Cambia il lavoro ma lo sfruttamento aumenta

Partecipanti alla manifestazione della Fiom, questo pomeriggio 16 ottobre 2010 in piazza San Giovanni a Roma. E' il rosso a dominare piazza San Giovanni in Laterano a Roma dove stanno manifestando gli operai della Fiom. Tante le bandiere della sigla sindacale dei metalmeccanici, Cgil e Rifondazione comunista. Le uniche diverse sono quelle di colore bianco dell'Italia dei valori. La rete studentesca sta mostrando uno striscione con su scritto ''Gelmini dimettiti ricostruiamoci il futuro'' mentre alcune tute blu espongono cartelli con slogan: ''l'indifferenza uccide'', ''gli operai producono per tutti, rispettateli'', ''uniti contro il capitale''. Non mancano critiche al segretario della Cgil; su un cartello si legge ''Epifani con Cisl e Uil lascia stare. C'e' bisogno di lottare''. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Marta Fana è ricercatrice in Economia presso l’Insitut d’Études Politiques di Sciences Po a Parigi. Ultimamente si è occupata delle diseguaglianze economico-sociali e del mercato del lavoro. La sua ultima fatica, Non è lavoro, è sfruttamento, è uscita recentemente per i tipi di Laterza ed è già stata recensita in questo giornale da Eliana Como. Si tratta di un’inchiesta sulla situazione del mercato del lavoro fatta sia attingendo alle fonti statistiche ufficiali, sia misurandosi sul campo con le vittime dello sfruttamento, di cui riporta storie di vita. Data l’importanza di questa pubblicazione, che può essere utilizzata come uno strumento di lotta, abbiamo avvicinato l’autrice per discutere con lei l’argomento.

Intanto, Marta, puoi dirci qualcosa del tuo percorso intellettuale che ti ha portato a scrivere questo saggio ?

Questo saggio, che forse proprio saggio non è, nasce dall’esigenza politica di rimettere al centro del dibattito culturale e politico il lavoro nella sua dimensione sociale all’interno dei rapporti di produzione di tipo capitalistico contemporaneo: caratterizzato oltre la sua essenza classica, da un lato dalla controrivoluzione neoliberista avviata a fine anni Settanta e dall’altro dalla finanziarizzazione dell’economia. Dopo aver studiato per un decennio economie delle scuole mainstream, ma mantenendo una tensione intellettuale verso le condizioni reali e i rapporti di forza, mi è sembrato quantomai urgente e necessario uscire con rabbia e precisione analitica dal quadro teorico e fortemente ideologico nel quale ci hanno costretti, come cittadini, come lavoratori, come studiosi.

Credo che non sia possibile ribaltare lo stato di cose presenti senza ripristinare un po’ i termini del discorso per quelli che sono: rapporti di forza economici e politici, ma soprattutto collettivi.

L’impoverimento del mondo del lavoro, la precarizzazione e la polarizzazione delle ricchezze in pochi mani stanno galoppando. Lo denunci nel tuo libro, sostenendo che il percorso iniziato con il lavoro sottopagato, è sfociato nel lavoro gratis, come per esempio con l’alternanza scuola-lavoro. Com’è stata possibile la fiacchezza della resistenza del sindacato rispetto a questi processi?

Non sono in grado di dispensare certezze e verità, sicuramente quel che mi pare evidente è un’abdicazione sul piano culturale alle teorie false del neoliberismo dove la centralità dell’impresa è indiscutibile e dove i sacrifici devono entrare a far parte di un compromesso politico all’interno del conflitto capitale-lavoro. Allo stesso tempo, mi pare un errore il superamento del concetto di conflitto e della volontà di una sua organizzazione: sarà pure possibile contrattare minimi miglioramenti attraverso i tavoli sindacali, ma la mobilitazione è imprescindibile, crea legami, crea solidarietà, crea appartenenza. Ancora, e fondamentale, il sindacato ha perso di vista l’analisi generale dei processi, concentrandosi sempre più sul piano vertenziale, spesso emergenziale. Non c’è via di fuga senza un’analisi e una visione complessiva dei processi e dei rapporti di forza in atto. Insomma ripartiamo dalla cultura egemonica, ma anche dal conflitto.

Un tema che va di moda è il lavoro mentale, o cognitivo, come il lavoro nella rete telematica, i nuovi saperi, il lavoro a distanza. L’affacciarsi di queste nuovi contenuti del lavoro ha indotto molti, purtroppo anche a sinistra, a ritenere superata l’analisi marxiana del capitalismo, introducendo nuove mode culturali che mettono in secondo piano la lotta di classe. Qual’è il tuo pensiero in merito?

Non ho mai capito perché il lavoro cognitivo possa essere sottratto all’analisi marxiana: sta o non sta in un rapporto di produzione capitalistico. La nuova classe operaia, o più semplicemente la working class, lavoratrice, indipendentemente dalla manualità o meno del proprio lavoro rimane subordinata alle logiche del capitale sempre più totalizzanti. Se questa analisi può essere accettata allora parliamo ancora di lotta di classe. Voler separare il lavoro cognitivo da quello manuale è una deriva individualista dei rapporti di forza, quindi fallace. Un giovane impiegato con un contratto precario che fa straordinari a oltranza, è controllato a distanza, non decide sulla propria organizzazione del lavoro, è sfruttato come un facchino, quel che cambia è il livello fisicamente usurante del lavoro.

Il lavoro, sulla base delle nuove modalità organizzative e tecnologiche dell’industria e dei servizi, è stato frammentato in mille rivoli, e anche ciò è oggetto di disquisizioni sulla fine della classe operaia, come l’avevamo conosciuta fino a mezzo secolo fa. Perché, secondo te, invece ancora esiste il soggetto principale della trasformazione sociale?

La frammentazione dei cicli produttivi e delle filiere implica la frantumazione della classe lavoratrice, non la sua scomparsa, che rimane inevitabilmente il soggetto della trasformazione. In particolare oggi, periodo in cui il keynesismo di metà Novecento è morto, il patto sociale non a caso spezzato, si ritrova in una condizione di forte polarizzazione degli interessi. Per questo non soltanto rimane il soggetto, ma vive le condizioni storiche per una ripresa di coscienza e quindi azione di riscatto.

Se la frammentazione del mondo del lavoro, non significa fine del lavoro dipendente, come giustamente sottolinei, almeno sul piano sostanziale, a prescindere dalle forme giuridiche che lo rivestono, la sinistra anticapitalista ha il difficile compito di ricondurre a unità le classi sfruttate, che non operano fianco a fianco come nel lavoro fordista, e magari non si parlano e non si conoscono neppure. Quali possono essere secondo te le forme organizzative e le parole d’ordine per favorire questa riaggregazione?

La sinistra dovrebbe dire innanzitutto cosa farebbe per risollevare le condizioni materiali dei lavoratori, usando parole d’ordine semplici: giustizia sociale, lotta spietata al lavoro povero, casa, sanità, scuola, trasporti pubblici – quindi sottratti alle logiche del mercato – per tutti in quanto strumenti a soddisfacimento di fabbisogni di base che dovrebbero essere garantiti come diritti universali. Sulle forme organizzative non sono un’esperta, credo nella forma partito, nel centralismo democratico, meccanismi che possono essere sviluppati anche nei movimenti, è una questione di organizzazione, più che di forme.

Anche questo giornale ha la pretesa di essere uno strumento di lotta e, nell’augurarti buon lavoro, auspica che i nostri percorsi possano incrociarsi in futuro…

Ci si incontra sempre quando si sta dalla parte dei lavoratori.

Ascanio Bernardeschi

28/10/2017 www.lacittafutura.it

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