Caporalato, si dimette capo Dipartimento immigrazione Di Bari

Campi di pomodoro/ Ansa

C’è anche la moglie del prefetto Michele Di Bari, originario di Mattinata ed ex capo del Dipartimento per l’immigrazione del ministero dell’Interno, tra le 16 persone coinvolte in una indagine della procura di Foggia e dei carabinieri sullo sfruttamento della manodopera straniera e il caporalato. Cinque le persone arrestate – due in carcere e tre ai domiciliari – e undici quelle che hanno ottenuto l’obbligo di dimora. Tra queste anche Rosalba Livrerio Bisceglia, 55 anni, nata a Manfredonia, socia amministratore dell’azienda agricola Bisceglia S.S., una delle dieci aziende che sono state sottoposte all’amministrazione giudiziaria. Subito dopo la notizi il prefetto Michele Di Bari – 62 anni già vice prefetto a Foggia ed ex  prefetto a Vibo Valenzia, Modena e Reggio Calabria –  si è dimesso dall’incarico: dimissioni subito accettate dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese.

Schiavone (Ics): “Il dipartimento per l’immigrazione, guidato da Michele Di Bari dal 2018,
è responsabile della pessima gestione del sistema di accoglienza per i rifugiati” 

“Desidero precisare  – ha detto il prefetto Di Bari che sono dispiaciuto moltissimo per mia moglie che ha sempre assunto comportamenti improntati al rispetto della legalità. Mia moglie, insieme a me, nutre completa fiducia nella magistratura ed è certa della sua totale estraneità ai fatti contestati”. Secondo quanto spiegano gli inquirenti, da luglio a ottobre 2020 gli indagati avrebbero messo su un sistema di selezione, reclutamento, utilizzo e pagamento della manodopera grazie a caporali e proprietari delle aziende. Braccianti venivano reclutati nella baraccopoli della “ex pista” di Borgo Mezzanone. In particolare un cittadino gambiano di 33 anni Bakary Saidy – già coinvolto in una operazione anti caporalato messa  a segno sempre nel foggiano nei mesi scorsi –, con l’aiuto di un uomo di 32 anni, Kalifa Bayo, di origini senegalesi e anch’egli domiciliato nell’ex pista, erano l’“anello di congiunzione” tra i rappresentanti di dieci aziende agricole e i braccianti. Alla richiesta di forza lavoro che veniva avanzata dalle aziende, i due uomini reclutavano braccianti che vivevano nella baraccopoli, provvedendo al loro trasporto presso i terreni. Gli stessi sorvegliavano poi i braccianti durante il lavoro nei campi, pretendendo da ognuno 5 euro per il trasporto e altre 5 euro per la intermediazione, ossia per il fatto che gli avevano trovato una occupazione.

Il caporalato straniero è radicato nelle campagne foggiane almeno dagli anni ’80. Imposto dalla camorra

Neppure 6 euro l’ora

Dalle indagini è emerso che il caporale si occupava anche di istruire i braccianti su cosa dire o fare in caso di ispezione da parte delle forze dell’ordine. La rete si occupava  di tutto, dall’individuazione della forza lavoro necessaria per la lavorazione dei campi, al suo reclutamento, fino al pagamento che era – ribadiscono gli inquirenti – palesemente difforme dai parametri stabiliti dal contratto nazionale del lavoro, nonché dalla tabella paga per gli operai agricoli a tempo determinato della provincia di Foggia. 
Nelle buste paga veniva indicato un numero di giornate lavorative inferiori a quelle reali, senza tener conto dei riposi e delle altre giornate di ferie spettanti. Secondo quanto emerge dell’inchiesta, l’imprenditrice Rosalba Livrerio Bisceglia, moglie dell’ex capo del Dipartimento di immigrazione del Viminale, trattava direttamente con Bakary Saidy.

L’uomo portava i braccianti nei campi dopo averli reclutati “in seguito alla richiesta di manodopera avanzata da Livrerio Bisceglia, che comunicava telefonicamente il numero di lavoratori necessari sui campi”. Lavoratori  che erano “assunti tramite documenti forniti dal Saidy”, che per questo “riceveva il compenso da Livrerio Bisceglia”. Per il magistrato che ha firmato l’ordinanza, Rosalba Livrerio Bisceglia “è consapevole delle modalità delle condotta di reclutamento e sfruttamento”.  Nell’azienda agricola in cui era socia amministratrice, i lavoratori venivano pagati 5,70 euro l’ora e non oltre i 35 euro, una somma “palesemente difforme” dalle tabelle del contratto nazionale  Nell’ordinanza, Saidy – uno dei due caporali finiti in carcere – viene definito “intermediatore illecito e reclutatore, trasportatore e controllore della forza lavoro” mentre a gestire gli operai nei campi, almeno 6 quelli “sicuramente” impiegati e i cui nomi sono riportati nell’ordinanza, è Matteo Bisceglia, anche lui coinvolto nell’indagine. Il ruolo di Rosalba Livrerio Bisceglia era  “interfacciarsi” con Saidy “per concordare ed effettuare i pagamenti”. In una conversazione intercettata la donna dice al caporale: “Porta da Nico tutti i documenti. Devi portare prima perché così io devo fare ingaggi… e poi il giorno dopo iniziate a lavorare”.

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Il gip  ricostruisce nell’ordinanza come venivano impiegati i braccianti nell’azienda indagata: “in violazione dei contratti collettivi nazionali (o territoriali) e comunque in maniera gravemente sproporzionata rispetto alla qualità e quantità del lavoro prestato, in quanto i lavoratori venivano retribuiti con 5,70 euro l’ora per otto ore di lavoro con il pagamento che avveniva “anche conteggiando il numero di cassoni raccolti”. Ai lavoratori – impiegati senza alcun dispositivo di protezione degli infortuni – non veniva riconosciuta “la retribuzione per lo straordinario, le pause, salvo una breve per il pranzo, e senza consentire l’utilizzo di servizi igienici idonei”.

Hyso Telharaj, una vittima tra le altre

Una operazione, l’ennesima in Capitanata, che dimostra la diffusione e il radicamento dello sfruttamento di manodopera e del caporalato nelle campagne pugliesi. Un fenomeno che fa registrare vittime, violenze e soprusi ogni anno. La prima vittima riconosciuta di caporalato nel foggiano è stata Hyso Telharaj, cittadino albanese ucciso l’8 settembre del 1999 con nove colpi di pistola a Borgo Incoronata perché aveva osato ribellarsi. Il giovane uomo, 22 anni, era partito a un piccolo paese vicino Valona qualche mese prima, in compagnia del cugino diciasettenne Simon Tragai. Ultimo di sei figli aveva deciso di venire in Italia per guadagnare e ricominciare a studiare: studi che aveva abbandonato quando era stato costretto a partire, a 13 anni, per la Grecia. Il padre era stato costretto al letto per un grave incidente e lui si era messo a lavorare come muratore per mantenere la sua famiglia.

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In Italia, Hyso e il cugino avevano lavorato nella raccolta dei pomodori tra Cerignola e Borgo Incoronata. Delle 13mila lire a cassone che guadagnava, Hyso doveva consegnarne 3mila al caporale italiano e 2mila a quello albanese, Vrapi Luan, considerato l’omicida e arrestato dopo vent’anni il 9 luglio del 2020. Hyso, però, decise di opporsi al suo sfruttamento e a non consegnare il denaro.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, l’8 settembre del 1999, a bordo della Fiat Croma che andò a Borgo Incoronata, dove viveva Hyso, sedevano un imprenditore agricolo di Orta Nova, tre uomini albanesi e una donna polacca. I tre albanesi entrarono nel casolare, picchiarono brutalmente i due connazionali e poi spararono alcuni colpi di pistola, uccidendo Hyso e gambizzando il cugino. La morte del ragazzo passò nelle cronache come un semplice omicidio sino a quando, nel 2012, una ragazza albanese, Ajada, da 11 anni in Italia durante un campo estivo dell’associazione Libera venne a conoscenza della sua storia. Per i quattro anni si impegnò nella ricerca della famiglia di Hyso: si fece dare una foto del ragazzo e riuscì a portare in Italia alcuni fratelli del giovane. Da allora Hyso è diventato il simbolo della lotta al caporalato: anche don Luigi Ciotti, in un incontro a Tirana, ha parlato di Hyso come “esempio di dignità, coraggio e della ribellione ad ogni forma di criminalità organizzata”.

Luca Pernice

Direttore Teleblu

10 dicembre 2021 https://lavialibera.it

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