Comunità cinese in Italia. Intervista a Jada Bai: li abbattiamo questi stereotipi?

PDf http://www.lavoroesalute.org

Versione interattiva https://www.blog-lavoroesalute.org/lavoro-e-salute-maggio-2021/

Aprile 2021 – Io e Jada Bai ci siamo conosciute a Milano lo scorso agosto e, nonostante il caldo torrido, abbiamo trascorso un piacevole pomeriggio di chiacchiere tra donne. Poi di mezzo ci sono stati i lockdown e gli impegni di entrambe, finchè qualche giorno fa ci siamo ritrovate per questa intervista.
Jada mi diede da subito l’impressione di una donna forte e risoluta, del resto basta leggere il suo curriculum per capire di che pasta è fatta.
Nata in Cina, si trasferisce a Milano da piccolissima con la famiglia. Dopo il diploma al liceo classico si laurea in Scienze della Mediazione Linguistica e Culturale presso l’Università degli Studi di Milano. Negli anni dell’università frequenta un semestre di lingua cinese presso la Fudan University di Shanghai con una borsa di studio. Per diversi anni ha coniugato il suo impegno di mediatrice linguistico-culturale con la docenza di lingua e cultura cinese. Dal 2013 è coordinatrice dei corsi di lingua cinese e organizzatrice di eventi culturali presso la Scuola di Formazione Permanente della Fondazione Italia-Cina.
Le polemiche delle ultime settimane mi hanno fatto sentire l’urgenza di confrontarmi con lei nel tentativo di far chiarezza sugli stereotipi che ancora avvolgono la comunità sinodiscendente e affrontare alcuni temi di attualità.
Agatha Orrico

Jada Bai

Buongiorno Jada. Partiamo dal linguaggio. Lavorando con le parole comprendo quanto sia importante usare i termini giusti, in campo giornalistico anche per una questione di sintesi. So che tu preferisci essere chiamata IBC, acronimo di italian born chinese, un termine che sottolinea la tua doppia appartenenza culturale. Com’è nato questo termine e come mai la scelta dell’inglese?

Buongiorno Agatha. Italian born chinese è nato in un gruppo chiuso di facebook che raccoglie circa 5-6000 persone che si riconoscono in un ideale di persone che si sentono sia italiane che cinesi. É un termine dove io e altri ci siamo subito riconosciuti. Chiaro che se devo scrivere un articolo scientifico non userei questo termine perché non è corretto, opterei per sinoitaliano o sinodiscendente. Non lo so perché è stato scelto l’inglese, forse è più cool (ride). No, in realtà la scelta può essere dovuta ad uno sguardo più internazionale, con le famiglie cinesi della diaspora sparse un po’ in tutto il mondo, all’estero può essere un’espressione equiparabile a “cittadini del mondo”.

Per chi invece è nato in Italia e desidera sottolineare l’origine dei genitori qual è il termine più corretto, sinodiscendente, italocinese…?

Anch’io avevo questi dubbi all’inizio però i professori mi hanno chiarito questa differenza. Accademicamente il termine più corretto sarebbe sinodiscendente, cioè discendenza da una o più persone cinesi. Poi si usa il termine sinoitaliano, dove si evidenzia la parola “italiano”, quindi si intende una persona italiana con una parte cinese. Italocinese invece sta per cinese con una parte italiana.

Con oltre 300.000 abitanti sul territorio la comunità cinese si colloca al terzo posto (dopo quelle marocchina e albanese) per presenze in Italia, residenti perlopiù nelle grandi città. La prima generazione con i suoi negozi e ristoranti dislocati su tutto il territorio ha avuto un ruolo molto importante sull’economia. Ora ci sono le nuove generazioni di imprenditori che stanno ottenendo successo anche in settori diversificati. É difficile per i figli crearsi una propria autonomia lavorativa al di fuori dell’attività commerciale dei propri genitori, allontanandosi dai settori tradizionali? Esiste un conflitto generazionale?

Eh, è una bella domanda! Ed è una domanda legittima, perché se l’obiettivo è quello di raggiungere un certo benessere economico non ci sarebbe bisogno di andare a fare altro con risultati che potrebbero essere deludenti. Sì, è abbastanza difficile per i figli crearsi una propria autonomia
lavorativa perché magari i genitori hanno già delle attività fiorenti, chi un ristorante, chi un negozio.
Ci si pone la domanda, perché andare a fare altro? Alcuni ristoratori di seconda generazione rimangono nell’attività trasformandola, ad esempio c’è chi ha avuto l’idea di puntare alla qualità invece che alla quantità, con il desiderio di portare la cucina cinese a livello di stella Michelin.
Quindi sì, il conflitto esiste, ma è molto nascosto, si cerca di assorbirlo, di non cavalcarlo. Poi va detto che tra le generazioni esistono ruoli diversi: il genitore provvede al benessere del figlio, per contro il figlio deve obbedienza ai genitori. Invece l’obiettivo delle famiglie di seconda generazione è ottenere un avanzamento sociale. Chi è cresciuto in Italia capisce che non si può avanzare socialmente se si rimane ristoratori, quindi si spingono i propri figli a diventare professionisti, manager o altro.

L’anno scorso siamo sprofondati nella pandemia. Inizialmente ci sono state, un po’ in tutto il mondo, delle reazioni scomposte, molto pregiudizio, altre volte casi di vera e propria discriminazione. Nonostante anche la comunità cinese in Europa purtroppo abbia avuto i suoi contagiati e morti, ne ha avuti meno in quanto ha rispettato più rigidamente l’isolamento e il distanziamento. In Italia i sinoitaliani hanno dato un forte contributo nel primo periodo del coronavirus, con raccolte fondi e volontariato per far fronte all’emergenza. A tal proposito consiglio il libro, molto attuale, dal titolo Semi di tè di Lala Hu, che parla proprio di questa spinta. Tu e la tua famiglia come avete vissuto quel periodo?

Io e la mia famiglia in realtà siamo un po’ fuori dalla comunità, nel senso che non abbiamo mai seguìto delle strade prestabilite. Io non sono un’imprenditrice, mi sono laureata e lavoro in una piccola fondazione. Quello che ho vissuto quest’anno credo sia lo stesso che hanno vissuto tutte le famiglie italiane: grande stress, lavoro da casa, case abbastanza piccole con bambini. I miei genitori erano tornati in Cina poco prima del lockdown – dopo 20 anni! – per passare il Capodanno insieme ad amici e parenti rimasti al Paese. A quel punto si sono trovati intrappolati là. Però si sono sentiti al sicuro perché il governo cinese è stato molto chiaro: state in casa, può uscire solo una persona per famiglia, per fare la spesa: insomma, poche regole, chiare e semplici. Quando poi verso marzo la situazione è rientrata avrebbero dovuto tornare in Italia, ma è arrivato il primo lockdown da noi e quindi… in poche parole sono ancora là! Appena le frontiere riapriranno penso torneranno.

Stranamente quella cinese, rispetto alle altre minoranze, è una comunità di cui si parla poco.
Proviamo a smontare un po’ di stereotipi? Il primo è sicuramente quello della comunità chiusa a riccio, che non si amalgama con l’autoctono. Questo sicuramente ormai è superato dalle seconde e terze generazioni, ma lo stereotipo è duro a morire.

Sono d’accordo con te, lo stereotipo è duro a morire. É anche vero che all’inizio la comunità era auto sufficiente: c’erano abbastanza imprenditori, e chi non lo era lavorava nelle attività aperte da parenti o amici. Si viveva negli appartamenti affittati dal padrone del ristorante, si lavorava, si mangiava e si dormiva lì. Per cui è vero che quando un sistema è autosufficiente non hai necessità di avere troppi contatti con l’esterno, se non per le commissioni generali. A me poi fanno ridere alcuni stereotipi che ho sentito in giro, per esempio: i cinesi non vanno mai a fare la benzina. Io mi chiedo da dove sia uscita questa frase, per me è incomprensibile! L’unica cosa che mi viene da pensare è che gli orari di lavoro siano diversi, magari lavorando al ristorante fai benzina a mezzanotte dopo la chiusura? Non lo so, alcune cose mi lasciano davvero allibita, non riesco a
capire da dove traggano origine. Ora che la presenza dei bambini cinesi nelle scuole è aumentata, con le classi multiculturali, spero che questi stereotipi scompariranno e che la loro presenza non verrà più vista come una diversità.

In passato oltre allo stereotipo sui benzinai c’era “i cinesi non muoiono mai”. In tempo di covid invece ho sentito spesso “i cinesi sono andati a farsi vaccinare in Cina”. Quest’ultimo forse più che uno stereotipo può essere una diceria che si è diffusa quando molte famiglie cinesi non hanno mandato i figli a scuola. Chiariamo?

Non lo so (ride), guarda veramente non capisco dove nascano certe dicerie! Forse da una constatazione logica, secondo alcuni: mi immagino un tizio che si alza la mattina e, leggendo sul giornale che in Cina hanno creato un vaccino, non avendo nella sua testa una divisione precisa tra cinesi in Italia e cinesi in Cina pensa che tutti i cinesi andranno a vaccinarsi in Cina. Non credo sia un pensiero nato dalla mancata presenza scolastica. Quella è derivata dalla paura delle famiglie cinesi di far ammalare i figli a scuola, e dato che spesso queste famiglie vivono ancora coi nonni paterni che si prendono cura dei nipoti piccoli, hanno avuto più timore di farli ammalare.

Chiaro. Nelle scorse settimane, a seguito della strage di Atlanta che ha avuto come vittime componenti della comunità asiatica, si è parlato di sinofobia. Credi sia il riflesso della pandemia e di tutte le fake news che sono state divulgate sulla Cina nell’ultimo anno in merito al Covid19 oppure è un sentimento latente che esisteva già?

Penso sia un insieme di queste due cose che hai detto tu. L’errata informazione, le fake news, le dicerie e gli episodi di violenza visti nei vari video lo scorso anno contro le persone asiatiche credo abbiano inasprito un sentimento latente di pregiudizio che magari prima era abbastanza benevolo.
Sai, “i cinesi sono brava gente, bravi lavoratori” (ride), è un altro dei tanti stereotipi attorno agli asiatici. Negli USA la situazione è molto diversa dall’Europa, lì c’è un conflitto tra maggioranze e minoranze che è molto piu aspro che da noi, e anche più consapevole.

Torniamo all’Italia. So che avete inviato una lettera alla casa editrice Giunti in merito ad un testo scolastico che ha stereotipato una ragazzina dalle sembianze asiatiche ironizzando sulla pronuncia e sull’atteggiamento remissivo. In sintesi cosa avete chiesto?

Abbiamo chiesto all’editore di fare uno sforzo per capire le ragioni dell’altro, cioè noi. Per mettergli un dubbio che forse, se tante persone cinesi si sono sentite offese facendo notare che quelle frasi non dovrebbero esserci su un testo educativo, dovrebbe fermarsi e fare una riflessione. Chiedersi: avrò sbagliato? Ecco, questo è in sintesi quello che chiediamo. Come gruppo misto formato da italiani e cinesi che racchiude molte professioni in settori diversi, siamo stati spinti a scrivere una lettera dove, per far capire meglio il concetto, abbiamo fatto l’esempio di un bimbo italiano in una scuola tedesca che viene stereotipato. Una sorta di gioco all’incontrario. Magari non servirà, ma l’intento era di far capire all’editore che quel testo contiene dei pregiudizi latenti, dei bias che purtroppo sembrano innocui, ma innescano nel processo educativo delle conseguenze che potrebbero portare al bullismo. Insomma, un invito a fermarsi a pensare.

Non credi che questa cosa si risolverà non appena ci saranno più insegnanti o editori sinodiscendenti, certamente più attenti alle tematiche di inclusione, più sensibili?

Assolutamente sì, io auspico che ci siano piu insegnanti ed educatori, ma anche più postini, più presenza di facce cinesi nelle varie professioni. Questo perchè lo sguardo di una persona che ha vissuto in una minoranza aiuterebbe la maggioranza su certi bias che uno ha a volte anche inconsciamente. Sarebbe di esempio per i nostri figli, darebbe un messaggio che c’è possibilità di fare altri lavori e fare cose che non avevano immaginato – l’astronauta, l’attore, il cantante… É appena uscita la serie Zero dove ci sono come protagonisti anche personaggi non bianchi che trasmette l’idea a bambini misti, neri, filippini o altro che c’è la possibilità anche per loro di diventare ciò che vogliono, e questo è bellissimo.

Tra l’altro nella serie Zero c’è anche la partecipazione di Elisa Wong, figlia di uno dei personaggi di spicco della comunità sinodiscendente italiana. Sempre per restare in Italia, tutti ricordano l’affaire Dolce e Gabbana, diventato un caso internazionale. Di recente è scoppiata una polemica con Striscia la notizia, i cui conduttori hanno scimmiottato la pronuncia e l’aspetto fisico dei cinesi. Come l’hai vissuta tu, cosa ne pensi?

É una questione complessa. A livello di spettacolo e di televisione purtroppo in Italia c’è poca consapevolezza della società multiculturale nella quale viviamo e di cosa voglia dire sentirsi presi in giro o offesi. Forse è più facile non pensarci e fare le battute che si sono sempre fatte. É comodo
perchè ti permette di non pensare, questo avviene non solo a livello dirigenziale ma in tutta la televisione, dall’autore al presentatore. A un secondo livello quando hanno scimmiottato quella scena alcuni di noi hanno reagito, ma forse mi viene da pensare che non siamo riusciti a spiegare
bene la nostra perplessità. Io personalmente ad esempio ho scritto che non è possibile che nel 2021 succedano ancora queste cose. Probabilmente invece sarebbe stato più giusto chiedere perchè una societa multiculturale come la nostra non viene rispettata, e non avendo questa consapevolezza ci
prende in giro. A noi cosa scatta? L’umiliazione, non per il gesto in sè ma perchè ci ricorda tutte le volte che ci è successo in precedenza. Io mi sono fatta un punto mentale: d’ora in poi dovrò cercare di spiegarlo meglio. Una parte di persone ha commentato “è uno scherzo, il razzismo è un’altra cosa”, forse per una mancata consapevolezza di quali siano gli atteggiamenti razzisti, e quello lo è stato. Non è la persona a essere razzista, è l’atteggiamento, perché ferisce altre persone, che sia una presa in giro o uno schiaffo o un insulto. Ovviamente le conseguenze sono diverse, ma di fondo c’è lo stesso pregiudizio: io non ti rispetto. Ci vorrebbe più dialogo.

In parte hai già risposto alla domanda che stavo per farti, ma te la faccio lo stesso. Specie sui social, che sono diventati ormai un campo di battaglia gli uni contro gli altri, in particolare da alcune minoranze molto attive viene ripetuto quasi ogni giorno che l’Italia è un paese razzista. Lo è?

Come ho detto prima l’Italia è poco consapevole dei pregiudizi alla base e non ci vuole pensare. Forse è sbagliato dire che l’Italia è razzista perché è un’affermazione che arriva dritta al cuore, offende l’altra persona. Dovremmo piuttosto fermarci a dire non sei tu razzista ma quello che fai lo è, dovremmo fermarci a spiegare. Ma sai, le minoranze sono arrabbiate: quando ti senti prendere in giro davanti a 4 milioni di spettatori si perde la pazienza. Denota una mancanza di rispetto, una difficoltà nel venirsi incontro, è come se alla maggioranza facesse più comodo continuare a fare quello che ha sempre fatto.

Sui social di recente alcuni afrodiscendenti che vivono in Occidente, in risposta alla questione Striscia, hanno rispolverato alcuni episodi di razzismo nei confronti dei neri che vivono in Cina. Si è parlato del caso di Canton, dove l’anno scorso alcuni residenti sono stati cacciati dalle loro abitazioni mentre all’entrata di alcuni negozi sono apparse le scritte “divieto d’ingresso per i neri”. E stanno circolando alcuni meme che ritraggono delle trasmissioni televisive cinesi dove si fa ancora il blackface.

In effetti l’anno scorso, quando la Cina era in lockdown, c’è stata la paura dello straniero, sia del nero che del bianco. Ci sono state delle vignette pubblicate on line che dicevano che gli stranieri non rispettano le regole, che arrivano e infettano. Più che un problema di pelle è un problema di potere. In Cina la maggioranza è cinese e loro sono la minoranza. Fan bene gli afrodiscendenti a dire che quello che succede in Europa succede anche in Cina, è come se dicessero “stai attento perchè la paura ti sta inibendo, stai chiudendo gli occhi, ti si sta annebbiando la vista”.

La scrittrice sinoitaliana Bamboo Hirst

Come sai, essendo portavoce di un collettivo femminista, sono molto interessata alla questione femminile. Personalmente ho imparato molto sull’evoluzione della condizione femminile in Cina, che ha fatto moltissimi passi avanti. E l’ho fatto in particolare attraverso la lettura di autrici sinodiscendenti, tra cui la scrittrice Bamboo Hirst. Le sinoitaliane sono ancora condizionate dagli schemi tradizionali patriarcali oppure si sentono ormai libere di realizzarsi in autonomia anche fuori dalla famiglia o al di fuori del matrimonio?

Qua la discussione è complessa! Si ritorna sempre alla questione della consapevolezza. Per essere femminista bisogna conoscere la situazione della società, delle altre donne, bisogna essere consapevoli di quello che sta succedendo. A volte la spinta è rabbia personale verso la condizione di sorelle, o della madre. Questa consapevolezza purtroppo non è molto presente nella comunità. Però vorrei dividere le cose: se per comunità intendiamo la Cina, lì si sta acquisendo più coscienza anche perché le idee circolano. In Cina ogni tot ci sono scandali e spesso ci sono casi di femminicidi che allarmano l’opinione pubblica. In quella comunità dobbiamo tener conto di due elementi che condizionano questa situazione: il primo è che arriviamo dalle campagne, da una società contadina agraria tradizionalista, dove si dovevano fare più maschi per lavorare i campi, mentre le donne una volta sposate entravano nella famiglia del marito. I loro figli erano della famiglia del marito. C’è stato un irrigidimento dei ruoli, ulteriormente inasprito dalle storie di migrazione. Le comunità di un qualsiasi paese che si formano in una terra straniera tendono a congelare le loro tradizioni e la loro cultura per un senso di protezione e per paura verso l’esterno. Questi elementi non aiutano la consapevolezza delle donne sinoitaliane nel vedere la propria condizione e nel chiedersi se vada bene o meno. E non aiuta neanche gli uomini a chiedersi se quella condizione femminile sia giusta.
Mancando questo molte arrivano a 18 anni, cominciano a guardarsi in giro se gli piace qualcuno, si sposano, fanno figli, aprono un’attività…proseguono quel tipo di vita.

E qui mi collego a una questione spinosa: le attiviste del femminismo di diverse discendenze non si fanno remore nel denunciare i soprusi degli italiani autoctoni. Alcune però diventano reticenti quando si tratta del proprio gruppo etnico di riferimento. Quanto maschilismo c’è nella comunità cinese?

Quando la società tradizionalmente si basa su regole maschili c’è maschilismo. In una civiltà come quella cinese c’è una divisione abbastanza netta tra l’uomo, che si occupa dell’esterno, e la donna, che si occupa della casa. Diciamo che in casa in qualche modo la donna ha un ruolo di comando, decide che cucina comprare ecc. Tradizionalmente invece l’uomo dovrebbe procacciare il cibo, guadagnare e comprare quella cucina scelta dalla moglie. Ho notato che per millenni questo tipo di società ha fatto sì che le donne imparassero come influenzare l’uomo, ma ho capito che anche questa necessità è maschilista.

Concludiamo allora quest’intervista prendendo nuovamente a prestito le parole della scrittrice Bamboo Hirst: “Sono esistite sempre, in tutte le epoche, donne che hanno saputo essere protagoniste: non semplici, passivi strumenti di riproduzione, ma soggetti attivi in grado di fare la rivoluzione”. Prendiamolo come un auspicio.

Agatha Orrico

Giornalista freelancer, si occupa di femminismo e temi sociali
Official Web Site: www.stayrockforever.it

Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute

PDf http://www.lavoroesalute.org

Versione interattiva https://www.blog-lavoroesalute.org/lavoro-e-salute-maggio-2021/

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *