C’è poco da Ride.

Incontriamo Valerio Mastandrea, 47 anni a febbraio, in un freddo pomeriggio a piazza Testaccio, suo luogo di vita e di adozione sentimentale. Il tempo dei saluti e ci dirigiamo subito alla ricerca di un posto tranquillo dove fare due chiacchiere sul suo primo film da regista, Ride uscito nelle sale all’inizio di dicembre.

Valerio si muove a occhi chiusi tra le strade del suo quartiere; conosce tutti, saluta con garbo, dispensa battute e sorrisi.  Mentre camminiamo, scambiamo aggiornamenti e commenti sui fatti francesi, le barricate di Parigi, lo specchio italiano così distante dal fuoco dei gilet gialli. Alla fine ci rifugiamo negli spazi accoglienti della libreria di piazza Santa Maria Liberatrice.

Nelle ultime settimane ti abbiamo visto dappertutto in tv, addirittura come commentatore politico nei tg di mezzanotte.

Si, ma non è stata una esperienza esaltante. Mi sono trovato in un ruolo non mio, dentro tempi e codici che azzerano la riflessione, l’approfondimento, l’articolazione di un ragionamento. Mi sono rivisto e riascoltato: giuro che, di solito, non parlo così banalmente di politica.

Un segnale, però, della grande attesa e dell’interesse per il tuo primo film da regista. Che tipo di film è Ride?

È un film che si discosta da una certa autorialità che insiste a rappresentare banalmente la realtà. La scena del vecchio sindacalista che si porta via il corpo del figlio morto, come a dire «Non ve lo lascio se prima non mi dite chi è stato il responsabile», esprime un’idea di cinema non pacificato, che non si accontenta più dell’indignazione morale, che cerca altro. Dalla visione di questo film si esce che o ti rode il culo o ti rode il culo. Non c’è alcuna allusione pedagogica: nel giorno del funerale, il vecchio non organizza un corteo ma decide di portarsi via il cadavere. Punto e a capo. Per ripensare anche le forme di lotta in un mondo radicalmente trasformato.

Come nasce questo film?

Stavo seguendo il servizio di un telegiornale su una strage del lavoro. Ascoltavo queste donne, parenti delle vittime, che parlavano con una lucidità impressionante a poche ore dall’accaduto. E mi chiedevo se questo assedio mediatico stava impedendo a queste persone di elaborare il dramma, di respirare e analizzare ciò che era successo, per poter un giorno, forse, superare il lutto. Gli stessi pensieri mi sono sorti dopo una serata a sostegno dei familiari degli operai della Thyssenkrupp, in cui portai in scena un bel testo di Ezio Mauro. Anche li, pensai: ma finiti questi momenti collettivi di vicinanza e solidarietà, quando poi si resta soli, come si affronta un dramma del genere, dove finisce tutto il dolore? È stata la scintilla, che poi ha incontrato lo sceneggiatore giusto, Enrico Audenino, per raccontare la storia di una famiglia, atipica, che non crolla. Perché c’è un sentimento di rabbia e di amore che la tiene in piedi.

Quanto della tua esperienza da attore hai riportato in questo lavoro?

Io ho fatto un film che avrei voluto vedere. Come attore ne ho fatti tanti, alcuni per scelte di pancia, altri di testa, altri per ragioni di mestiere. Che sono stati i peggiori. Ho fatto il film con il coltello in mezzo ai denti, il film protetto, il film pedagogico. Film, come Tutti giù per terra, che hanno raccontato la prima generazione compiutamente precaria. Con Ride mi sono assunto tutte le responsabilità di un regista, a partire dal fatto che si tratta di un lavoro duro dal punto di vista formale: è un film dilatato, non succede un cazzo, in cui lo spettatore deve essere libero di entrare nella testa dei personaggi che vede. Ogni tanto gli si dà un suggerimento per ingenuità o disincanto, visto che il primo film è come il primo disco di un gruppo: ci metti tutto quello che sei. Il tema centrale, alla fine, è semplice e chiaro: come viviamo sotto schiaffo delle pressioni sociali e mediatiche, a tal punto che non possiamo decidere se, quando e come essere felici o addolorati. Non decidiamo più il tempo dell’esperienza. Con diversi sotto temi: il rapporto padre-figlio, la militanza politica e la coscienza civile, la devianza sociale e la libertà assoluta.

Come sei arrivato alla regia?

È stato un passaggio molto naturale, dopo che negli ultimi anni ho messo a fuoco la ragione del perché faccio l’attore: per riempire tanti vuoti che sento di avere, certamente non per ambizione o denaro. E negli spazi che rimarranno, nei vuoti ancora da riempire, continuerò a farlo. Ma sparare da un’altra angolazione, raccontare il mondo da un altro punto di vista, è stata un’evoluzione abbastanza naturale. È come se per 25 anni fossi stato il cantante di un gruppo, questa cosa mi ha fatto vincere timidezze, insicurezze, paure; ora ho deciso di andare dietro il mixer, far suonare qualcun altro, ma la musica la faccio uscire come dico io. Questa storia, la storia di Ride, è stata decisiva per compiere questo passaggio, perché rappresenta il modo in cui io vedo il cinema, a cosa serve il cinema, come farlo. Il risultato è un film meravigliosamente imperfetto.

 

 

La tua storia di attore, molto versatile ma con una impronta riconoscibile, fa il paio con un profilo biografico e pubblico chiaramente “partigiano”, fuori dalle convenienze e dai cerimoniali.

Qualcuno, più semplicemente, chiama questa attitudine avere un piede dentro e uno fuori. Che non significa galleggiare sulle scelte. Io ho avuto la fortuna di vivere una preziosa continuità professionale, ho lavorato sempre, sperimentando in prima persona tutti gli angoli di questo sistema: il film pop, commerciale o quello scurissimo, impercettibile al grande pubblico. Forse tutto ciò mi è servito per arrivare a questo film: il piede dentro per poterlo fare, ma soprattutto il piede fuori dal punto di vista narrativo, espressivo, formale. È importante non perdersi mai nella popolarità o schermarsi dietro essa, o peggio utilizzarla per costruire una identità fittizia. Se penso al mio modo di fare l’attore devo ammettere che non riesco a esprimere nessuna distanza dal ruolo che interpreto, per questo mi dicono che non ho tecnica, per questo non vorrei più interpretare personaggi realmente esistiti. Una volta un poeta molto importante mi chiese a bruciapelo: «Perché lei è simpatico alla gente che non conosce?». A parte il gelo che mi provocò la domanda, risposi che forse la gente percepisce la normalità e la naturalezza con cui interpreto i miei ruoli. Perché sono una persona fortunata che fa un lavoro bellissimo, ma consapevole di non essere nessuno.

Qualche anno fa decidi di prendere le parti di Claudio Caligari, alla ricerca di una produzione che finanziasse quello che sarebbe stato il suo ultimo film, Non essere cattivo.

Io ho soltanto rimesso in funzione un autobus che stava fermo in una rimessa. L’ho soltanto acceso, poi la gente finalmente è salita sopra e lo ha riempito. Si tratta di una storia che racconta bene il sistema produttivo italiano, le assurde leggi del mercato che arginano o limitano autori straordinari. Il mio grande rimpianto è stato di non averlo seguito e sostenuto a dovere già dopo L’odore della notte, o di averlo fatto solo nei ritagli di tempo della mia vita professionale. Infatti, per quanto mi riguarda, lo stesso Non essere cattivo fu possibile perché si interruppe il lavoro della Profezia dell’armadillo. Nell’ultimo film di Claudio, oltre alla supervisione artistica, mi sono occupato anche del casting; fu Caligari in persona a scegliere Borghi e Marinelli come protagonisti. Due attori bravissimi, che ormai hanno spiccato il volo, che esprimono contemporaneamente due qualità che forse, della mia generazione, non ha nessuno: tecnica e talento.

Domanda obbligatoria: come sta il cinema italiano?

Da quando faccio questo mestiere, dal 1993, vedo una lunga decadenza che sembra inarrestabile, a partire dal dato che il pubblico non va al cinema. Noi ci siamo sempre rifugiati nella risposta consolante, quasi un alibi, che comunque ci fosse un gran fermento artistico, tanti bravi attori e autori, magari non valorizzati. Ma il problema è strutturale, sistemico, riguarda la distribuzione, una montagna difficile da spostare. I film vengono fatti per essere visti. La produzione, paradossalmente, è ancora coraggiosa, nonostante gli ostacoli che si profilano nella fruizione. Le nuove piattaforme, penso a Netflix, stanno creando una scossa complicata ma forse positiva all’intero sistema. Certo, il piccolo esercente rischia di chiudere e va protetto in ogni modo, perché in molti casi difendendo lui si difende il cinema stesso: cioè, il fatto di uscire di casa, andare in una sala con uno schermo grande, insieme ad altre persone, per «vedere i capoccioni», come diceva Luigi Magni. Ma per la grande distribuzione, le nuove frontiere, potrebbero rappresentare uno schiaffo salutare.
Le vecchie multisala hanno creato delle banlieues culturali, mostri di cemento e consumo nelle periferie delle città. Mentre tantissime sale storiche, che hanno contribuito alle identità culturali e sociali dei quartieri, venivano chiuse, smantellate o regalate a speculazioni di ogni genere. Le stesse amministrazioni pubbliche, gli enti locali, dovrebbero invertire questo processo e inventare nuovi progetti di gestione e fruizione di queste sale. Dal punto di vista creativo e artistico, nel cinema, ancora oggi non ci può insegnare niente nessuno, anche solo per il bagaglio storico che vantiamo. I nomi noti li conosciamo tutti: Garrone, Sorrentino, Virzì; ma anche i giovani autori si fanno valere alla grande, penso a Jonas Carpignano, tanto per fare un nome. Discorso diverso per le serie televisive, per la fiction, dove siamo oggettivamente indietro.

Qual è la situazione delle scuole pubbliche di cinema?

Da diversi anni collaboro alla Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volonté, pubblica e gratuita, che si trova alla Magliana, cofinanziata dal Fondo Sociale Europeo, dal 2016 in capo alla Regione Lazio. Si accede per bandi pubblici, gestita da persone speciali che fanno un lavoro incredibile. Si tratta di una scuola che fa formazione a 360 gradi, per tutti i mestieri che vivono nel cinema: autori, sceneggiatori, attori, tecnici, costumisti e così via. Una scuola interdisciplinare, che vive la specializzazione come esito di un percorso generale.

Recentemente in rete sta spopolando un monologo, scritto da Mattia Torre, in cui racconti le sofferenze e le gioie di una paternità tardiva, con le sue specifiche e inaggirabili conseguenze.

È la misura di quanta frustrazione ci sia in giro, di quanto è il peso, soprattutto in questo paese, di un passaggio che dovrebbe essere naturale. Mi dicono che il video giri moltissimo tra le chat dei genitori, nei gruppi delle scuole. Il segno di come la genitorialità sia cambiata negli ultimi venti anni, dell’attenzione mostruosa che produce, dell’ansia da prestazione che pervade la maggioranza delle persone. La paternità è un cambio di sguardo sul mondo, per me è stato così e non è un caso che il mio primo film da regista avvenga in questa trasformazione. Cambia anche il rapporto con la militanza politica, con gli eventi sociali, nei piccoli e grandi momenti pubblici. Nei primi due o tre anni ho vissuto una sorta di cosmofobia: ogni momento di tensione, un corteo o un evento di piazza, un falò, una bottiglia che volava, per la prima volta in mia vita mi inchiodava al fatto che non dovevo rispondere solo a me stesso. Ho ritrovato la forza, ho ripreso le misure, il coraggio e la piena consapevolezza di affrontare certe situazioni, soltanto quando ho iniziato a costruire un rapporto più strutturato con mio figlio, mano a mano che cresceva.

In questa epoca di cinismo e populismo a buon mercato, c’è ancora spazio per un immaginario che non ceda alle passioni tristi?

Penso proprio di sì, penso che sia il compito attuale del cinema raccontare il presente e un possibile differente presente. E il cinema regala tantissime armi in più nella costruzione di questa narrazione. Ride, nel suo piccolo, prova a raccontare un fatto tremendo con uno sguardo carico anche di ironia, disincanto, addirittura sorriso, per spiazzare e ricostruire anche sopra le macerie. Finalmente, in questi ultimi tempi, anche qualche intellettuale ha deciso di scendere dal quinto piano e rimettersi in cammino, farsi carico e fronteggiare il senso comune. Quello che poi è da sempre il ruolo del cinema che, senza ambire a ruoli di rappresentanza, prova a raccontare e immaginare una nuova realtà, i suoi cambiamenti, i suoi attori. Un lavoro culturale fondamentale, per raccontare le storie di tutti, le storie comuni, e non far sentire nessuno escluso. Perché l’esclusione è il fantasma della nostra contemporaneità, che torna sempre a bussare alle nostre porte. Come sta avvenendo in queste ore a Parigi e in tutta la Francia.

Emiliano Viccaro

9/1/2018 www.dinamopress.it

 

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