Come siamo diventati quello che siamo

La politica contemporanea è vuota, è il nulla. La società è vuota, non esiste, è abitata solo da individui. Gli individui a loro volta, in questa non-società, sono nulla, sono abitati dal vuoto, farebbero qualsiasi cosa per riempirlo. Dio è morto, e con lui è finito ogni principio astratto, il luogo stesso dei principi, ogni «alto». Questa morte dell’astratto retroagisce sul concreto, rendendo insensati il quotidiano e le biografie. In questa mancanza di senso, restano solo la lotta, la forza e la tecnica. Questa potrebbe essere la sintesi di ciò che viene messo in scena della serie TV (di Sky) 199219931994, di cui è uscita da poco l’ultima stagione, che mette in scena la fase della politica italiana che va dall’inchiesta Mani Pulite, al crollo della Dc e del Psi, all’avanzata della Lega Nord e alla nascita di Forza Italia. Il tema della serie è quindi quello della transizione italiana dalla Prima alla cosiddetta Seconda Repubblica, rappresentata attraverso fatti e personaggi sia reali che di finzione.

La narrazione torna all’origine, la nostra origine, l’evento di cui ancora si propagano le onde: Tangentopoli, il passaggio da Prima a Seconda Repubblica, il crollo dei partiti tradizionali e di tutte le forme di politica tradizionale, la nascita e l’affermazione dei nuovi partiti e delle nuove forme. Forme che, evolute, sono le nostre, le odierne. La politica si trasforma in tecnica: tecnica elettorale, tecnica di confezionamento del prodotto-partito, packaging dei discorsi, delle facce, dei valori, dei programmi, delle idee, dei simboli. E in tecnica parlamentare: tecnica dell’affermazione individuale, del raggiro, della trama, del tradimento, della manovra diversiva, della manipolazione, della costruzione del consenso a fini tribali di corrente o piccolo gruppo, della sopravvivenza personale a cui sacrificare tutto, del trasformismo. In questo, politici secondari della Prima Repubblica diventano vecchi saggi e guru dei neo-arrivati, gli insegnano la tecnica, trasmettono l’esperienza e il know-how, mettono al mondo figli politici disseminando ai nuovi e ingenui parlamentari favori che, prima o poi, saranno restituiti, intrappolando la «novità» nella norma, nel sottobosco delle trattative e degli scambi.

I leghisti, nella loro prima apparizione in parlamento, somigliano molto ai neo-eletti del Movimento 5 Stelle: lo stesso spaesamento, la stessa retorica della «gente comune che diventa classe politica», la stessa (iniziale) volontà di distinguersi dai politici degli altri partiti e di restare perfino fisicamente isolati perché nessuno «tradisca», politicamente o antropologicamente, nello stile di vita, nei gusti, nelle frequentazioni, per non essere voracizzati dalla mega-macchina romana del vizio, dei salotti, delle relazioni e dei patti trasversali.

1992-1994 è fatta, costruita, scritta e girata bene. Non sembra una produzione italiana. Ci sono le tecniche (ancora, tecniche) che rendono attraenti le serie anglosassoni di maggior successo: il montaggio veloce, post-moderno, che taglia e sovrappone i tempi tra flashback e flashforward, i misteri e i segreti suggeriti e risolti solo progressivamente, i dialoghi serrati quasi mai banali, la totale assenza di retorica, l’assoluta mancanza di concessioni al sentimento, la costruzione di personaggi mai univoci, mai macchiettistici, sempre complessi e contraddittori, che si evolvono e cambiano ma alla fine tornano a una propria origine, a un peccato originale che era rimasto nascosto (e che riguarda sempre le dimensioni più arcaiche della personalità: la famiglia, l’amore cercato, dato, negato).

La storia coinvolge, alla fine di un episodio si clicca per passare al successivo, in questo meccanismo che rende una serie televisiva un lungo ininterrotto film di 10 o più ore. Perché la serie prende? Che cosa, prende? Gli ingredienti che coinvolgono di più sono gli stessi di sempre. Non è la politica a coinvolgere particolarmente. Ciò che coinvolge è l’arcaico della narrativa moderna (anche qui, la sua origine), cioè gli ingredienti della tragedia, di quella shakespeariana e della matrice originaria della letteratura occidentale, la tragedia greca. Si torna sempre a quegli ingredienti originari, se si vuole costruire una narrazione efficace: la passione (le passioni), il tradimento, l’arricchimento, la gloria, le trame del potere, l’ascesa del Re, la caduta del Re, la trama alle spalle del Re, la follia del Re, l’ambizione a diventare Re, l’ambizione che uccide, disseta, dissesta, rende vitali, affascina, porta morte, porta vita; e l’ebbrezza, la scomparsa di sé, la perdita di sé, la ricerca del sé scomparso, il ritrovamento, la rinascita, la ricaduta, la famiglia, la follia della famiglia, la famiglia come rifugio di ultima istanza e dolore supremo nella sua mancanza, rimpianto lancinante, taglio che non guarisce; e la politica, come costruzione di un ordine sempre minacciato dal disordine da cui proviene, dal caos originario che è alla base di ogni invenzione di ordini sociali, il caos che assedia l’ordine da tutti i lati: l’ordine della vita collettiva, delle personalità individuali e delle loro connessioni, che continuamente si rompono e si rinsaldano instabilmente. Ma soprattutto: la colpa. La colpa è l’elemento fondamentale. Tutti, tutti, hanno il proprio peccato originale (che politicamente diventa «scheletro nell’armadio», continua possibilità di subire il ricatto). Tutti non smettono mai di tornare a quel peccato e di cercare di disinnescarne gli effetti. Tutti continuano a commettere colpe, non riescono a non farlo. Alcuni vivono cercando di perseguirle (Di Pietro).

Non è quindi il contesto ad affascinare e coinvolgere, non è il mutamento politico e sociale, non sono le considerazioni sulla natura umana in questo passaggio d’epoca: è la tragedia. E della tragedia, questa serie come tutte le serie che «funzionano», fanno un insieme di tecniche spogliate di dimensione etica, politica e metafisica.

1992-1994 è un buon prodotto, è una confezione elegante e divertente, spre-giudicata. È post-ideologica: non vuole dimostrare niente, fa mostra di non avere una tesi, di mancare di un punto di vista, appare divertita nel raccontare fatti e personaggi a volte con ironico distacco a volte con umana pietà, di non giudicare niente e nessuno, di limitarsi a mettere in scena. Rappresenta, non dice, secondo il mantra della narrativa contemporanea (show, don’t tell).

Proprio per questo, è una serie intrisa di ideologia, dalla prima all’ultima scena. D’altra parte si è avvalsa di tre consulenti giornalistici che a ideologia non scherzano: Marco Damilano (centrosinistra-diretto dell’Espresso), Filippo Facci (ideologia trucista-cattivista del «viva ogni destra e ogni brutta cosa l’umano possa fare»), ma soprattutto il re dell’ideologia-non ideologica del buon senso del giornalista centrista contemporaneo, con perenne sorriso compiaciuto accennato sul volto: Aldo Cazzullo, suprema vestale dell’ideologia Corrierista, quella del «non dovete avere ideologie perché ce l’abbiamo già noi e basta la nostra». Si vede, la loro mano.

In che cosa è ideologica questa serie? Questa serie è l’House of Cards italiana. Come la progenitrice statunitense, mette in scena una politica che è esclusivamente squallore, bruttura, imbrattamento, caduta negli inferi della perdizione, egoismo assoluto, totale mancanza di principi, tecnica e marciume, tecnica del marciume. Non c’è altro, la politica non è altro, non può essere altro. Nessuno si salva: sono tutti uguali. Non esiste la politica fatta per principi o valori, nessuno dei protagonisti (tranne gli agenti del «sogno berlusconiano», come vedremo) crede a quello che fa, nessuno protegge interessi sociali che non siano i propri, quelli dei propri amici o quelli i cui interessi sono sempre ben rappresentati (i ricchi, gli imprenditori, i finanzieri).

Ma c’è un ma, e in questo «ma» sono maestri Aldo Cazzullo e i suoi simili editorialisti della ex grande stampa. La mano di Aldo e il suo sorriso d’intesa ammiccante, segnale di pensiero agile, scanzonato e ironico, si vedono: «dai ragazzi è così, è inutile che ci giriamo intorno, sappiamo tutti che la politica è così, è questo e solo questo», ci dice Aldo sorridendo. Ecco il ma. Nella chiave data dalla serie, la sinistra non aveva (e non ha, ovviamente) da rivendicare nessuna superiorità di nessun tipo rispetto alla destra: nessuna superiorità morale, culturale, politica, umana. Anzi. Siccome la sinistra si rappresenta come superiore, solleva più aspettative, promette di essere ciò che non è, di fare ciò che in realtà non le interessa fare, di rappresentare chi non si sogna di rappresentare (i lavoratori, il popolo: ma poi, se la sinistra li rappresenta veramente, per Cazzullo et similia apriti cielo), siccome quindi la sinistra è ipocrita, falsa, doppia, allora non solo non è superiore alla destra: è peggiore. La destra è più autentica, non raggira l’elettore, non dice di essere meglio di ciò che è, vive senza sensi di colpa la propria spudoratezza, e quindi è in fondo più onesta, anche quando è disonesta sul piano della legge. È sempre così, è un meccanismo narrativo di valore generale: il discorso spoliticizzante per cui non c’è alcuna differenza, alcun rilievo significativo, alcuna discontinuità reale tra le diverse parti politiche, non penalizza tutte le parti: quella che non suscita illusioni (la destra) ne esce rafforzata, quella che per esistere deve rappresentare un ordine alternativo (la sinistra) ne esce distrutta. D’altra parte, oggi, quando a Salvini vengono chieste spiegazioni su inchieste riguardanti la Lega, lui non risponde dicendo «Non abbiamo fatto niente», ma chiedendo «Che male c’è»?

I politici berlusconiani, gli agenti di Pubblitalia, e tra loro il geniale inventore del partito nuovo insieme a Dell’Utri (il protagonista, interpretato da Stefano Accorsi), nella serie sono simpatici, vitali, allegri, un po’ ingenui perfino. Silvio stesso è così, è rappresentato così, è generoso, mite, simpatico, sempre bisognoso di piacere e ricevere conferme, empatico, disposto a capire tutte le debolezze umane. Non esiste la trama di potere berlusconiana nella serie. E non esiste la mafia. Viene evocata da qualche battutina messa in bocca vittimisticamente a Berlusconi stesso. Ma il potere vero non c’è: c’è la pantomima del potere del «Sono tutti uguali», del giochetto parlamentare, non c’è il potere sociale che lo sostiene. Il Silvio di questa serie (secondo alcuni, il miglior Silvio visto sullo schermo), è davvero un uomo irresistibile, è davvero un uomo disarmato, quasi candido.

Poi, si vede D’Alema: e D’Alema sembra invece una specie di Dottor Mengele. Freddissimo, insopportabile, solo calcolatore, disposto a far perdere le elezioni alla sinistra pur di far fuori Occhetto e prendere il suo posto, doppiogiochista, pugnalatore seriale di compagni di partito, totalmente privo di qualsiasi coinvolgimento emotivo e ideale nell’esercizio del proprio ruolo politico. Tutti i (pochi, e solo del Pds) politici di sinistra rappresentati nella serie sono così, oppure sono un po’ scemi e fastidiosi, comunque sempre ambigui e supponenti. I parlamentari di destra invece, anche quando sbagliano, delinquono, ammazzano, sono simpatici, geniali, oppure semplicemente umani. In ogni caso sono loro a portare le insegne del Sogno, di qualcosa di nuovo. Gli altri sono passato, decadenza, tristezza.

Ma i buoni ci sono? Ci sono all’inizio. Di Pietro è il buono, insieme al suo staff (più degli altri magistrati del pool, defilati, hanno ruoli di primo piano alcuni suoi stretti collaboratori personali). Questo è un altro momento del nichilismo, un’altra delle sue figure possibili: il buono appare buono; alla fine, però, ha le sue ombre, cambierà di casacca, ha qualcosa da nascondere, smetterà di essere buono. È come la sinistra: è buono, è superiore, solo momentaneamente o ipocritamente. Di Pietro conduce la sua battaglia quasi personale prima contro il «regime» e poi contro Berlusconi, senza concessioni, senza risparmiarsi. Ma poi, quando verranno fuori ombre possibili sul suo passato (favori, legami), o leggerezze ed errori che si adombra abbia commesso nelle inchieste, «il capitano abbandona la nave», come sentenzierà il suo collaboratore più stretto. Se ne va; attaccato direttamente con dossier preparati dai suoi avversari politici, lascia la toga per difendersi e diventerà, anche lui, un politico. Tra i suoi collaboratori più stretti, anche loro prima dediti senza quartiere ad andare al fondo di ogni rivolo dell’inchiesta, a colpire tutti senza distinzione e senza soggezione, uno decide di lasciare tutto e vivere a Panama, l’altro passa direttamente con «il nemico», cioè con il protagonista berlusconiano della serie, colui che incarna «il Male». I buoni tradiscono, oppure abbandonano.

Il Male, ecco. Lo incarna Stefano Accorsi (senza interpretare un personaggio reale specifico), pubblicitario di genio che conquista la fiducia prima di Dell’Utri e poi di Berlusconi di cui diventa consigliere fidatissimo, Rasputin, colui che per primo ha l’idea di un partito nuovo guidato da Berlusconi stesso e ha le idee migliori su come lanciarlo, sul modo in cui la politica possa essere piegata alla logica della pubblicità e della vendibilità del partito e del leader come prodotto-merce-capitale-titolo azionario. Accorsi fa una carriera fulminante, incarna il Male, è algido, freddissimo, calcolatore come D’Alema, ma al contrario di D’Alema è anche vitale, fantasioso, affascinante, sa vivere, sa godere di ciò che la vita offre di meglio e che lui riassume nel motto «La gente vuole solo mangiare, fare sesso e arricchirsi», è un tombeur de femme inarrestabile, nessuna può resistere a tanto genio, talento e forza, perché l’eroe del tempo che si apre nel 1992 – il tempo nuovo degli uomini nuovi che vogliono solo desiderare, mangiare, fare sesso e fare soldi – non si rompe mai, non ha mai paura, magari vacilla, sbaglia, cade, sfiora i confini dell’autodistruzione, arriva sul ciglio della fine, ma ce la fa sempre, vince su tutto e tutti, domina sul mondo perché è intriso di mondo e intuisce prima di tutti il mondo che ci sarà, il mondo che sta arrivando e che lui più di tutti ha presente e anticipa. Un profeta. Un profeta satanico che però è sempre onesto nel dichiarare di agire per conto del «diavolo», della riduzione dell’umano a materia desiderante, carnale, concupiscente, egotica. Lo dichiara perfino, ed è il suo manifesto, che pronuncia in quella che dovrebbe essere la cena del suo matrimonio.

L’eroe cade in disgrazia ma riemerge, e alla fine, sancisce l’ultima scena di 1994, vince. È l’unico che resiste fino alla fine. Non è il Male a vincere, ma il vuoto, il nulla che lui rappresenta. Tutto cade, il vuoto e il nulla mai, resistono a tutto.

Nel finale c’è tutta la morale e tutta l’ideologia: non ci può essere altro, nel mondo, che questo nulla, che coincide con il «tutto» della completa assimilazione dell’umano alla natura di infinità vuota del capitale. Il peggior personaggio che potreste immaginare, quello che usa e sfrutta sua figlia e suo padre per raggiungere i suoi obiettivi personali, è l’unico che resiste. Gli altri passano, spariscono, perdono o tradiscono.

Le tre stagioni assomigliano maledettamente al mondo che racconta. Come se l’avesse scritta il suo stesso protagonista. Una finzione di rappresentazione neutrale e distaccata che, proprio grazie a questo schermo, comunica e produce ideologia nichilista, a vantaggio dei vincitori.

Loris Caruso

Ricercatore in sociologia politica alla Scuola Normale Superiore. Si occupa di teoria politica, movimenti sociali e trasformazioni del lavoro.

1/12/2019 jacobinitalia.it

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