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    “Il nuovo clima di collaborazione creato dall’emergenza virus sembra determinare un’occasione quasi unica, per riportare i soggetti principali che fanno e rendono viva la sanità pubblica ad essere protagonisti non solo nella battaglia per salvare il paese ma per determinare e decidere il futuro del nostro sistema sanitario nazionale.” Marco Prina, infermiere e sindacalista, sul numero di marzo di Lavoro e Salute

    Come il Coronavirus ci obbliga a cambiare

    Pubblicato da franco.cilenti

    Non c’è dubbio: siamo entrati in una nuova epoca della globalizzazione, quella delle epidemie.
    E le epidemie in un mondo sempre più collegato saranno foriere di grandi cambiamenti sociali, economici, culturali e politici. Lo è stato in passato (1), lo sarà in questo futuro prossimo. – (1) Citiamo ad esempio la “peste antonina” di vaiolo del III sec., che decimò la popolazione dell’Impero Romano aprendo i presupposti del suo declino. La “peste di Giustiniano” del VI sec. che favorì la trasformazione di Bisanzio da Impero a semplice stato posto a cavallo fra oriente e occidente. La “peste nera” di metà del XIV diede il colpo definitivo all’economia dei liberi comuni favorendo l’ascesa delle signorie. La scoperta del primo vaccino nel 1798 di E.Jenner accompagnò la rivoluzione del pensiero moderno. Fortemente osteggiati i vaccini dalla Chiesa Cattolica e dallo Stato Pontificio nel XIX secolo, furono una bandiera del pensiero razionale e liberale, quando questo era ancora rivoluzionario. –

    Il Coronavirus è diventato l’agente involontario di un nuovo cambiamento globale, che sta mettendo a dura prova società complesse, avanzate e diverse, come già solo, quella cinese e quella coreana, o quella italiana e quella iraniana, apprestandosi ad allargare il proprio abbraccio patogeno ai paesi ben più organizzati e ricchi come Germania, Francia e Usa.
    Il Coronavirus non guarda in faccia a nessuno, è profondamente egualitario, anche se le distinzioni sociali incidono sulla diffusione e il trattamento della malattia. Questo si vedrà bene nelle società più differenziate e classiste come quella americana rispetto a quelle meno come la Cina o la Germania.
    In questo il Coronavirus può essere letto come un ottimo stress-tester dei diversi sistemi sanitari come, pure, del carattere e della bontà dei diversi sistemi sociali o nazioni che dir si voglia.

    Se guardiamo al nostro sistema sanitario italiano, un antico mito viene profondamente ridimensionato. La migliore “sanità del mondo” non è immune da disorganizzazione, insufficienze, impreparazione che sono il primo risultato della mancanza di una seria programmazione previsionale e da finanziamenti adeguati.

    Sappiamo tutti che il SSN esce da dieci anni di tagli (meno 37 miliardi), da una spending review lineare e indiscriminata, dalla riduzione di 7 mila posti letto. Che se fossero stati compensati da un potenziamento su tutto il territorio nazionale del sistema di prevenzione primaria e secondaria, alla maniera cubana (1 medico, e anche un infermiere, ogni 10 mila abitanti) forse non avrebbero nuociuto, dato ancora il carattere ospedalocentrico del nostro sistema sanitario.

    Il fatto che il virus si sia diffuso allegramente nella zona economicamente più avanzata (il nuovo triangolo “industriale” del nord), dove si hanno le migliori prestazioni di LEA del paese, dovrebbe far riflettere tutti. Riflettere per lo meno su alcune mancanze generali:

    In primis di una cultura sanitaria diffusa nella popolazione.
    In seconda istanza su un assenza di preparazione e organizzazione multidisciplinare del personale medico e sanitario nelle strutture ospedaliere.
    Come terza questione l’enorme differenza fra Nord e Sud del paese nel SSN non è mai stato compensato con alcuna azione redistributiva e solidaristica.
    In ultima, una totale assenza, da dopo i tempi della SARS 1, di una attenzione da parte del SSN sulle malattie infettive, sia dal punto di vista preventivo che da quello organizzativo, mancando già solo un piano di emergenza nazionale per far fronte ad eventuali eventi epidemici.
    Anche guardando i numeri l’inadeguatezza della sanità italiana salta agli occhi.

    Dopo la cura dimagrante dei governi passati, dai dati OCSE del 2017, avevamo in Italia 32 posti letto ogni 10 mila abitanti (191 mila). In Germania erano sempre nel 2017 80 ogni 10 mila abitanti in, 60 in Francia. I posti letto con i convenzionati salgono a 216 mila, sempre in Italia. 5100 sono i posti in terapia intensiva con 667 ventilatori polmonari. Poi ci sono i day hospital con 13 mila posti.
    Il rapporto con gli altri paesi sulle terapie intensive è imbarazzante: 26 ogni 100 mila abitanti, contro i 60 della Germania e i 31 della Francia. Ma i posti stimati utili per far fronte all’emergenza coronavirus in Italia sono solo 85 per milione di abitanti, cioè 5.100!

    Data la forte trasmissibilità del Covid-19 vi è una potenzialità di contagio mondiale fra il 40% e il 50% della popolazione mondiale. Nel peggior scenario in Italia si potrebbe arrivare a 24 milioni di casi, nel migliore a 6 milioni. Con una saturazione attuale dei posti letto delle terapie intensive viaggiante in tempi pre-Covid-19 al 95%

    è chiara l’insufficienza dei posti letto per trattare i casi da rianimazione (il 10% dei contagiati). Si può lavorare per rallentare il contagio ma il collasso del sistema sulle rianimazioni è un dato numerico. Si può pensare da alcune stime bonarie di arrivare a un fabbisogno massimo di 60 mila ricoveri di cui 25 mila in terapia intensiva. Il SSN non è in grado di far fronte già solo a questo ottimistico scenario. L’unica possibilità è quella di investire soldi in posti letto e personale, oltreché andare a requisire le disponibilità della sanità convenzionata/privata, ad oggi completamente o quasi fuori dal gioco (a parte una debole offerta in Piemonte della Fornaca).

    Ricordiamoci che se i casi gravi vengono curati in terapia intensiva la mortalità del Coronavirus si abbatte al 1%. In caso contrario quadruplicherebbero. Nel caso dello scenario bonario a 6 milioni di contagi, andremmo da 54 mila decessi a 216 mila.
    Occorrerebbe quindi investire dai 4,5 ai 12 miliardi per ampliare il numero di posti letto, acquistare ventilatori, maschere e assumere personale.

    Se si pensa che il governo Conte ha predisposto un primo stanziamento di 25 miliardi al 10 marzo, di cui una decina serviranno per gli ammortizzatori sociali e il sostegno alle imprese colpiti dalle ricadute economiche delle misure restrittive adottate su tutto il paese, forse non ci siamo ancora.

    Perché bisognerà lavorare in fretta, trovare aree ed edifici da riadattare per creare queste nuove infrastrutture sanitarie. Inoltre le ricadute economiche su terziario e manifattura sono talmente pesanti (-0,7% del PIL, ma è ancora una valutazione ottimistica, altre stime arrivano al -7% con il 15% di disoccupazione) da richiedere vari e successivi interventi di liquidità pubblica inimmaginabili fino all’altro ieri.
    Vanno anche considerate le diverse caratteristiche del sistema sanitario nelle regioni del nord e in quelle del sud, grezzamente misurabili già solo in termini di Lea. Questo vulnus nell’emergenza sanitaria attuale rischia di far saltare in aria tutto il Sistema Sanitario Nazionale. Nell’urgenza solo un intervento d’autorità, cesaristico del tutto temporaneo, può far fronte all’emergenza di sanità pubblica, a partire dal sud. Ma l’autorità deve essere credibile, tecnicamente preparata e testata, con poteri circoscritti e controllabili (anche ex-post), limitati nel tempo In generale bisogna sottolineare che le azioni del governo vanno obbligatoriamente a rompere i parametri di Maastricht, sganciando l’Italia temporaneamente dalle linee economiche europee con più indebitamento, sforamento dei limiti di bilancio, intervento massiccio dello stato nell’economia. Ma per certi versi risultano ancora timide e fortemente condizionate dai pesanti interessi di Confindustria e delle classi economiche dominanti del profondo nord.

    Dagli ospedali, dai reparti, dalle rianimazioni gli operatori stremati da turni massacranti chiedono misure ancor più drastiche. Misurano con mano l’impossibilità crescente di far fronte ad un contagio dalle crescite esponenziali. Mancano le mascherine negli ospedali, nei consorzi, peggio che mai in molte fabbriche, negli ipermercati e supermarket, dove non sanno neanche come sono fatte. I controlli di polizia si limitano a toccare i trasporti, non si inoltrano nei reparti dove la violazione dei criteri di sicurezza e salute è cosa quotidiana.
    Siamo alle solite, delle leggi che valgono solo per alcuni, ma non per gli altri, i papaveri, quelli che hanno in mano l’economia e i posti di comando.
    Ancor più grave è che di fronte alla mancanza di materiale, strumentazioni, strutture e protocolli unici condivisi su tutto il territorio nazionale, il Governo eluda il problema della sicurezza per il personale nel settore pubblico e in specie nella Sanità. Questa omissione libera i comportamenti più vari, aumentando i rischi per i lavoratori della sanità e, in ultima analisi, per l’utenza e la salute pubblica.
    Al di là di tutto, emerge, in questo caos, una nuova percezione collettiva, l’idea che la sanità sia un bene pubblico che debba essere difeso, esteso e reso pubblico (e la figura miserabile da principessa defilata della sanità privata lo testimonia).
    Questa percezione e sentire comune potrebbe tradursi in un dettame costituzionale chiaro, che attualmente non è scritto nella nostra legge fondamentale: la sanità è un bene pubblico, la sanità deve essere pubblica così come la scuola. Buttandosi così alle spalle 40 anni di sifilide neoliberista.

    Ancor più chiara è un’altra questione che si evidenzia in queste concitate settimane. La diversa reazione all’emergenza epidemica di due nazioni, due sistemi, due modelli, due popoli con le sue culture e tradizioni: la Cina e l’Italia. L’una collettivista, l’altra individualista e liberale. Una dispotica (dispotismo asiatico), l’altra democratica ma priva di un rispetto realmente liberal-democratico della legge in fase di esecuzione. Una con il capitalismo di stato che controlla ed egemonizza le aree di libero mercato, l’altra affetta da nano-capitalismo incapace di avere un mezzo ruolo di traino in Europa. Sul confronto e la forza diversa dei due modelli estremi, probabilmente si tornerà a riflettere.

    In prospettiva la crisi del Coronavirus è portatrice di disgrazie, grandi perdite, crisi economica, impoverimento, soprattutto per i settori più popolari. Questo perché non si è voluto lavorare d’anticipo con una buona pianificazione e previsione. In questo senso la vecchia politica della cicala liberista sembra aver i giorni contati.
    Molti stanno iniziando a capire che bisognerà cambiare qualcosa. Magari che occorreranno più controlli, più potere e rispetto della legge sovrana anche sulle lobby e le corporazioni, partendo dal principio che il bene collettivo è superiore a quello del privato. Rompendo con la corruzione, il clientelismo e l’affarismo privatista, il male endemico di questo paese, da sempre tollerato, coperto e finanziato dalle diverse generazioni di una classe politica sempre più clientelare, trasformista, ignorante e dunque incompetente.
    Ma su quest’ultimo aspetto va ricordato che la rovina di questo paese non è responsabilità principale della classe politica, bensì di quella economica dominante, cioè quella élite economica dei cosiddetti “poteri forti”, che hanno sempre gestito e condizionato tutte le transizioni di questo paese, in assoluta e cosciente complicità delle diverse e varie “classi” politiche: democristiane, socialiste, post-comuniste, leghiste, forza-italiote, post-fasciste che via via si sono cimentate nel mal governo del paese. Forse sarà il momento di iniziare a pensare di tirare i conti, una volta superata l’emergenza.
    E sul fronte sanitario forse si potrà ragionare di cambiare il gioco.
    Fino a ieri la sanità pubblica è stata governata da scelte di carattere economico e di compatibilità che l’hanno messa in ginocchio nell’arco di venti anni, senza ottenere un risparmio sugli sprechi uniformemente efficace a livello nazionale, accentuando semmai le differenzeterritoriali,

    specie fra nord e sud. In tal senso il Servizio Sanitario Nazionale è venuto meno al suo compito centralizzatore.

    Tutto questo è avvenuto mentre il governo delle singole asl e delle aziende ospedaliere era attraversato dalla guerra fra i diversi ordini, corporazioni, categorie e lobby.

    Il nuovo clima di collaborazione creato dall’emergenza virus sembra determinare un’occasione quasi unica, per riportare i soggetti principali che fanno e rendono viva la sanità pubblica ad essere protagonisti non solo nella battaglia per salvare il paese ma per determinare e decidere il futuro del nostro sistema sanitario nazionale.

    Medici, infermieri, oss, amministrativi, operatori dei diversi servizi ausiliari non devono fare la fine dei vigili di NYC: qualche medaglia, le targhe, i bei drammatici ricordi.
    Questo paese non ha bisogno di eroi da ricordare, ma di un soggetto attivo e operante che si è conquistato sul campo con la propria competenza, bravura e umiltà il diritto di parola, sul proprio lavoro e sulla difesa e promozione della salute, rispetto alla politica.

    Da li non si dovrebbe più tornare indietro.
    Non è purtroppo una certezza, ma un semplice appello a non fermarsi all’emergenza ma a continuare, anche e soprattutto con il “ritorno all’ordine”, a farsi carico in prima persona della battaglia per rendere la sanità un bene obbligatoriamente pubblico.

    Marco Prina

    CGIL Moncalieri (TO)

    Infermiere

    Articolo pubblicato sul numero di marzo del periodico lavoro e salute http://www.lavoroesalute.org/

    Tags: cgil Coronavirus diritti del lavoro economia Emergenza sanitaria Epidemia Globalizzzazione Governo Conte infermieri Marco Prina Maurizio Landini medici oms oss Pandemia prevenzione sciopero sicurezza del lavoro
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    Autore: franco.cilenti
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