Chiuse in casa col maritovirus

«Ogni mattina mi sveglio e penso a quanto sono fortunata ad essermi allontanata da casa a luglio. Cosa sarebbe stato vivere con accanto una persona come l’ex marito ora, ai tempi del coronavirus?», ha scritto di suo pugno una donna seguita dal Centro antiviolenza “Donne Insieme” di Narni-Amelia. Lo ha intitolato “L’amore ai tempi del maritovirus”: «Chiusa in casa… a subire i suoi sbalzi d’umore – scrive la donna, che preferisce rimanere anonima, ripensando al passato – la sua rabbia, le minacce, i lanci degli oggetti addosso, le ossa rotte, i discrediti, la fatica, la sofferenza. E’ con lui che vivevo il vero isolamento non sapendo come uscire da quella situazione: un incubo progressivo …». Adesso la donna ha «una vita nuova, in cui sono presenti ostacoli che a ben guardare sono niente paragonati al “maritovirus”».

L’ultimo femminicidio (l’atto finale del ciclo della violenza maschile contro le donne che comprende la violenza economica, psicologica, linguistica e culturale), per ora, s’è consumato martedì 31 marzo. E’ accaduto nel comune di Furci Siculo (Messina): una studentessa è stata strangolata dal fidanzato con cui condivideva l’abitazione dentro la quale è rimasta rinchiusa per via delle disposizioni sanitarie disposte per l’emergenza Covid-19. Si chiamava Lorena Quaranta. E’ dalle prime ore dell’emergenza che le reti di donne e i centri antiviolenza hanno provato a denunciare il fatto che le misure di contenimento sociale avrebbero fatto schizzare le statistiche della violenza di genere, una fattispecie che, per il 90% si verifica “normalmente” tra le mura domestiche. «Non è un’emergenza nell’emergenza perché la violenza di genere è un fenomeno strutturale, un fenomeno continuo che va affrontato nel quotidiano in tempi di normalità», ha detto Antonella Veltri, portavoce di Di.Re, la rete di 80 centri antiviolenza in questo servizio di Rsi News. Veltri ha insistito sulla «necessità di uno stanziamento di continuità in maniera tale che noi si possa lavorare in tranquillità». Perché, come ogni altro servizio di prossimità, anche quello dei centri antiviolenza, s’è dovuto riconvertire alla versione “smart” e le operatrici attive nelle case-rifugio fanno i salti mortali per rimediare dispositivi di protezione così da non spezzare il filo che le lega alle ospiti.

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Da settimane, Nudm (Non una di meno) ripete che la quarantena sta causando la convivenza forzata di tante donne con i loro aguzzini. Per questo c’è un incessante diffusione online dei numeri dei centri antiviolenza e del numero nazionale, il 1522, per poter dare aiuto e supporto alle vittime. «Aumenta la possibilità che le donne si sentano “in colpa”, come se – in un momento in cui l’emergenza Covid-19 copre tutti gli altri problemi – esporre una situazione di violenza possa risultare fuori luogo», ha scritto Nudm di Messina. Infatti, le chiamate sono crollate così come gli ingressi nei centri. La paura del virus può essere maggiore della necessità di andarsene. «Da quando è iniziata l’emergenza sanitaria del coronavirus stiamo registrando un abbassamento del livello delle denunce e anche delle interazioni ai numeri e ai contatti dei centri antiviolenza, questo ovviamente ha alcune motivazioni – ha spiegato Simona Ammerata, attivista e operatrice della Casa della donna Lucha Y Siesta di Roma – la prima, ovviamente, più importante, è che il livello di preoccupazione è stato così elevato che evidentemente tutti ci si è concentrati su altro. La seconda è che le donne stanno lavorando H24 adesso in casa, sobbarcandosi tutto il livello di cura e il livello didattico delle bambine e dei bambini e quindi non hanno modo e tempo. Terzo, ovviamente, è che molto spesso convivono, in una situazione di isolamento, dentro casa, spesso con il maltrattante, e quindi la possibilità di fare telefonate e di interagire, certamente, è molto molto esigua. Sappiamo bene che questo è una situazione che si evolverà, velocemente e in modo drammatico. Del resto la Cina ce lo insegna molto bene. A Wuhan, durante l’emergenza, c’è stato il più alto numero di denunce per maltrattamenti e il più alto numero di richieste di separazioni e divorzi».

Simona Ammerata di Lucha y Siesta/ Foto Massimo Lauria

I dati della Turchia confermano il trend: le statistiche del dipartimento di polizia di Istanbul parlano di un calo dei reati del 14,5%, dai furti agli omicidi, ma un aumento del 38,2% degli episodi segnalati di violenza domestica, passando da 1.804 a 2.493. Il dato si aggiunge all’allarme lanciato dalla piattaforma “Fermeremo i femminicidi”, secondo cui dall’11 marzo – quando le autorità turche hanno lanciato il primo appello generalizzato alla popolazione a restare a casa – alla fine del mese sono state uccise almeno 21 donne (nel 2019 sono stati almeno 411), mentre in tutto marzo i femminicidi sono stati almeno 29, oltre a 9 donne trovate morte in situazioni «sospette».

Studi su eventi precedenti dimostrano che situazioni sanitarie eccezionali, in particolare quelle causate da calamità naturali, sono all’origine di una recrudescenza della violenza intrafamiliare. In Australia, una ricercatrice ha concluso nella sua tesi, dopo aver intervistato 30 donne vittime e 47 addetti e addette ai lavori, che la violenza domestica era aumentata all’indomani del “Sabato nero” del 2009 – incendi mortali della vegetazione. Negli Stati Uniti nel 2011, un team di ricercatori psichiatrici dell’Università del Mississippi ha dimostrato in uno studio che dopo l’uragano Katrina, la prevalenza di abusi psicologici è aumentata del 35% e quella di abusi fisici del 98%.

Per quanto riguarda Covid-19, la rivista scientifica The Lancet ha pubblicato un articolo in cui si afferma che le disuguaglianze di genere sono aumentate con l’epidemia. In Cina, un agente di polizia ha riferito al sito di notizie cinese Sixth Tone che i casi di violenza domestica sono triplicati presso la stazione di polizia di Jianli, nella provincia di Hubei: 162 casi sono stati trattati nel febbraio 2020 rispetto ai 47 del febbraio 2019.

Negli Usa,una donna ha chiamato la Domestic Violence Hotline per avvertire che il suo maltrattatore stava usando il virus per tagliarla fuori dalla vita dei suoi figli. E una badante ha riferito che il suo partner l’ha colpita, sostenendo che voleva infettarlo con il virus». In Francia, 3919, il numero nazionale di ascolto, è stato inaccessibile durante i primi giorni di confinamento e, appena riattivato con la deviazione del call center sui cellulari delle operatrici ha ricevuto 200 chiamate solo nel primo giorno.

Egle, attivista e operatrice di Lucha y Siesta, indossa una delle maschere simbolo scelto dalla Casa delle donne per resistere allo sfratto/ Foto Massimo Lauria

In Francia le reti di donne chiedono misure come quella dell’Austria dove la polizia può emettere un divieto di avvicinamento per 15 giorni. E poi, il sistema giudiziario deciderà se ratificare o meno il provvedimento. In Italia fa scuola una ordinanza del procuratore di Trento che stabilisce l’allontanamento urgente del maltrattante dalla casa familiare.

Dopo il primo femminicidio del tempo del confinamento in Francia, il 20 marzo, a Bouglon (Lot-et-Garonne), Caroline De Haas del collettivo Nous Toutes, ha reclamato un piano di emergenza per proteggere le donne: «Sono necessarie misure dedicate, sull’esempio della Spagna – come un servizio di messaggistica istantanea con geolocalizzazione inviato alle forze dell’ordine in caso di allarme». Anche il Viminale ha attivato You Pol, app per geolocalizzare chi denuncia

Il dibattito tra le reti di donne e i collettivi transfemministi, le associazioni che si occupano di contrasto alla violenza di genere, è tutto su come rispondere in modo efficace alle richieste che arriveranno.  Ma «esistono vite di serie A e vite di serie B. La vita delle donne appartiene alla seconda categoria», ha scritto Nudm di Messina dopo il femminicidio di Lorena Quaranta.

Solo nelle ultime ore il ministero della Famiglia e Pari Opportunità ha sbloccato risorse per 30 milioni per attività di contrasto alla violenza sulle donne. 10 milioni andranno a specifiche attività collaterali per il contrasto della violenza e 20 milioni sono invece destinati all’attività ordinaria dei centri antiviolenza e delle case rifugio che restano attive ma a distanza utilizzando ogni strumento digitale. Ma, oltre a kit sanitari, sanificazione, dotazioni tecnologiche e spazi di quarantena per le donne in pericolo, le attiviste segnalano che molte donne supportate dai centri stanno perdendo il lavoro ma non è ancora stato attivato il fondo per il micro-credito, 2 milioni di euro, annunciato a novembre dalla Ministra per le Pari Opportunità. Di.Re chiede che quel fondo sia destinato a un reddito di libertà per le vittime accolte dai centri.

Il cortile di Lucha y Siesta di Roma

Massimo Lauria, Checchino Antonini

7/4/2020 https://www.popoffquotidiano.it

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