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    Blog, Cronache Politiche — Febbraio 4, 2016 9:37 am

    Per la prima volta la globalizzazione dimostra il danno che l’inevitabile processo di mondializzazione ha subito per il mancato contrappeso di una parallela globalizzazione culturale dal basso. Metà della ricchezza è detenuta dall’1% della popolazione mondiale, se il reddito dell’1% dei più ricchi del mondo ammonta a 110.000 miliardi di dollari, destinati a ulteriore incremento e gli 85 super-ricchi posseggono quello che ha metà della popolazione mondiale.

    Concentrazione della ricchezza e “Il diritto all’ozio”

    Pubblicato da franco.cilenti

    L’Oxfam ha pubblicato il RAPPORTO 2015, fornendo all’informazione titoli sempre inquietanti (abbiamo notizie che non vengano trasmesse come ansiogene, anche se poco “spiegate”?). Preoccupa che siano destinati a non essere memorizzati per quello che contengono: per non far diventare alienati anche tutti quelli ” di buona voontà”, bisognerà pure pensare in proprio.

    Non che il rapporto riveli cose sorprendenti: sappiamo tutti che le “élite economiche mondiali agiscono sulle dirigenze politiche per truccare le regole del gioco economico e finendo per erodere il funzionamento delle istituzioni democratiche. E’ uscito alla vigilia del World Economic Forum, luogo che non aniima illusioni eccessive, ma vale la pena di renderci conto che nemmeno a Davos è più possibile far conto di nulla e rinviare preoccupazioni che salgono oltre il livello di guardia. Infatti il contesto globale sta producendo per ciascun abitante della terra l’effetto-specchio e mostra allargate le crepe che mandano in pezzi l’immagine di chi guarda: nuova, dunque, non appare l’ormai estrema disuguaglianza tra ricchi e poveri nel mondo e all’interno dei singoli paesi o l’indebolirsi dei processi democratici dove, bene o male sono affermati. Nuova è l’urgenza di impedire la rovina degli stessi “interessi forti”, o, per meglio dire, di approfittare del cedimento per immettere cunei che, con gradualità e selezionando gli obiettivi, spostino pezzi di strutture. L’evolversi della crisi sta arrivando ad allarmare il potere di governo sull’economia dei singoli paesi, ma – anche e seriamente – la finanza mondiale. Il Pil, che tante volte si è detto bisognoso di riforme, non è detto che cresca.

    Per la prima volta la globalizzazione dimostra il danno che l’inevitabile processo di mondializzazione ha subito per il mancato contrappeso di una parallela globalizzazione culturale dal basso. Trent’anni fa l’esecrazione dell’imperialismo delle multinazionali animava iniziative della sinistra – ricordo l’esempio italiano della Lega Internazionale per i Diritti dei Popoli presieduta da Lelio Basso – che finirono per cedere all’impotenza; di fatto si stava imponendo la globalizzazione: le multinazionali non solo avevano vinto, ma avevano costruito un intreccio con la finanza pulita e sporca, con banche, off-shore, assicurazioni, mafie e delinquenza comunque organizzata. Poteri forti invincibili? Possiamo probabilmente non solo maledirli, ma approfittare, se si presenta, di opportunità offerte da svolte evolutive, quasi boomerang a danno di chi ha guidato i processi per trarne solo profitto. I vecchi, cari principi potrebbero ancora funzionare, quanto meno per dimostrare che – come il degrado ambientale – lo sfruttamento violento dell’ineludibile globalizzazione non così intelligente da saper prevedere i propri limiti.

    I sondaggi Oxfam registrano un allineamento degli indici di povertà – sia dei paesi ricchi e sviluppati, sia di quelli poveri o “in via di sviluppo” – che comporta ovunque con grande evidenza la concentrazione di poteri e privilegi nelle mani di un numero sempre minore di incontrollabili, che manovrano governi senza più sovranità e produzione di norme che li favoriscono internazionalmente.

    Una prova dimostrativa è stato l’inserimento del pareggio in bilancio che l’Italia ha più o meno plebiscitariamente (in soli 6 mesi) introdotto in Costituzione nel 2012 senza che a nessuno sia venuto in mente di opporre la richiesta di un referendum. Non è stata tutta “colpa” di Monti: tutti i paesi europei, magari senza modificare le Costituzioni, hanno adottato la stessa norma, di per sé anodina (non è in sé negativo che i bilanci siano in pareggio), ma non così innocua quando il debito è prassi generalizzata, pur con diversificazioni nazionali. Questo nell’Europa del benessere; nel Sud del mondo la corruzione dei governi viene alimentata senza riguardo per diritti umani e regole democratiche per favorire gli interessi delle multinazionali interessate a evadere il fisco. In entrambi i casi viene via via crescendo il numero degli svantaggiati:  il riaggiustamento del debito nel primo caso tende a sopprimere welfare e diritti acquisiti, nel secondo la povertà si espande e produce anomia e autoritarismi: ovunque la gente subisce perdite di aspettative pensate sempre più favorevoli e di diritti ritenuti perseguibili in progress dalle generazioni giovani.

    Nonostante il 2008 e la crisi americana che non finisce ancora, denuncia Oxfam, la ricchezza e il potere sono sempre più concentrati nelle mani di pochi, mentre il resto dei cittadini del mondo si spartisce le briciole, anche perché un numero sempre maggiore di ricchi (ma anche i ceti medi, mano a mano che negli anni del benessere hanno avuto migliori disponibilità, hanno favorito la generazione successiva) ha provveduto negli anni ad estendere privilegi per i figli e la forbice ha continuato ad allargarsi coinvolgendo la politica dei paesi nella stessa spirale. In sintesi, dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso i ricchi guadagnano di più e pagano meno tasse. Risultato: l’1% delle famiglie possiede il 46% della ricchezza globale, “secondo la regola dell’asso pigliatutto”.  Winnie Byanyima, direttrice di Oxfam International, non dice novità; ma induce a riconoscere che la crisi ha paradossalmente favorito il percorso nefasto della finanziarizzazione dominata da poteri forti che, senza più controlli, ovunque controllano i governi. Le restrizioni a cui siamo inchiodati dopo il 2008 (diverso, ma non meno distruttivo del 1929, che ebbe effetti essenziamente nelmondo occidentale) stanno bruciando risorso di vita umana sotto gli occhi di tutti trasferendo miliardi in frenetici bit su Internet. Le inquietudini dei mercati azionari non cessano di farsi sempre più nevrotiche  e, passo dopo passo, dilagano per l’internazionalizzarsi dei mercati finanziari che risentono della crisi petrolifera, dell’incognita cinese, della più tranquilla risorsa indiana, di eventuali terremoti nell’Unione europea, dei conflitti in corso e dei reltivi spostamenti degli interessi. Non si sa se sia rassicurante o ancor più inquietante, ma per la prima volta sembra che la  speculazione non cerchi di perseguire fini di sempre maggior profitto, ma il contenimento delle perdite. Se già Davos 2014 denunciava come le disparità di reddito, ormai diffuse, mettono in pericolo la stabilità sociale e minacciano la sicurezza su scala globale, Davos 2016 ha concluso con qualche ottimismo di facciata, ma anche con l’ammissione della pericolosità della situazione. Centrale per la sopravvivenza della democrazia è non solo trovare la risposta possibile per dare soluzione a problemi le cui conseguenze andavano in tempi già lontani affrontate tempestivamente e non rinviate, ma garantire con opportuni espedienti (ormai il tricking è prassi) qualche certezza al lavoro in un transizione non rinviabile. Che già Keynes nel 1930 prevedesse una “disoccupazione causata dalla scoperta di strumenti atti a economizzare l’uso di manodopera e dalla contemporanea incapacità di tenerne il passo trovando altri utilizzi per la manodopera in esubero” significa che la quarta rivoluzione industriale (robotica, nanotecnologia, stampanti 3D, biotecnologie) sta già producendo milioni di disoccupati. Il progresso tecnologico non va demonizzato perché è un bene se elimina la fatica; ma non va lasciato nelle mani dei poteri globalizzati, pur prevedendo le difficoltà della transizione ancora poco studiata dagli stessi sindacati in ritardo  e incapaci di razionalizzare future riballioni.

    Christine Lagarde, direttrice generale del Fondo Monetario Internazionale, non ha celato “le due grandi preoccupazioni” europee, ma anche direttamente mondiali, di questo momento: l’eventualità di un ‘Brexit’, collegata all’esito del referendum  che potrebbe portare all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, e la crisi “umanitaria” dei rifugiati, problema reale per l’ostilità ormai diffusa su titti i territori per la crescita esponenziale dei profughi nell’ultimo anno. D’altra parte da sempre  il Nord Europa non si sente come tutti “affacciato sul Mediterraneo” e per paura nessuno ascolta in tempo le previsioni degli antropologici e non sa che tra 20/30 anni la Nigeria avrà più abitanti degli Stati Uniti e che a fine secolo gli etiopi saranno più numerosi degli europei e l’Africa intera supererà i 4 miliardi di abitanti. Se la strada si fa in salita anche per i poteri forti, possiamo prevedere che cercheranno scorciatoie. Non a caso la produzione che in nessun paese soffre di cassa integrazione o di scioperi è l’industria bellica..

    Fare dunque i conti delle disuguaglianze e avventurarsi in proposte di aggiustamenti è giusto, ma se metà della ricchezza è detenuta dall’1% della popolazione mondiale, se il reddito dell’1% dei più ricchi del mondo ammonta a 110.000 miliardi di dollari, destinati a ulteriore incremento e gli 85 super-ricchi posseggono quello che ha metà della popolazione mondiale dobbiamo incominciare a leggere i tarocchi dell’esistente: il sistema sta trasformandosi rapidamente e impone di scegliere vie di modificazioni graduali ripensate insieme urgentemente dal dialogo democratico. I ritardi sono imperdonabili e non ci pentiremo mai abbastanza di aver proceduto per decenni nel piccolo cabotaggio di una sopravvivenza disuguale e complice. Oggi il piccolo cabotaggio deve diventare scelta da parte di armatori, di piloti e di equipaggi che mirano a salvarsi dagli tsunami.

    Per caso mi è tornato tra le mani “Il diritto all’ozio” di Paul Lafargue, uno che nel 1880 rifiutava – perché speculare al diritto al potere della borghesia – il diritto al lavoro dei proletari, di stampo rivoluzionario e comunardo. il “macchinismo” del tempo lasciava già prevedere che il lavoro potesse (e dovesse) limitarsi a poche ore contro gli indirizzi del capitalismo inesorabilmente orientato a sfruttare l’operaio sottraendogli l’uso libero del tempo. Se per il sistema bastano tre ore di lavoro al giorno, l’otium degli antichi romani è la misura del vivere bene umano: il lavoro a giornata è solo follia. Paradossi? non tanto, come commentano molti critici. Oggi c’è da essere contenti che la Costituzione italiana sia fondata sul lavoro, ma nessuno si domanda se la dignità promana dal lavoro e non, invece, se è l’umano che dà dignità al lavoro. Le tecnologie dell’inizio del secolo scorso anticipavano la rivoluzione industriale e l’otilizzo di nuove possibilità produttive. Cent’anni dopo sappiamo che il lavoro è radicalmente trasformato e non sarà mai più quello di un tempo. Sappiamo anche che i robot, le stampanti di terza generazione e l’intelligenza artificiale dimezzeranno in breve tempo i posti di lavoro. Se le mutazioni sono già avvenute e le rivoluzioni non le fanno più gli umani, ma le macchine, non si possono evitare i negoziati con un sistema in difficoltà, ma non per accettare ricatti e farlo ricompattare sulla pretesa di dominio immutato: i cambiamenti sono già antropologici e la vita si sta evolvendo su nuovi parametri. La locomotiva di questa finanza e questa economia è vecchia e va rottamata: i poteri forti la presidiano, ma la storia, se non si abbandona ogni logica, vuole abbandonare i vecchi binari.

    Il futuro, comunque, sarà, nel bene o bel male, globale. Se viviamo in un sistema di produzione di merci che ha mercificato anche i corpi e se la necessità di nuova formazione per nuovi mestieri e nuove professioni per esigenze umane diverse da quelle attuali non salverà più tutti i lavoratori, forse è tempo di capire che il cambiamento è già radicale e impone il riconoscimento della vetustà del sistema.  Se, l’abbiamo detto e ripetuto, le macchine producono le macchine e dai computer escono oggetti e suppellettile a piacere, occore riconoscere che, per quante invenzioni tiriamo fuori dalla fantasia, non è più l’operaio l’elemento necessario nella fabbrica. Resta vero che per qualunque produzione ci vuole il capitale, ci vuole il padrone: ma sono storicamente vecchi anche gli standard tradizionali, se costretti a produrre miseria, discriminazioni e inciviltà. Occorre incominciare a spostare il sistema riorientando gli stessi bisogni umani.Non voglio essere patetica e riesumare i “bisogni ricchi” del Marx giovane che affascinavano il Sessantotto.  Ma la crisi sta mordendo proprio ciò che può essere una via: la scuola, la sanità, tutti i servizi che i bisogni sociali ci dicono in crescita. Vale la pena di pensarci, anche perché il denaro si stampa comunque allo stesso modo e allo stesso modo può dare lavoro e profitto. Solo che occorre ripensare i fini. E una nuova finalità potrà essere produrre non merci,  che sono oggetti, ma benessere per i soggetti umani.

    Giancarla Codrignani

    3/2/2016 www.inchiestaonline.it

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