COME POSSIAMO IMMAGINARE UN’INDUSTRIA FARMACEUTICA PUBBLICA OGGI?

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Come ampiamente risaputo, alla pandemia da Covid-19 si è arrivati totalmente impreparati.

Questo è successo nonostante i tanti campanelli d’allarme che si erano manifestati fina dai primi anni 2000. Anche gli esperimenti di laboratorio avevano dimostrato che i coronavirus ospitati in altre specie erano molto pericolosi per l’uomo. David Quammen, l’autore di Spillover, aveva addirittura scritto nel 2017 che alcuni coronavirus avevano fatto il salto di specie in Cina. E prima ancora, nel 2012, aveva scritto nel suo libro che la maggior parte degli esperti da lui intervistati ritenevano assai probabile una pandemia con diverse milioni di morti come già avvenuto con la Spagnola agli inizi del secolo precedente.

Un altro scienziato esperto di vaccini, Peter Hotez, già da diversi anni aveva proposto a varie case farmaceutiche di investire sui vaccini per questo tipo d’infezioni, ma era rimasto inascoltato. Con lo sviluppo della SARS si era avviata la ricerca per un vaccino, ma questa era cessata non appena si era visto che l’epidemia da SARS si era fermata e localizzata. Perfino il segretario generale dell’OCSE, aveva scritto, in una lettera al G20 (20 marzo 2020), ad epidemia ormai conclamata, che se fosse stato completato lo sviluppo del vaccino per la SARS-CoV-1, che è strettamente imparentata a SARS-CoV-2, sarebbe stato accelerato lo sviluppo del vaccino per il nuovo virus che stava dilagando, essendo i due virus simili per l’80%.

Perché allora non si è andati avanti con la ricerca e lo studio precedente?
Una risposta parziale può venire dalle difficoltà della ricerca nel caso di RNA – Virus perché questi mutano spesso, come stiamo vedendo in questi mesi, (a differenza dei DNA – Virus dotati di più meccanismi di correzione degli ‘errori’ di replicazione) e dal rischio di gravi effetti collaterali. Ma non si è cercato nemmeno di sviluppare farmaci antivirali per contrastare l’evoluzione della malattia nella sua forma più severa, che richiede il ricovero fino alla terapia intensiva, con un’alta probabilità di esito fatale nei soggetti più fragili.

I veri motivi per cui si fa poca ricerca sui vaccini, vanno ricercati nelle priorità dell’industria farmaceutica, la quale preferisce investire nella ricerca e nella produzione di farmaci utilizzati in aree terapeutiche ad elevato mercato come nel caso delle patologie croniche – ipertensione, colesterolo alto, diabete, malattie tumorali -. Vi è inoltre, nella ricerca e sviluppo di vaccini, un tasso d’insuccesso più elevato, mentre il tempo che intercorre prima di arrivare alla produzione può essere anche di 10-12 anni. Questi sono, tra l’altro, alcuni dei motivi per cui le industrie farmaceutiche accampano l’esigenza di aver garantita una protezione brevettuale, anche fino a 20 anni. Tanti ne servono, secondo l’industria farmaceutica, ad ammortizzare la spesa. Il che appare poco credibile, se si considera che ricerca e sviluppo godono di generosi contributi statali.

Le malattie infettive sono state inoltre considerate, negli ultimi decenni, un problema del passato, su cui non valeva la pena investire, nonostante la loro presenza e diffusione nei paesi poveri e a bassa capacità di spesa. Né si è tenuto conto che il nostro modello di sviluppo, che poi sta a monte della diffusione degli ultimi coronavirus, avrebbe potuto provocare epidemie e pandemie assai pericolose, facendo riemergere patologie che si credevano retaggio del passato. Tanto che, alla fine di ogni epidemia, si abbandonano progetti su vaccini e cure, con grande dispersione di energie e risorse e senza capitalizzare i progressi raggiunti. La pandemia ha fatto emergere anche questi aspetti insieme alle difficoltà che accompagnano le campagne di vaccinazione.

Di fronte al comportamento di Big Pharma come stanno reagendo opinione pubblica e società civile?

La maggior parte delle persone capisce che l’espandersi della pandemia potrà essere fermata e contenuta, nell’immediato, solo con estesi e radicali programmi di vaccinazione, purchè non si limitino ai paesi ricchi e vadano a coprire anche gli altri due terzi del pianeta, dove, finora, nessuno ancora è stato vaccinato; e vede che tali programmi vanno a rilento anche perché Moderna, Pfizer e AstraZeneca hanno dimezzato la quantità di dosi che dovevano fornire – 14 milioni su 28 nel primo trimestre. Sta aumentando quindi la consapevolezza dei limiti e dello strapotere delle multinazionali del farmaco e si comprende che le campagne vaccinali non incontrerebbero tanti ostacoli, se, di fronte ad una pandemia epocale, che potrebbe portare a decine di milioni di morti, almeno in questa circostanza, fosse stata sospesa la protezione brevettuale e i paesi si fossero attrezzati per tempo alla produzione del vaccino anti-Covid-19. Si va facendo strada, quindi, oltre alla richiesta di sospensione della protezione brevettuale quella di poter avere una infrastruttura pubblica per la produzione dei vaccini.

Di quest’ultima si sta ormai parlando concretamente a livello europeo ma anche in Italia. Questa dovrebbe sostituirsi alle imprese farmaceutiche private e intervenire su tutte le fasi della produzione – ricerca di base, sviluppo e sperimentazione – fino alla distribuzione con prezzi che coprano solo i costi marginali.

In Italia c’è già un’Officina Farmaceutica di Stato, lo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare (SCFM), regolarmente autorizzato dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), che produce farmaci per patologie rare, salvavita, medicinali a base di cannabis, farmaci che le altre case farmaceutiche non hanno interesse a produrre. L’istituto ha ampliato la sua produzione a mascherine, respiratori polmonari e prodotti per la sanificazione anti-Covid, e si parla della collaborazione tra lo stesso e la fondazione TLS (Toscana Life Sciences) per la realizzazione di un programma integrato di ricerca e sviluppo per la produzione di vaccini.

Si va anche facendo strada l’ipotesi di una cordata di aziende biotech italiane – a guida statale – che pur avendo impianti per terapie avanzate dovranno comunque adeguare gli impianti, e dotarsi di bioreattori per la produzione di vaccini a RNA. Infine l’ex Commissario Arcuri, nel presentare i risultati della fase 1 del vaccino italiano Reithera, aveva annunciato il prossimo ingresso dello Stato italiano nel capitale dell’azienda farmaceutica romana per garantir l’ampliamento della capacità produttiva.

Tuttavia, considerata la divergenza tra ricerca medica orientata al profitto e ricerca per la salute, è necessario realizzare una grande infrastruttura pubblica, oppure uno o due poli di dimensioni europee. L’ultima opzione sarebbe preferibile perché le risorse da mettere in campo sono maggiori di quelle che i singoli stati potrebbero permettersi, inoltre per la sperimentazione multicentrica è preferibile avere un livello su scala internazionale.

Tale realtà potrebbe funzionare da contrappeso all’industria privata, e intervenire su tutto il ciclo del farmaco, per garantire la correttezza e l’efficacia di tutte le fasi: ricerca, sviluppo, produzione e distribuzione. Dovrebbe, naturalmente, agire in sinergia con i sistema sanitari pubblici degli altri paesi e con la comunità scientifica. Una proposta di questo genere è stata presentata sul menabò di Etica ed Economia (1) col nome di Biomed Europa; si tratterebbe di una istituzione sovranazionale, da realizzarsi presso alcune delle migliori strutture di ricerca presenti in Europa. L’idea è di costruire una struttura per farmaci e vaccini, che il settore privato non produce o produce a prezzi eccessivi, rompendo così l’oligopolio farmaceutico. Potrebbe, inoltre, costruire una linea di farmaci generici da sostituire ai farmaci con brevetti scaduti che ancora resistono sul mercato. Sia per la produzione che per la logistica potrebbe agire in proprio oppure tramite accordi con imprese private. Dovendo garantire un’elevata qualità potrebbe indurre Big Pharma a collaborare a condizioni eque almeno per le proprie linee di produzione.

Il finanziamento potrebbe essere assicurato tramite: contributi a carico del bilancio degli stati partecipanti e destinazione volontaria delle imposte; ricavi derivanti dalle licenze di produzione e dalla distribuzione di farmaci, tecnologie biomediche e generici di alta qualità al costo di produzione ai sistemi sanitari nazionali; remunerazioni da parte di imprese farmaceutiche per collaborazioni con l’impresa pubblica.

Il rendimento, per una impresa pubblica di questo tipo, sarebbe sociale, perché consisterebbe nella produzione, a prezzi nulli o inferiori al costo medio, di farmaci e vaccini socialmente utili e prioritari, avrebbe un minore impatto economico rispetto alla patologie trattate, garantirebbe maggiore sicurezza sociale. Si potrebbero così evitare shock economici devastanti, come quello attuale, derivanti da emergenze sanitarie che potrebbero ancora ripetersi.

Inoltre, essendo i farmaci di provenienza pubblica, non si dovrebbero più pagare le aziende farmaceutiche più volte per le varie fasi (ricerca e sviluppo, produzione e commercializzazione) alimentando i loro profitti. Deve essere chiaro che, senza il denaro dei cittadini, le multinazionali occidentali non avrebbero sviluppato i vaccini anti Covid-19: bisogna fare in modo che la finanza pubblica riconquisti il primato sulla finanza privata, che – per sua natura – è al servizio degli interessi più potenti.

Dietro il risultato odierno, comunque grande, che in un anno ci ha portato i vaccini anti-Covid, c’è moltissima ricerca di base, proprio quella che in Italia è trascurata. E infatti i vaccini arrivano da Usa, Regno Unito e Germania, che hanno capito l’importanza di un investimento continuativo e significativo in ricerca.

Ad una o più aziende pubbliche italiane, si dovrebbe invece affidare la produzione di altri prodotti indispensabili, quali presidi medici, elettromedicali, strumenti diagnostici, dispositivi di protezione individuale e prodotti di sanificazione, per non trovarci mai più sguarniti e privi di strumenti di protezione, diagnostici, tamponi, reagenti, cioè di tutto ciò la cui carenza assoluta ha causato tanti morti, soprattutto nella prima fase dell’epidemia, impedito l’attività di diagnosi e tracciamento e quindi anche il rallentamento dell’epidemia.

Per concludere, sia bene chiaro, che non può essere il vaccino la soluzione reale e definitiva delle epidemie. Che torneranno a ripetersi, anche in forma più grave, se non si opererà una reale conversione ecologica, che ristabilisca un equilibrio tra esseri umani e società da essi creata con l’habitat che condividono con gli altri esseri animati.

(1) Menabò di Etica ed Economia, Pandemie e ricerca farmaceutica: la proposta di una infrastruttura pubblica
europea , 16 maggio 2020.

Loretta Mussi

Medico Servizio Sanitario Pubblico

Collaboratrice redazione di Lavoro e Salute

Pubblicato sul numero di marzo del mensile

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