Camerieri, commessi e braccianti: è questo l’identikit del primo lavoro per tanti giovani italiani

Dall’inizio della crisi il mercato del lavoro italiano è cambiato molto, e il contesto cui si trovano di fronte i giovani al momento della prima occupazione è paradigmatico per descriverne l’evoluzione. Nel rapporto “Il mercato del lavoro 2018: verso una lettura integrata”, pubblicato oggi dall’Istat nell’ambito della collaborazione tra ministero del Lavoro, Inps, Inail e Anpal si dà conto di un contesto dove tornano a crescere i primi ingressi di giovani di 15-29 anni nel mondo del lavoro dipendente, parasubordinato e in somministrazione (773mila nel 2017, +28,4% rispetto al 2016), che si concretizzano però in rapporti precari e sempre meno in grado di valorizzare le competenze acquisite a scuola o all’università.

Per i giovani alla prima esperienza di lavoro dipendente infatti «le professioni più frequenti sono camerieri e assimilati (12%), commessi delle vendite al minuto (8,5%), braccianti agricoli (7,4%)», seguite a larga distanza dai «lavori esecutivi di ufficio (2,8%)». Il problema è che si tratta di lavori generalmente a basso valore aggiunto, scarsamente remunerati e soggetti ad elevata precarietà.

Il contratto a tempo indeterminato al primo ingresso dei giovani nel mondo del lavoro è utilizzato nel 9% dei casi, mentre la «probabilità di transitare in un rapporto stabile, per i giovani con primo lavoro a termine nel 2015, è del 38,8% a sei mesi di distanza, 42,8% dopo un anno e 49,5% passati due anni». Nei fatti, solo guardando alla media 2015-2016, solo «il 54,9% dei giovani entrati per la prima volta nell’occupazione ha un rapporto di lavoro ancora attivo a un anno di distanza».

Non a caso le probabilità di avere ancora un rapporto attivo «è minore per le professioni non qualificate (45,6%) e più elevata per quelle che richiedono un livello di competenza medio-alto (66,6%)», ma poter esercitare questo livello di competenza è molto difficile – e non solo per i giovani. È un doloroso paradosso che un Paese come il nostro, dove più di sette italiani su dieci sono analfabeti funzionali o hanno capacità cognitive e di elaborazione minime, non riesca a valorizzare neanche le competenze che ci sono: analizzando (nel triennio 2014-2016) il disallineamento tra il titolo di studio conseguito dagli assunti e quello più richiesto dalle imprese per la medesima professione, il rapporto rileva che «il fenomeno ha interessato più della metà (53,5%) delle assunzioni nelle imprese italiane». In particolare, la «diffusione della sovraistruzione (31,6%) è maggiore di quella della sottoistruzione (21,8%), soprattutto per gli under 29», mentre «per gli over 49 prevalgono invece i sottoistruiti». Un bel grattacapo anche per i meccanismi di ricerca del lavoro che prevede il “reddito di cittadinanza” ormai in procinto di partire.

Il fenomeno della sovra istruzione spicca soprattutto «nei settori a più alta intensità di conoscenza (31,4%) e tecnologia (42%)», un dato che il rapporto individua come causato «dal sovrapporsi di due fenomeni: la capacità strategica delle imprese in tali settori di investire e attrarre professionalità qualificate e l’eccesso di offerta di capitale umano». Se ne deduce che per riassorbire questa piaga servirebbero più investimenti nei settori ad alto valore aggiunto, capaci di produrre lavoro di qualità: gli investimenti privati però ancora languono, e la mano pubblica anche quando ha potuto aprire i cordoni della spesa l’ha fatto privilegiando tutto fuorché le politiche per lo sviluppo.

Una scelta che si ripercuote su tutto il mercato del lavoro. Nella media del 2018 il numero di occupati supera il livello del 2008 di circa 125 mila unità e il tasso di occupazione sfiora il record di 58,5%, ma è un successo effimero: la quantità di lavoro utilizzato è ancora inferiore al precrisi, e per colmare il gap mancano ancora poco meno di 1,8 milioni di ore e oltre un milione di Unità di lavoro a tempo pieno. Di più: «Per raggiungere il tasso di occupazione della media Ue15 (nel 2017 pari a 67,9%, contro il 58,0% di quello italiano) il nostro paese dovrebbe avere circa 3,8 milioni di occupati in più. Il gap occupazionale italiano riguarda soprattutto i lavori qualificati e i settori sanità, istruzione e pubblica amministrazione».

 

Luca Aterini

25/2/2019 www.greenreport.it

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