicurato interventi anche per le zone terremotate, nessuna concorrenza quindi.

3) A tagliare i fondi per le emergenze, magari per comprare gli F35 o salvare le banche, non certo per darli ai profughi, sono stati i nostri governi che non sembrano essere composti da richiedenti asilo.

4)Viene il dubbio che chi tanto si accalora per contrapporre persone in disagio abbia avuto a che fare nel passato o magari aspiri a farlo in futuro, con l’affare della ricostruzione quella che, per dirla col cinismo di Vespa fa girare l’economia. Beh in perfetta malafede viene da pensare che gli occhi andrebbero puntati più che su chi vive in centri di malaccoglienza (a tal proposito si consiglia la lettura del rapporto Accogliere La vera emergenza redatto dalla Campagna LasciateCIEntrare ) su chi ha realizzato costruzioni non a norma antisismica e si prepara a fare affari come nelle passate esperienze.

5) A dimostrazione che la legge non è uguale per tutti e che la memoria serve va fatta presente una notiziola passata sotto silenzio. Dopo il terremoto dell’Emilia del 2012 ci sono ancora nuclei familiari nei container e non per propria scelta ma a cui stanno togliendo anche i pochi spazi di visibilità intorno mentre gli appartamenti promessi non sono ancora pronti. Si tratta esclusivamente di famiglie a basso reddito e nella quasi totalità di origine straniera.

Cosa si potrebbe invece fare? Per evitare tensioni anche comprensibili ma mai giustificabili quando si trasformano in istigazione all’odio razziale basterebbe poco. Basterebbe incentivare il sistema Sprar (quello dei Comuni) garantendo per esempio sgravi fiscali agli enti locali che ospitano o la possibilità di sforare i patti di stabilità che strangolano le amministrazioni. Nulla di rivoluzionario, ovviamente accanto al meccanismo premiale dovrebbe esserne previsto uno punitivo verso chi in nome del proprio diritto al lusso vorrebbe impedire ogni forma di accoglienza (cfr Capalbio). In questa maniera sparirebbero i centri sovraffollati, le persone potrebbero entrare in circuiti di autonomizzazione, magari recuperando stabili in disuso e facendoli poi ridivenire patrimonio pubblico da riutilizzare, si costruirebbero percorsi in cui la distanza fra accolti e accoglienti potrebbe diminuire. Certo si toglierebbe potere alle prefetture e le amministrazioni avrebbero maggiori responsabilità ma è una sfida da accettare. Utopia? Affatto. Persone inserite nel tessuto sociale sarebbero in grado di non dover essere più assistite con conseguente anche risparmio di risorse. Persone che potrebbero essere avviate anche a percorsi lavorativi regolari e non allo sfruttamento bracciantile o delle economie grigie.

Questo in una prima fase

Occorrerebbe poi che chi ci governa invece di celebrare patetici rituali sulle portaerei al largo di Ventotene per sancire la fine dell’Europa sognata da tanti, ad esempio operasse per l’abolizione del Regolamento Dublino che obbliga le persone a fermarsi nel primo paese UE in cui si arriva, garantire di poter entrare in UE non con il solo stratagemma dell’asilo ma per ricerca occupazione, permettere a chi arriva da zone di guerra di non dover passare nelle mani dei trafficanti. Se accadesse questo (ma è impossibile con l’UE di oggi anche in questo frangente irriformabile) sarebbe più difficile per i tanti populismi xenofobi di cui è pieno il continente, riscuotere successo e lucrare politicamente anche dopo un terremoto.

Stefano Galieni

Responsabile immigrazione e pace Prc

28/8/2016 www.rifondazione.it

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