Clima di restaurazione sulla riforma psichiatrica

Sono passati quarant’anni da quel 29 agosto 1980 in cui Franco Basaglia se n’è andato quasi all’improvviso, ma la lontananza sembra, se possibile, ancora maggiore.

Si è spenta infatti anche l’eco delle discussioni non di rado feroci e delle lotte che hanno animato i primi vent’anni della riforma psichiatrica, la «legge 180» del 1978. Basaglia ha avuto il tempo di partecipare alle prime fasi: gli ultimi testi degli Scritti mostrano il suo sguardo lungo sulla portata e il futuro della «180» e della riforma sanitaria; le Conferenze brasiliane (1979) ne raccontano il nascere; interviste e articoli sui quotidiani testimoniano l’instancabile disponibilità di Basaglia al dibattito e anche alla polemica, quando i primi detrattori della «180» presero la parola mentre la maggioranza remava contro in silenzio, dai direttori di manicomio che organizzavano le «dimissioni selvagge» alle lobby di psichiatri comunisti che osteggiavano il suo incarico nella Regione Lazio.

Con la morte di Basaglia lo scontro culturale e politico si fece più duro, Basaglia stesso fu accusato delle peggior cose, in Parlamento decine di disegni di legge cercarono di disfare la «180» ma era ancora molto forte il movimento di psichiatri e amministratori locali che già prima della legge avevano cercato di organizzare alternative al manicomio, e poi c’erano quelle che all’epoca si chiamavano «esperienze esemplari», che divennero il riferimento del movimento dei familiari, anzi delle familiari, madri e sorelle di persone internate in quei manicomi che non offrivano buoni argomenti a chi si riprometteva di restaurarli.

Sarebbe certo utile ripercorrere gli anni dimenticati in cui la riforma guadagnò terreno e consistenza fino ai governi Prodi e D’Alema, che avviarono le prime e in fondo le sole politiche di salute a livello nazionale e sembrò davvero possibile una riforma sostanziale della psichiatria.

Ma riandare a quella fase non aiuta a capire più di tanto l’estraneità di Basaglia ai sistemi sanitari che abbiamo sotto gli occhi e ai linguaggi attuali della psichiatria.

Per capire l’oggi dobbiamo andare soprattutto ai primi dieci anni del nuovo secolo, quando dilagarono con poche resistenze i processi che hanno immiserito e pervertito i servizi di salute mentale fino al degrado attuale, evidenziato, forse accresciuto, certo non causato dalla mazzata del Covid19.

Quei primi anni Duemila hanno segnato la vittoria e insieme la normalizzazione della riforma, e anche la compromissione, forse non definitiva, della capacità della legge «180» di orientare in senso realmente antimanicomiale il sistema della salute mentale e le professioni «psy», psichiatri, psicologi, infermieri e affini.

Con il Duemila sono stati chiusi gli ultimi ospedali psichiatrici: centomila letti smobilitati in trent’anni in un processo avviato prima della riforma e che tutti i paesi ricchi hanno poi intrapreso. Tutta la psichiatria, anche l’establishment, si intestò questo risultato, e si disse che la psichiatria entrava finalmente a pieno titolo nella medicina. Ma è proprio questo il problema.

Basaglia immaginava – lo scrisse, e il lavoro di Trieste lo dimostra – che la psichiatria della riforma avrebbe potuto portare dentro la medicina corpi vivi, uomini e donne, storie di persone e di luoghi, pezzi di società, cittadini con diritti, bisogni, parola.

Questo avrebbe chiesto la creazione di servizi di comunità, permeabili al contesto sociale e capaci di prendersene cura tramite la cura delle persone.

È accaduto l’esatto contrario.

La medicina del posto letto e della diagnosi, interessata più alla malattia che al malato, ha continuato a riprodurre sotto le bandiere della riforma una psichiatria di ambulatori, assediati dalle liste d’attesa e gestiti da operatori che non hanno mai visto le case dei pazienti; una psichiatria di servizi ospedalieri di diagnosi e cura che comminano dure quanto per fortuna brevi esperienze di internamento, in locali chiusi dove si usano contenzione meccanica e farmacologica e le persone sono private degli oggetti personali e della possibilità di comunicare; una psichiatria che ha fatto crescere una pletora di «residenze» variamente denominate, dove il tempo passa senza progetto né senso, focolai di infelicità e talvolta di virus.

I medici, gli infermieri, gli psicologi che oggi lavorano in questo sistema, in gran parte malpagati e precari, di Basaglia non sanno nulla, né della legge «180» né della riforma sanitaria né di cosa siano un servizio di comunità e una politica pubblica di salute, o se ne sanno è per scelta propria, dal momento che le facoltà di medicina e di psicologia non si occupano di questi temi, ignorano del tutto Basaglia ed evitano ogni discorso critico su salute, malattia, medicina.

Sta qui, in questa restaurazione, la radice del degrado di oggi, nel quale hanno influito le ideologie dell’aziendalismo e della concorrenza tra pubblico e privato, il fiorire delle repubblichette sanitarie regionali, l’assenza di fondi pubblici per la ricerca, lo strapotere di «Big Pharma».

E la politica? Oggi neppure le forze politiche che difendono la sanità pubblica hanno una visione forte che consenta di negoziare in modo non subalterno con i corpi professionali e con i poteri economici che dominano il campo sanitario.

Potrebbero provare a costruirla questa visione, insieme con i sistemi di servizi, i gruppi e i movimenti che resistono a lavorare in chiave di salute pubblica.

Di queste cose bisognerebbe parlare ripensando a Basaglia, senza celebrarlo con necrologi che accrescono la lontananza e la tristezza.

Maria Grazia Giannichedda

28/8/2020 https://ilmanifesto.it

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