C’era una volta il “mercato del lavoro duale”

Dati controcorrente sull’economia italiana e il mercato del lavoro

“In tema di parole, ci si potrebbe esprimere con <un fiume di parole>”!

Anche se è impossibile stabilire l’autenticità e/o la paternità di tale aforisma, non si stenta a credere che corrisponda a verità.

A tale riguardo, è noto che le parole possono essere tanto “leggere[1]” – quali quelle tra Lalla Romano e il figlio Piero – quanto grevi come le “pietre[2]”, come le definiva Carlo Levi.

Personalmente, condividendo il pensiero di Emily Dickinson[3] – secondo la quale: ”Alcuni dicono che quando è detta, la parola muore. Io dico invece che proprio in quel giorno comincia a vivere” – ritengo che essa debba avere un significato biunivoco con la realtà in cui viene espressa.

Non è così, evidentemente, per la stragrande maggioranza dei politici e di quanti, in modo scientifico, fanno un uso strumentale delle parole che, appena dette, <muoiono> e si possono cambiare a piacimento; perché fraintese o “estrapolate”.

Un vero e proprio mago, in questo senso, continua a essere quello che una volta era il Cavaliere per il lavoro(!) più famoso e sorridente d’Italia!

Nessuna meraviglia, quindi, se ci furono giorni, non molto lontani, in cui alcune espressioni, men che banali e altrettanto semplicistiche, riuscirono a raggiungere l’apice della popolarità e – stavo per dire – entrare a far parte della nostra memoria collettiva.

Stavo per dirlo, ma sarebbe stato un grosso errore perché, come a tutti noto, il nostro è un popolo che ha sempre dimostrato di non possedere una memoria storica che gli consentisse d’interrogarsi sugli errori del passato.

Parole dunque, ripetute all’infinito, che finirono con il rappresentare il “problema” e, contemporaneamente, la soluzione allo stesso.

Come quelle che tendevano a rappresentare la presenza, nel mercato del lavoro italiano, di una condizione di apartheid nella quale, in sostanza, operavano milioni di lavoratori di serie “B” o, per dirla alla Randa Haines: “Figli di un Dio minore”. Soggetti quindi, rispetto ai quali, secondo Pietro Ichino – che appariva essere il più accreditato sostenitore di una politica di “equiparazione” dei diritti e delle tutele a favore dei lavoratori – era indispensabile intervenire per evitare che su di essi continuasse a gravare tutto il peso di una flessibilità ormai irreversibile.

In effetti, così come (in origine) denunciato e successivamente (supinamente) subito dalla Cgil, sostanzialmente condiviso da Cisl e Uil ed evidenziato attraverso la pubblicazione dei dati relativi alle “Rilevazioni Istat sullo stato dell’occupazione in Italia”, nel corso degli anni ’90 e in quelli d’inizio secolo, si andava ampliando e affermando un ampio processo di flessibilità numerica[4] (o quantitativa) che si sarebbe ben presto trasformata in una condizione di precarietà.

In questo senso, è innegabile che alcuni provvedimenti legislativi in materia di lavoro – in particolare, tra quelli prodotti dai governi Berlusconi, Monti e Renzi – abbiano poi creato condizioni di diffusa e, soprattutto, irreversibile precarietà lavorativa.

Consequenziale, quindi, che, di fronte ad alcuni milioni di lavoratori con rapporto di lavoro a tempo indeterminato – tanti dei quali protetti e garantiti contro decisioni unilaterali dei datori di lavoro da quella che era la c.d. “giusta causa”, per i licenziamenti individuali – ve ne fossero tanti altri che, purtroppo, scontavano condizioni che, spesso, sfioravano la vera e propria schiavitù.

L’unica certezza era che le cause della loro condizione non erano imputabili né ai lavoratori coinvolti né alla mancata azione delle Organizzazioni sindacali né, tanto meno, ai lavoratori “protetti”; ma solo ed esclusivamente, all’irrefrenabile e ossessiva logica padronale della riduzione del costo del lavoro!

Penso, ad esempio, ai contratti a termine – reiterati nel tempo e sostanzialmente acasuali – senza alcun motivo di temporaneità né giustificato ricorso; frutti avvelenati di uno dei primi “accordi separati” di Cisl e Uil con governo e parti datoriali.

Così come, spesso, non avevano alcun motivo di esistere centinaia di migliaia di collaborazioni coordinate e continuative che presentavano tutti i caratteri della subordinazione, oppure altrettanti (fasulli) “liberi professionisti”, a partita Iva, che lavoravano, di norma, con un unico committente a 500, 600 mila lire il mese.

Quando a queste, si aggiunsero le ulteriori “scorciatoie”[5], offerte alla cupidigia dei datori di lavoro da quel gran bazar rappresentato dal decreto legislativo 273/03 – applicativo di quella legge-quadro 30/03 che ancora oggi, con immutata dose di strumentalità, tanti continuano a evocare quale “Legge Biagi” – si poté parlare, con cognizione di causa ampiamente giustificata, di lavoratori di serie A e serie inferiori.

Di conseguenza, la rappresentazione che ne faceva all’epoca Ichino, era molto accattivante e colpiva la fantasia collettiva. Parlare di condizione di apartheid nel mercato del lavoro italiano appariva realistico ma, soprattutto, a tutti, più che evidente.

Il punto dolente era rappresentato dal fatto che, se le diagnosi – circa lo stato complessivo e i caratteri dell’occupazione – combaciavano, non si poteva dire la stessa cosa quando si passava alla fase successiva: i rimedi cui ricorrere per sanare le anomalie di un mercato del lavoro così “duale”.

In quella situazione – da parte di soggetti che (strumentalmente) si richiamavano alle ragioni dei lavoratori, ma che, in realtà, sostenevano le più recondite e inconfessabili logiche padronali – fu avviata una grandiosa opera di mistificazione.

Una rappresentazione distorta della realtà, oltre che della ragionevolezza, in virtù della quale – al fine di pervenire alla pur giustissima e auspicabile condizione di parità di diritti e tutele per tutti i lavoratori – Pietro Ichino, alias <Il licenziatore>, a nome e per conto, suggeriva di “Ripartire equamente il peso della flessibilità”.

Il tutto, a corollario dell’altrettanto indimostrato principio secondo il quale: “Per aumentare la base occupazionale è indispensabile semplificare le procedure relative ai licenziamenti”; in sostanza, deregolamentarli e renderli più facili!

Naturalmente (come comprensibilissimo da chi riusciva a sottrarsi al “melodioso canto delle sirene”) anche se mai ammesso dai più rigidi sostenitori di tali terapie, il riequilibrio dei diritti e delle tutele – perché, in definitiva, di questo si trattava – era da intendere “al ribasso”, piuttosto che, come logico e auspicato dalla Cgil, tendere a eguagliare le migliori condizioni.

Al riguardo, ancora ricordo le tante “considerazioni finali-farsa” successive a interviste rivolte a lavoratori “non protetti”, secondo la definizione di Ichino.

Infatti, al naturale e comprensibile rammarico, da parte degli intervistati, di sentirsi in una condizione di oggettiva inferiorità e ingiustificata discriminazione, cui seguiva l’inevitabile rivendicazione di parità di condizioni – in termini di tutele – si sostituiva, inevitabilmente, un pernicioso interrogativo: “Perché loro sì ed io no”?

Come se il Co.co.co. di turno si fosse espresso, in definitiva, nel senso di richiedere l’abolizione di alcuni “privilegi” – ingiustificati, perché non accessibili a tutti – piuttosto che aver richiesto, a giusta ragione, uniformità di trattamenti.

In sostanza, un ulteriore tentativo di mettere gli uni contro gli altri; la stessa manovre operata nei confronti dei padri – rispetto ai figli – che godrebbero di privilegi pensionistici impossibili da riconoscere alle generazioni successive.

Si è trattato di una perfida logica che ha poi rappresentato una specie di sovrastruttura di riferimento a una serie di provvedimenti, in materia di lavoro, dei governi Berlusconi e di quelli successivi.

Nel tempo, il risultato è apparso, sempre più chiaro: un’opera di normalizzazione – nel senso di un “riallineamento al ribasso” – di quelli che, una volta, erano i diritti e le tutele riservate ai lavoratori subordinati; dal superamento dell’art. 18.

Ancora una volta, il più tenace e determinato sostenitore di questo sistema di garanzie “minimali” è stato colui che ho sempre ritenuto il migliore alleato delle forze padronali e il più acceso antagonista del sindacato (della Cgil in particolare): Pietro Ichino.

Naturalmente, in un’operazione di questo livello, non poteva mancare il più classico degli “specchietti per le allodole”! In questo senso, la parola magica fu la c.d, “Ricollocazione”.

Si disse, infatti, che i lavoratori italiani espulsi dai cicli produttivi più facilmente, rispetto al passato – cioè senza più la protezione della “giusta causa” – avrebbero potuto contare su di un’assistenza post-licenziamento più specifica e mirata a un’immediata ricollocazione nel mercato del lavoro; un po’ come essere in Danimarca e/o negli altri paesi scandinavi.

Una colossale bufala. Una menzogna da parte di tanti che mentivano sapendo di mentire.

Siamo ormai nel 2017, sono già trascorsi tre/quattro anni dall’avvio di riforme quali il superamento dell’art. 18, il contratto a tutele crescenti e il Iobs act ed è lo stesso Ichino a richiedere una riforma urgente dei c.d. “Servizi per l’impiego” che, allo stato, fanno di tutto, meno che avviare i disoccupati al lavoro; di ricollocazione, meglio non parlarne.

L’unico provvedimento varato, a sostegno della condizione di grande disagio scontata dai lavoratori, è stato quello di allargare la platea degli aventi diritto all’indennità di disoccupazione. Naturalmente e contrariamente a quanto in precedenza affermato, all’aumento del numero dei beneficiari è corrisposta una diminuzione dell’indennità e un accorciamento dei tempi di godimento.

Una sorte addirittura peggiore è toccata all’indennità di mobilità; è stata semplicemente soppressa!

Dinanzi a tale quadro, evito di ripetere, anche in questa sede, le specifiche motivazioni attraverso le quali mi sono sempre differenziato dalla visione totalizzante che ha Ichino degli interessi delle imprese.

Mi limito a evidenziare il risultato di quella che, nel corso degli anni, ha, in definitiva, rappresentato la sua superficiale e semplicistica soluzione per superare quella che lui stesso definiva la condizione di serie B, C o D di milioni di lavoratori italiani non “protetti” (il riferimento era, naturalmente, alla tutela “reintegrativa” offerta dall’art. 18 dello Statuto).

Ad alcuni milioni di lavoratori è stato lasciato quello che, oggi, a ben vedere, viene da tutti considerato un privilegio “a esaurimento”, piuttosto che un diritto inalienabile (la dignità della “giusta causa” di un licenziamento individuale), mentre tutti gli altri sono nella stessa, identica, condizione di quelli cui erano rivolte le strumentali preoccupazioni del senatore Pd.

Non a caso, il famigerato “Contratto a tutele crescenti”, che tanto lustro e altrettanta immeritata popolarità ha, a mio parere, procurato al senatore iddio, di “crescente” non offre niente, se non la misura dell’indennizzo in caso di licenziamento a discrezione del datore di lavoro; nel senso del come e del quando.

Trattasi, in effetti, di un contratto di lavoro – cui manca l’indicazione di una data certa di scadenza – che può essere interrotto in un qualsiasi momento della sua vigenza; con il pagamento di un indennizzo prestabilito e senza più le conseguenze (abbastanza onerose, in passato, per il datore di lavoro) relative a un’unilaterale interruzione di un contratto a tempo determinato. Si tratta, in sintesi, di un’altra condizione lavorativa nella quale il lavoratore, volente o nolente, è obbligato a “starsene tranquillo”.

Le condizioni dei contratti a termine – peggiorative, grazie all’accordo separato che Cisl e Uil regalarono all’epoca, al governo Berlusconi – non sono cambiate di una virgola. Stessa cosa – anche qui grazie alla complicità di Cisl e Uil con il governo dell’uomo di Arcore – dicasi per quanto attiene al Part-Time.

Per non parlare delle disastrose condizioni cui sono ridotti – oggi, peggio di allora, grazie, soprattutto, alla colpevole apatia della Cgil e al collaborazionismo di Cisl e Uil con la Fornero – i lavoratori appartenenti ai diversi settori che operano in regimi di appalto e, soprattutto, di subappalto: ”Silenzio e in riga!”.

Intanto, la stragrande maggioranza dei lavoratori “a progetto” e le “partite Iva” sono ancora là dove erano una volta: nel grande circo della precarietà assoluta continuano a indossare quella maschera che li rende tragicamente diversi rispetto ai loro simili; i lavoratori subordinati.

Senza bisogno di riportare qui le condizioni di assoluto disagio vissute dai lavoratori c.s. “interinali” e occasionali.

Naturalmente, ciò è stato possibile in applicazione del famoso motto: “Divide et impera[6]”.

Infatti, nelle stagioni successive al Berlusconi I, i governi di turno hanno potuto contare e godere sulla sostanziale inoperatività della Cgil – suicida fu, al riguardo, l’atteggiamento di sostanziale “surplace” tenuto durante il governo Monti- e sulla collaborazione attiva di Cisl e Uil che, in definitiva, alla vana e sciocca illusione di poter arrivare a essere interlocutori privilegiati di governi di centrodestra, decisero di sacrificare e tradire il mandato dei lavoratori.

Al riguardo, è opportuno evidenziare che, se è vero – come ai più appare chiaro – che la Cgil è stata, alla fine, ridimensionata, rispetto al livello di Rappresentanza sindacale e a quello della Rappresentatività sociale, è indubbio che Cisl e Uil “contano” molto meno di quanto si auguravano potessero arrivare a contare quando s’illusero di poter condurre in porto la stagione degli “Accordi separati”.

E’ in questo contesto che bisogna valutare il senso delle parole di Renzi e Gentiloni quando sostengono che, se il numero degli occupati in Italia è tornato a essere pari a circa 23 milioni di soggetti, come nel periodo pre-crisi del 2008, ciò è merito delle loro riforme; il superamento dell’art. 18 e il Jobs act.

Ebbene, un’analisi seria dovrebbe, in primis, tenere conto del fatto che mai nessuna legge ha prodotto automaticamente un aumento dell’’occupazione. Certo, ha potuto agevolarla, ma a condizione che l’economia del Paese desse segnali di ripresa, sia pure debole, come successo recentemente in Italia.

Inoltre, i dati Istat, relativi alle rilevazioni periodiche sullo stato di occupazione dei lavoratori italiani, sono molto significativi.

Ad esempio, sull’aumento di un misero 0,6 per cento – rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso – dei contratti a tempo indeterminato, non deve sfuggire un particolare: essere assunto a tempo indeterminato, in vigenza dei contratti a tutele crescenti, significa (come già detto) semplicemente che non si sa quanto durerà il contratto.

Nulla a che vedere, quindi, con i contratti di lavoro a tempo indeterminato sottoscritti quando ancora vigeva la tutela dell’art. 18!

Nello stesso periodo, come prevedibile, i contratti a termine hanno compiuto un altro balzo in avanti e sono aumentati di circa il 12 per cento.

Anche un extraterrestre non avrebbe problemi, a differenza di Renzi, Gentiloni, Ichino e compagnia, ad ammettere che la precarietà è sempre in aumento.

Tra l’altro – quale elemento di fondamentale rilevanza sociale e notevole interesse politico; dati completamente ignorati dai suddetti politici – non è peregrino interrogarsi circa la “qualità” dell’occupazione prodotta.

Anche qui ci sostengono ricerche incontestabili[7].

Secondo l’Ocse, infatti, dal 1995 al 2015 in quasi tutti i paesi europei si è assistito a una riduzione della percentuale di lavori a media qualificazione, con un consistente aumento della richiesta di “qualità” della fascia alta piuttosto che di quella bassa.

In Austria, ad esempio, a una riduzione della fascia media di circa 17 punti, è corrisposto un aumento di quella alta di circa 14 punti e della bassa di poco più di 3.

Fanno eccezione l’Italia e la Grecia. Nella prima la differenza è quasi nulla, mentre nella seconda, è addirittura negativa; con circa 9 punti, su 13, che vanno a incrementare la richiesta di lavori a bassa qualificazione.

Negli ultimi due anni, la situazione italiana è, guarda caso, peggiorata.

Infatti, alla diminuzione della fascia a qualificazione media (- 3,1 punti) sono corrisposti aumenti di due punti della bassa e di 1,1 punto a favore di quella alta.

Se ne deduce che sarebbe ora di prendere atto che la distanza, tra le cose che sostengono Renzi, Gentiloni, Ichino e compari e la cruda realtà, è di carattere siderale.

E pensare che ci hanno turlupinati adottando un ritornello che suonava più o meno così: ”Ce lo chiede l’Europa!”

[1] Lalla Romano, “Le parole tra noi leggere”, Einaudi, Torino, 1966

[2] Carlo Levi, “Le parole sono pietre”, Einaudi, torino, 1955

[3] Emily Dickinson, “Some say”

[4] Luciano Gallino, “Il costo umano della flessibilità”, Laterza, Roma-Bari, 2001

[5] Renato Fioretti, “Le tipologie contrattuali, Cgil Campania, Napoli, 2004 e 2005

[6]  “Dividi e comanda”, di origine incerta, fu attribuito a Luigi XI di Francia

[7]  Ocse, “Emplyment Outlook” 2017 e Eurostat 2016

Renato Fioretti

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

22/9/2017

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *