Che cosa dicono gli operai della ex Gkn con la loro occupazione di Palazzo Vecchio

© Ufficio stampa Gkn

Dario Nardella non somiglia certo a Giorgio La Pira -non ne possiede lo spessore politico, la capacità immaginativa, né l’afflato religioso- ma va dato atto al sindaco di Firenze e alla sua maggioranza in Consiglio comunale di avere capito che il Collettivo di fabbrica della ex Gkn si sta battendo dalla parte giusta e con buoni argomenti. Perciò Nardella e il presidente del Consiglio comunale fiorentino, Luca Milani, hanno assecondato la clamorosa protesta operaia, col Salone de’ Dugento occupato giorno e notte, accettando in qualche modo l’atto di accusa rivolto anche verso di loro. Le classi dirigenti, dicono da tempo e hanno ribadito gli operai ex Gkn, stanno fallendo, non sono all’altezza del loro compito e stanno abbandonando alla loro sorte non solo quattrocento operai messi improvvisamente alla porta nell’estate del 2021, ma un intero “sistema” di relazioni industriali; si stanno sgretolando -dicono ancora- nell’inerzia delle istituzioni, i residui diritti dei lavoratori e più in generale l’idea stessa che la libera imprenditoria debba svolgere una funzione sociale. Questo gridano gli operai della ex Gkn e parlano a tutti, non solo al sindaco Nardella e al presidente della Regione Eugenio Giani, i rappresentanti istituzionali più vicini: parlano ai governi che hanno condotto fin qui una vertenza inconcludente; a una classe imprenditoriale che pare oscillare fra una vocazione predatoria e un’attitudine infingarda; ai lavoratori impegnati in vertenze simili alla loro, tutte finite piuttosto male; parlano infine a tutti i cittadini, e più in particolare a tutti gli attivisti, a prescindere dall’ambito di impegno: dicono a questi ultimi che le classi dirigenti sono inaffidabili e che occorre quindi farsi classe dirigente.

Il caso Gkn è dunque un laboratorio aperto, oggi più che mai. L’occupazione di Palazzo Vecchio impone agli enti locali di uscire allo scoperto. Finora hanno appoggiato la via intrapresa dal nuovo proprietario dello stabilimento, inizialmente in campo come consulente e mediatore, Francesco Borgomeno, che ha promesso per mesi un nuovo piano di industrializzazione, senza però presentare un vero progetto ai tavoli ministeriali né tanto meno fare i nomi degli investitori che lo avrebbero a suo dire finanziato. Il Collettivo di fabbrica è sempre stato scettico sull’operazione, anche quando Comune, Regione e ministero plaudivano e incoraggiavano la “nuova proprietà”. Il progetto non c’è, gli operai avevano ragione. E mentre Borgomeo nei giorni scorsi dichiarava d’essere stato lasciato solo, gli operai prendevano possesso del Salone de’ Dugento, per chiedere agli enti pubblici d’essere protagonisti e non spettatori della vicenda. A Firenze molti anni fa il sindaco (era il 1953) La Pira ingaggiò un clamoroso braccio di ferro con lo Stato per salvare gli operai licenziati in blocco dalla Pignone, schierandosi platealmente dalla loro parte, in nome dei diritti umani e sociali scolpiti nella Costituzione. Pretese un intervento pubblico risolutivo. Vinse. Nacque la Nuova Pignone, operai e cittadini sentirono che Palazzo Vecchio era davvero “casa loro” come sempre si dice e che la Costituzione, con tutti i diritti che vi sono garantiti, era davvero la spina dorsale e l’ispiratrice della vita pubblica.

Oggi è tutto diverso. Non c’è un La Pira e trent’anni di neoliberismo hanno messo in crisi lo Stato ma il punto è proprio il fatto che tutto ciò che più conta -i diritti, la dignità delle istituzioni, il ruolo della Costituzione- viene messo in discussione attraverso le presunte “leggi dell’economia”, quelle che spinsero nel luglio 2021 il fondo d’investimento Melrose, proprietario di Gkn, a chiudere improvvisamente lo stabilimento fiorentino, senza mai averne nemmeno ventilato l’ipotesi. I diritti e la dignità di chi lavora, la funzione sociale dell’impresa: tutto accantonato, stavolta a Firenze come tante altre volte era avvenuto altrove in questi anni. Immutabile lo schema, con l’impresa che decide secondo le sue insindacabili (e a volte anche imperscrutabili) ragioni e gli enti pubblici chiamati prima a mitigare i danni (con i cosiddetti ammortizzatori sociali), poi ad assecondare e accompagnare (magari con sussidi, sgravi, incentivi) eventuali nuove intraprese, di solito di molto minore respiro – per quantità di occupazione e prospettive economiche – rispetto alla situazione di partenza. Alla Gkn c’è stato un imprevisto: un gruppo di operai di insolita maturità politica, capace di creare un caso nazionale con le sole proprie forze e di creare attorno a sé un clima di forte impegno e partecipazione. Le parole d’ordine del Collettivo di fabbrica -“Insorgiamo” e “Convergiamo”- hanno fatto scuola mentre gli operai si ribellavano a un destino che pareva per loro inevitabile: hanno presidiato la fabbrica, girato l’Italia per creare alleanze, indetto manifestazioni locali e nazionali, stanno oggi lavorando per costituire una Società di mutuo soccorso e sono in contatto con il movimento argentino delle fabbriche recuperate. Non ci stanno a interpretare il ruolo prescritto per loro in commedia: le vittime prima tramortite, poi illuse, infine abbandonate.

Occupando il Salone de’ Dugento, luogo simbolico e suggestivo della sovranità popolare, gli operai ex Gkn hanno dato la scossa agli enti locali, mostrando che lo pseudo re (Francesco Borgomeo, la classe imprenditoriale) è nudo e che i poteri pubblici devono fare la loro parte -se vogliono, se possono, se credono d’essere ancora la “casa comune” dei cittadini. Sullo sfondo si intravede un’ideale sfida fra classi dirigenti: di qua l’intelligenza collettiva, che nei mesi scorsi, col contributo di esperti, tecnici e giuristi, ha anche elaborato un progetto di nuova industrializzazione (a controllo pubblico) nello stabilimento ex Gkn e una proposta di legge contro le delocalizzazioni; di là un ceto imprenditoriale che sta giocando una partita poco chiara e quanto meno inconcludente. La posta in gioco è più alta di quanto appare: questa non è (solo) una vertenza locale, ma un laboratorio economico e politico, quindi una questione di democrazia; è in gioco l’idea stessa, non già della rivoluzione, ché una rivoluzione di questi tempi non si può fare, ma del cambiamento profondo, strutturale, dell’economia oggi dominante, questo sì necessario, e anche urgente.

Lorenzo Guadagnucci

18/11/2022 https://altreconomia.it

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