Come si è trasformata la Pubblica amministrazione.

Un recente rapporto sul Lavoro pubblico induce a innumerevoli riflessioni sugli scenari futuri.

Gli enti che hanno investito poco o nulla in formazione, ammodernamento delle strumentazioni e nei processi innovativi sono quelli che hanno presentato maggiori difficoltà creando,anche con un utilizzo errato del lavoro agile, disservizi.

Se possiamo trarre un insegnamento dagli ultimi mesi è quello di rivedere le modalità organizzative e gestionali della Pa, da parte nostra ogni cambiamento dovrà avvenire nell’interesse dei cittadini e dei lavoratori e non per stravolgere i profili professionali, abbattere gli spazi di contrattazione, aumentare i carichi di lavoro senza un euro di aumento, utilizzare lo smart alla stregua del telelavoro imponendo al personale un sistema asfissiante di controllo che ben presto porterà alla alienazione.

Il prossimo anno sancirà il superamento dei pensionati pubblici rispetto alla forza lavoro attiva, le recenti normative mettono in condizione gli enti locali di assumere ma restano vigenti alcune regole dell’austerità che impongono il pareggio di bilancio e conseguentemente ostacoleranno molte assunzioni.

Nell’arco di pochi anni i dipendenti pubblici hanno subito una feroce erosione, ce ne sono 212 mila in meno dell’anno 2008. In dieci anni gli Enti locali hanno perso oltre 100 mila dipendenti e quando si vedono file infinite agli sportelli al cittadino si capisce quale sia la causa di certi disservizi.

Ma i tagli riguardano tutti i comparti, se negli Enti locali si sono persi in percentuale quasi il 20% dei posti di lavoro anche nei Ministeriali e in Sanità il calo è considerevole, in Sanità si sono persi in dieci anni quasi 42 mila dipendenti (ecco la conseguenza delle politiche di privatizzazione della salute), 36 mila unità in meno nei Ministeri. E Nel frattempo la forza lavoro della Pa italiana è la piu’ vecchia d’Europa, l’età media in dieci anni è passata da 50 anni a quasi 58, il 17 per cento del totale supera 60 anni di età.

La domanda che sorge spontanea è come sia stato possibile aumentare la pesa per il personale della Pa con la diminuzione degli organici e 9 anni di blocco della contrattazione, forse dovremmo guardare all’area quadri e dirigenziale per capirci di piu’

La quota 100 ha riguardato circa 90 mila lavoratori e solo una minima parte è stata sostituita , o lo sarà, con i concorsi. Dalla Pa si fugge via piu’ che nel lavoro privato, la ragione sta nei bassi stipendi, nel deterioramento delle condizioni lavorative il che dovrebbe indurre a qualche riflessione sulla demenzialità della campagna denigratoria contro i dipendenti pubblici.

In 13 anni a fronte di 300 mila precari solo poco piu’ di 80 mila risultano stabilizzati visto che molti Enti hanno operato per impedire ai lavoratori di raggiungere i requisiti minimi per la stabilizzazione interrompendo i contratti anche pochi giorni prima dei fatidici 3 anni.

Il covid ha bloccato i concorsi e da qui a fine anno dovrebbero entrate in organico migliaia di unità ma sarebbe importante capire con quali profili professionali perchè la prima lettura fa capire che si assumono agenti di Pm, categorie protette nei limiti previsti dalla legge e sovente in categorie basse (come se fosse incompatibile la disabilità o una malattia con ruoli di vertice), pochi tecnici e ben poche educatrici.

La sostituzione della dotazione organica con il piano di fabbisogni rende ancora piu’ forte il ruolo dei Sindaci e le loro intromissioni nella macchina amministrativa.

Quando poi si affronta il capitolo della formazione e dell’aggiornamento si capisce che in 15 anni si è dimezzata, o quasi, la spesa destinata a queste voci con una percentuale di 1,02 giorni a dipendente destinata alla formazione, una media cosi’ bassa da rendere l’Italia fanalino di coda nella Ue. E nella scuola e nei ministeri le ore destinate al capitolo formazione sono ancora piu’ basse nonostante che nel corso degli anni siano cambiate normative che richiederebbero aggiornamenti costanti e in tempo reale.

La trasformazione digitale tanto annunciata rischia di tradursi in flessibilità selvaggia della forza lavoro, perfino il protocollo con i sindacati sul ritorno in sicurezza negli uffici inizia parlando di orari flessibili, una materia scippata alla contrattazione e alla discussione con le Rsu.

Lo smart è avvenuto con dipendenti che hanno utilizzato i loro strumenti informatici e le connessioni private alla rete, lo smart working rappresenta soprattutto una fonte di risparmio per la Pa con decurtazioni economiche ai danni di chi lavora in modalità agile come dimostra la mancata erogazione dei buoni ristorante nei giorni di rientro e in tanti casi il diniego all’istituto contrattuale della condizione lavoro.

Solo tra il 2017 e il 2018, quando i blocchi assunzionali erano stati revocati, si sono persi 20 mila posti di lavoro, ben prima della quota 100 per essere chiari.

E in un paese dove l’evasione fiscale è particolarmente accettuata capita di perdere in un decennio quasi 8 mila dipendenti, in percentuale il 14,% della forza lavoro complessiva.

Se confrontiamo l’Italia con i paesi europei si capisce che la percentuale dei dipendenti pubblici in rapporto alla popolazione è la piu’ bassa in assoluto, ci supera solo la Gb dove le privatizzazioni hanno messo in ginocchio sanità, ferrovie, trasporto su gomma, enti locali.

Questi numeri dimostrano quanto detto da anni ossia che si è badato solo a contenere il costo del lavoro riducendo i salari e soprattutto gli organici in tutti i comparti della Pa e la situazione è divenuta drammatica in sanità di fronte alla emergenza Covid.

Non si è investito in formazione, non si sono ammodernati gli strumenti di lavoro.

Si è fatto ricorso allo smart nell’ottica del risparmio e per evitare alla Pa di investire per la messa in sicurezza dei posti di lavoro e della forza lavoro.

Per anni gli enti locali si sono investiti ostaggio di speculazioni finanziarie destinate all’abbattimento del debito con nuovi mutui contratti che si sono dimostrati sovente troppo onerosi.

Non sono state adottate politiche di stabilizzazione della forza lavoro anche ove sarebbe stato possibile.

I concorsi sono cosi’ in grande ritardo e la politica intrapresa è stata quella di favorire la mobilità da altri enti che alla fine diventa una sorta di coperta troppo corta, ovunque la si tiri lascia scoperti i reali fabbisogni.

Il decreto Rilancio prevede assunzioni e concorsi ma se guardiamo ai numeri capiamo che siamo ancora molto lontani dal colmare i buchi di organico, basta ricordare il numero di operatori sanitari, vigili del fuoco, addetti al sociale.

I Piani di fabbisogno sono diventati una risposta piu’ funzionale ai programmi di mandato dei Sindaci che a fornire risposte reali a necessità oggettive.

I piani della performance si sono presto dmostrati fallimentari, utili piu’ a creare disparità di trattamento economico che a migliorare la qualità del lavoro e delle prestazioni, strumenti di falso merito nelle mani dirigenziali.

Nell’arco di un ventennio i laureati nella Pa sono cresciuti di quasi il 43 per cento, molte funzioni sono state soggette a esternalizzazioni e gli appalti hanno quasi sempre seguito la logica del contenimento dei costi con aumento dei contratti part time e applicazione di contratti sfavorevoli. Si è risparmiato praticamente su tutto, perfino sulle sanificazioni ospedaliere in nome del contenimento di spesa, di quella spending review che ha sancito invece tagli senza logica (la logica era quella dell’austerità)

Questa è la impietosa fotografia della Pubblica amministratore, inutile dire che il suo rilancio e potenziamento rappresenta una autentica priorità.

Federico Giusti

9/8/2020 http://www.controlacrisi.org

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