Che genere di povertà

Ha impressionato l’opinione pubblica il crollo del tasso di occupazione femminile annunciato dall’Istat tra dicembre 2019 e dicembre 2020: dal 50% al 48,6%, a fronte di una modesta contrazione per gli uomini. Aggiungiamo, citando il rapporto SaveTheChildren (2021), che nell’anno della pandemia 96mila madri con figli minori hanno perso il lavoro. Tra queste, 4 su 5 hanno figli con meno di cinque anni: sono le madri che, a causa della necessità di seguire i bambini più piccoli, hanno dovuto rinunciare al lavoro o ne sono state espulse.

A fronte di queste stime, la recente pubblicazione del Rapporto integrato sul mercato del lavoro 2020 ha confermato il carattere straordinario dei contraccolpi della pandemia sul mercato del lavoro, ed evidenziato come le categorie più penalizzate dall’emergenza sanitaria siano state quelle già in precedenza caratterizzate da situazioni di grande svantaggio: le donne, i più giovani (15-24 anni), e gli immigrati.

Con queste premesse, è più che lecito preoccuparsi per le ripercussioni che si potranno avere in un prossimo futuro sui fenomeni di povertà ed esclusione sociale nel nostro Paese, soprattutto in ottica di genere. […]

Qual è l’identikit delle famiglie più vulnerabili

L’incidenza della povertà si conferma ancora più alta nel Mezzogiorno (che si attesta per gli individui a 11,1%, a fronte del 9,4% nel Nord e del 6,7% nel Centro). A essere maggiormente penalizzate sono le famiglie numerose con 5 o più componenti (20,7) e i nuclei familiari con stranieri (25,7%, a fronte di un’incidenza del 6% tra le famiglie di soli italiani).

Continua inoltre la correlazione negativa tra incidenza della povertà e l’età della persona di riferimento, decretando i nuclei degli under 34 come i più svantaggiati (l’incidenza della povertà nei nuclei 18-34 anni è pari all’11,4%). Ancora più alto il peso della povertà tra i minori (tra loro la quota sale al 13,6%), per un totale, in valore assoluto, di oltre 1,1 milioni di bambini e ragazzi in stato di povertà.

C’è poi il nodo lavoro: a pagare il prezzo più alto sono prevedibilmente le persone in cerca di un’occupazione (15,2%); tuttavia, anche tra chi un lavoro lo possiede, magari sottopagato o a bassa intensità, la percentuale risulta decisamente più alta della media: in particolare tra le famiglie di operai l’incidenza della povertà si attesta al 13,3% (era 10,2% nel 2019).

Per scendere più nel dettaglio della condizione femminile, si può guardare ai risultati del sondaggio IPSOS condotto nel gennaio 2021 per conto di WeWorld [6], in cui si è guardato agli effetti della pandemia in termini di:

  • eventuale cambiamento di reddito femminile (individuale) e familiare;
  • mutamento nei consumi/spese (utenze, mutuo, spese per beni non essenziali, spese alimentari, spese sanitarie…);
  • mutamento del benessere proprio e dei figli/e. 32 Dall’indagine emerge un quadro preoccupante della condizione economica delle donne italiane nell’era Covid19: 5 donne su 10 dichiarano una diminuzione delle proprie entrate economiche.

Le fasce d’età più penalizzate sono: 25-34 anni, nella quale il 63% dichiara perdite economiche (il 24% le dichiara superiori al 50%), e 45-54, in cui il 60% lamenta una diminuzione del proprio reddito (il 21% dichiara perdite superiori al 50%). Emerge inoltre come la pandemia abbia inciso trasversalmente sia sulle donne occupate con figli, sia sulle donne non occupate con figli. Per entrambe le categorie, la quota di donne le cui entrate economiche si sono ridotte di più del 50% a causa della pandemia è del 60%, raggiungendo il 63% per le donne non occupate con figli piccoli (tra 0-13 anni).

Coerentemente, 5 donne su 10 si dichiarano più instabili economicamente a causa della pandemia e più di 4 su 10 dipendono economicamente dalla famiglia o dal partner in misura maggiore rispetto al passato. Tutto ciò ha avuto conseguenze sui consumi e sulle abitudini di spesa: quasi il 50% delle donne dichiara che le risorse economiche della famiglia sono state scarse o insufficienti negli ultimi 12 mesi. Tale quota sale al 57% per quanto riguarda le donne non occupate con figli, al 59% per le donne con figli tra 0-13 anni.

È lecito ipotizzare che le donne occupate abbiano sofferto in misura minore da un punto di vista economico grazie alla possibilità di ricorrere a sussidi statali o a strumenti di supporto forniti dal datore di lavoro.

È altresì ipotizzabile che le donne non occupate, e tendenzialmente anche meno istruite, non siano a conoscenza dell’esistenza di sussidi o non abbiano gli strumenti per richiederli.

Infine, vi è da sottolineare la difficoltà di cogliere informazioni sulle lavoratrici impiegate nell’economia informale o quelle con contratti irregolari, che non hanno potuto usufruire di sussidi statali durante la pandemia.

Le donne a rischio di povertà anche quando lavorano

[…] Le statistiche disponibili a livello europeo – incluso il nostro paese – mostrano che il fenomeno della povertà lavorativa ha una importante dimensione di genere.

Povertà lavorativa femminile (%)

Fonte: Eurostat (EU-SILC)

Come hanno già sottolineato Paoletti e Capesciotti su inGenere, “le donne in Europa lavorano in pochi settori, sono fortemente vincolate allo stereotipo che le vuole naturalmente inclini al lavoro di cura, raramente sono in ruoli decisionali nelle organizzazioni in cui lavorano, spesso lavorano part- time per conciliare vita e lavoro e vengono pagate meno. Questo vuol dire in-work poverty: lavorare, talvolta anche molte ore, e rimanere comunque a rischio di povertà”.

Occorre poi aggiungere un ulteriore tassello all’analisi. Per comprendere la povertà nel mercato del lavoro da un’ottica di genere, c’è bisogno di osservare la realtà dei vissuti delle donne.

Le donne non sono un gruppo indistinto e omogeneo: la dimensione di genere si intreccia con altre dimensioni che compongono le nostre identità, come ad esempio la classe socio-economica di appartenenza, la composizione dei nuclei familiari, l’essere o non essere madri. Secondo i dati Eurostat, le lavoratrici povere sono spesso madri single e rappresentano in media il 14% di tutte le famiglie dell’UE.

In generale, il rischio di povertà lavorativa è direttamente collegato al numero di adulti che lavorano nella famiglia, nonché al rapporto tra il numero di adulti che hanno un’occupazione e il numero di persone a carico. Il numero crescente di famiglie monoparentali incide sulla capacità media di tutti i tipi di famiglie di far fronte alla povertà lavorativa a livello aggregato.

Queste famiglie (sempre più numerose) possono infatti contare su un solo reddito. Le famiglie con tre o più figli, anche quando potrebbero contare sui redditi di due adulti (ma ciò non è scontato, in quanto, spesso, in queste famiglie, la donna abbandona il lavoro a causa delle difficoltà di conciliazione), avranno probabilmente un livello di risorse insufficiente, data la dimensione della famiglia e in assenza di misure adeguate contro la povertà, prima e dopo la pandemia. 

Estratto da Social Cohesion Paper 2/2021 di Ocis (Osservatorio internazionale per la coesione e l’inclusione sociale), a cura di Ugo Ascoli e Rossella Ciccia

Leggi l’articolo integrale

Marcella Corsi

2/11/2021 https://www.ingenere.it

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