Chi sfrutta i richiedenti asilo

E’ tempo di finirla con il perbenismo e il moralismo con cui si pensa di distruggere gli imprenditori. Questo Paese andrà a rotoli se si continua a gridare all’untore, a dire ‘poverini i rider’. Sinceramente, per me sono poverini quelli che hanno un tumore, non quelli che hanno un posto per dormire in un centro di accoglienza che paga il pubblico, più un telefono pagato sempre dal pubblico e anche un lavoro…». 

Così parlò il manager di una delle società milanesi che lavoravano in subappalto per Uber Eats. Era un’intervista a Business Insider Italia del luglio 2019. Un anno dopo scatterà l’amministrazione giudiziaria per Uber e l’accusa di grave sfruttamento. Secondo il Tribunale di Milano la società si procacciava lavoratori quasi tutti provenienti da «zone conflittuali del pianeta (Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Gambia, Guinea, Pakistan, Bangladesh e altri) e la cui vulnerabilità è segnata da anni di guerre e povertà alimentare».

Non è l’unico caso. Ci sono almeno 33 inchieste giudiziarie che riguardano lo sfruttamento dei richiedenti asilo. Avviate dal 2017 a oggi, si basano sulla legge 199/2016. Ma l’azione della magistratura evidenzia un problema di coerenza dell’ordinamento. «Da una parte si persegue lo sfruttamento lavorativo e dall’altra parte si producono sistematicamente soggetti vulnerabili», spiega Federico Oliveri, ricercatore presso l’Università di Pisa

Le inchieste sarebbero molto più numerose se fosse garantito l’accesso alla giustizia. Tra i tanti esempi, ecco la denuncia di un operatore nei pressi di Pistoia: «I braccianti ospiti di un centro avevano pattuito una cifra per la raccolta delle olive nelle campagne di Quarrata», racconta. «Invece fu dato molto meno. Allora andarono dai vigili urbani. Fu detto loro che per fare denuncia serviva il codice fiscale e l’indirizzo del datore di lavoro. Altrimenti non potevano aprire le indagini. Noi facemmo notare che se uno va a lavorare a nero è difficile che sappia il codice fiscale e l’indirizzo di residenza del datore di lavoro. E poi cadde tutto». 

In questo caso lo sfruttatore era un piccolo agricoltore. Ma ogni tipo di impresa ha abusato dei richiedenti asilo. Grandi multinazionali e medie aziende. Nel bresciano e nel ragusano. Nei servizi e nelle industrie. Per distribuire volantini nel Lazio come per produrre pennarelli a Torino, calze a Brescia, infissi a Pesaro. Un’azienda «green» come la Straberry di Milano li usava per raccogliere fragole a pochi chilometri dal Duomo. Per una manciata di monete al giorno, hanno lavorato nelle serre di Vittoria (Ragusa), nei campi di patate in Sila, nella vendemmia in Franciacorta.

Eppure in questi anni la propaganda populista li ha accusati di essere «parassiti che mangiano e dormono». Oppure gente che «deve restituire l’accoglienza lavorando gratis». Ancora, persiste il luogo comune secondo cui  i migranti emarginati «sarebbero usati soltanto dalla criminalità, come serbatoi da cui attingere manodopera in nero per l’illegalità».

La realtà è molto più articolata. Secondo il coordinamento migranti di Bologna, i richiedenti asilo sono stati più volte usati per sostituire i lavoratori in sciopero: «Il 13 marzo 2019 lavoratrici e lavoratori migranti della Dhl di Bologna, durante lo sciopero del sindacato SiCobas, hanno visto arrivare davanti al loro picchetto un pullman pieno di migranti, reclutati in fretta e furia per sostituirli. Erano per lo più richiedenti asilo in attesa della commissione o del ricorso dopo aver ricevuto il diniego. Alcuni di questi, assunti con contratti a breve termine tramite agenzia interinale in altri magazzini, sono stati spostati alla Dhl, in esplicita funzione antisindacale, con l’obiettivo di neutralizzare lo sciopero, dividere i migranti e metterli gli uni contro gli altri. Non si tratta di un singolo caso, sappiamo che altre aziende non solo a Bologna stanno mettendo in atto queste pratiche per indebolire le lotte».

In questi casi, i grandi marchi sostengono di non avere responsabilità perché le azioni sono effettuate dalle cooperative in subappalto.

Senza documento non c’è libertà

Ma perché i richiedenti asilo sono più vulnerabili di altri dal punto di vista lavorativo? Negli ultimi cinque anni, in Italia ne sono arrivati 479.559 (dati Unhcr). Secondo quanto denunciato dall’Arci, tra la prima domanda e l’esito finale, possono passare anche tre anni. Trascorsi i primi due mesi, c’è la possibilità di lavorare e mandare soldi a casa. Quasi tutti quindi cercano una qualunque attività. Difficilmente troveranno un buon posto perché permane la spada di Damocle del diniego e del conseguente ricorso, che allunga ancora di più l’iter burocratico e l’incertezza che ne consegue. Nel 2018 le risposte negative erano il 58,6% del totale, un anno dopo sono salite al 65%. 

«Se non hai il documento non hai la libertà», mi dice O.F., profugo del Mali. «Ho presentato ricorso alla decisione della commissione asilo. Poi ho visto che non c’era niente da fare a Roma e sono andato in Calabria per la raccolta dei mandarini. Mi hanno dato un permesso di sei mesi. Ho aspettato il risultato del ricorso, ma era negativo. Nel frattempo era stato abolito l’umanitario, così dovevo ottenere per forza un permesso per lavoro. Per fortuna avevo un lavoretto di pulizie». Soltanto un contratto da due ore al giorno evita l’espulsione.  

Scimmie

«Dove sono le scimmie?», protesta un imprenditore. I braccianti non sono ancora arrivati nel suo campo. «Domani mattina là ci vogliono le scimmie», ribadisce un altro. «E facciamo venire le scimmie, così cerchiamo di finire». Sono le intercettazioni telefoniche dell’Operazione Demetra. Un’indagine del 2020 che riguarda 14 aziende agricole. Non si tratta di «piccoli produttori», ma ditte che valgono complessivamente otto milioni di euro. Dodici in provincia di Matera e due nel cosentino.

I lavoratori, per dissetarsi, potevano soltanto bere l’acqua dei canali. Le paghe? Ottanta centesimi a cassetta di agrumi. I braccianti erano prelevati direttamente dai Cas, i «». 

Nati durante l’emergenza del 2014, pensati come strumento emergenziale, sono subito diventati il modo ordinario di gestire i richiedenti asilo. Se nell’anno di fondazione ospitavano 35mila persone, nel 2018 erano 138mila. In questi anni i Cas sono diventati un posto dove andare a prelevare braccia a costo zero. 

Ma come si comportano i responsabili dei centri di accoglienza quando vedono strani movimenti intorno ai loro ospiti? Molti fanno finta di niente. Qualcuno addirittura si trasforma in caporale, «vendendo» braccia in prima persona. Qualcun altro fa una scelta diversa. 

«Non so come finirà questa storia. Ma almeno una cosa potrò raccontarla. Ho fatto venire Sting a testimoniare al tribunale di Prato». Nicoletta Ulivi ha gestito il centro di accoglienza Santa Caterina. Da una sua iniziativa è partita l’inchiesta «Numbar Dar» (Capo Villaggio). Un colpo all’immagine internazionale delle vigne del Chianti.

«Gli operatori hanno notato molte assenze a pranzo», mi racconta Ulivi. Era il settembre del 2015. «Almeno 50 persone saltavano il pasto principale. Quando tornavano, erano sporchi, stanchi, affamati». Il motivo si scoprirà nell’ottobre 2016 con la conferenza stampa della Procura. I richiedenti asilo venivano trasportati nei vigneti di ricche aziende nate negli anni Venti. Non avevano il diritto di bere e lavoravano a piedi nudi nei campi.

Cosa accade oggi? «Tanti richiedenti asilo lavorano nel distretto tessile», racconta Ulivi. Dai cinesi non hanno la percezione del grave sfruttamento, né c’è violenza. Dai cinesi si lavora bene, dicono, un piatto di riso c’è per tutti, pagano subito. Se denunciano, l’effetto è la perdita immediata del lavoro, il rischio è troppo alto. Possono avere un permesso ma solo se la Procura avvia un’indagine. Nelle aziende del Chianti, invece, lo sfruttamento era troppo duro e le paghe troppo basse, c’era violenza, dodici ore sotto il sole senza bere né mangiare, pagati un giorno sì e uno no».

Lotta di classe tra i macrolotti

«Quando chiamano, la prima cosa che chiedono non riguarda lo stipendio, ma se c’è il wi-fi, la camera singola, la pausa pranzo. Qualcuno viene a fare il colloquio con la borsa elegante, sembra lui il datore di lavoro!». Come i loro colleghi italiani, anche gli imprenditori cinesi di Prato si lamentano dei lavoratori. Questo in particolare non sopporta che facciano gli schizzinosi sulla sistemazione abitativa offerta nel capannone.

Nell’immaginario collettivo i cinesi di Prato sono una «comunità» senza grandi distinzioni interne. In città gli stranieri sono il 19% della popolazione. Quelli di origine asiatica circa 20mila. Le imprese cinesi, al 2016, erano 5.676, la maggior parte delle quali attive nel settore delle confezioni. Tra via Pistoiese e i due macrolotti sembra di vivere nella provincia del Zhejiang, un’area nel sud non lontano da Shangai. Ma è solo un’impressione. Conflitti di classe e generazionali sono all’ordine del giorno. Ci sono imprenditori che faticano a trovare operai disposti a farsi sfruttare. Oppure giovani di seconda generazione che non vogliono ripetere la vita di sacrifici estremi fatti dei genitori.

Così gli imprenditori cinesi hanno trovato la stessa soluzione dei loro colleghi italiani. Rifornirsi di richiedenti asilo. Lo spaccato emerge dalla ricerca «Forme di sfruttamento lavorativo a Prato» a cura di Andrea Cagioni e Giulia Coccoloni. Alcuni di loro, si legge nella ricerca, «dichiarano che il pasto non viene loro fornito o gli viene decurtato dallo stipendio perché possono mangiare gratis nelle strutture». Ancora una volta: perché pagarli di più se mangiano e dormono a spese dello Stato?

Così molti operai cinesi sono stati sostituiti da pakistani, bangladesi, cittadini africani. Se poi hanno presentato domanda d’asilo, hanno un permesso di soggiorno. In caso di ispezioni, i padroni rischiano «soltanto» sanzioni pecuniarie e non quelle penali per l’impiego di immigrati irregolari. 

A Prato esiste uno sportello contro lo sfruttamento. In questi anni, gli operatori della cooperativa Cat hanno registrato che, tra gli utenti, 4 su 5 sono richiedenti asilo. Guadagnano anche 2,5 euro l’ora, lavorano spesso sette giorni su sette. La quasi totalità dei contratti riporta la dicitura part-time a 20 ore settimanali. In realtà le ore lavorate sono tra 70 e 90. Il doppio del consentito. 

In queste condizioni aumenta il rischio di infortuni. Tra i casi segnalati, quello di una mano schiacciata da una macchina a cui, per motivi di produttività, era stato tolto il blocco d’emergenza. Il lavoratore è rimasto invalido.

Antonello Mangano

Autore di inchieste e saggi su antimafia e migrazioni. Fondatore di “terrelibere.org”, il suo ultimo libro è Lo sfruttamento nel piatto (Laterza 2020)

23/12/2020 https://jacobinitalia.it

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