Confindustria: finanziare i profitti e tagliare i diritti

Confindustria: finanziare i profitti e tagliare i diritti

Quando gli industriali si riuniscono in assise è per dettare l’agenda ad un ceto politico che appare sempre più ricoprire il ruolo di utile idiota dei centri di potere economici. L’Assise Generali 2018 che si è tenuta lo scorso 16 febbraio, a Verona, non ha fatto, ovviamente, eccezione.

In conformità alle intenzioni degli industriali, in quell’assise non ci sono stati politici, perché “Essendo a pochi giorni dal voto sarebbe diventato un luogo di campagna elettorale”, aveva anticipato il presidente diConfindustria, Boccia. D’altronde, la loro presenza non era necessaria: il messaggio degli industriali arriva, comunque, sempre forte e chiaro. Ed in realtà non è che si sia detto granché di nuovo. Tutto è stato già detto e Confindustria da tempo ha dato indicazioni alla politica. Anche le interviste sui maggiori quotidiani nazionali nei giorni precedenti l’Assise 2018 avevano confermato le proposte che gli industriali italiani vanno ripetendo da tempo e che in qualche modo sono già accolte nei programmi politici. Da Calenda – non candidato, ma pur sempre autorevole e ascoltato quando interviene per lanciare punti programmatici – che aveva formulato il suoprogramma insieme al segretario Fim Cisl, Bentivogli, al centrosinistra ed al centrodestra che, tanto per fare un esempio, accolgono nel loro programma una semplificazione del fisco che avvantaggia i redditi maggiori, le richieste di Confindustria sono già diventate punti di programma.

Ma, si diceva, nei giorni precedenti l’Assise generali il presidente dell’associazione degli industriali, Boccia e la direttrice generale, Marcella Panucci, avevano confermato la linea che gli industriali chiedono alla politica. Il tutto si può ridurre in poche parole: promuovere larghe intese che hanno permesso riforme come quelleFornero su lavoro e pensioni ed il Jobs Act, riduzione della pressione fiscale sulla linea di indirizzo della flat tax o comunque una sua semplificazione e riduzione del debito pubblico. Questi sono i punti, secondo gli industriali, che porterebbero benefici all’Italia, detta così, in maniera neutra. Come non esistessero differenze tra lavoratori e industriali, tra un precario ed un Marchionne, tra un esodato ed un percettore di una pensione d’oro. Ed il problema sta proprio qua, perché se consideriamo le differenze sociali che possono essere nascoste solo se si è in malafede, le richieste industriali non potranno che tradursi in un aggravamento delledisuguaglianze che già oggi gettano nella povertà milioni di persone.

Le riforme del lavoro e quelle pensionistiche hanno reso precari masse sempre crescenti di lavoratori, che non possono contare su un reddito certo, comunque sempre più basso e senza prospettive per la pensione. Mentre lo stato sociale è minato alle fondamenta, in parte distrutto a favore della sua privatizzazione, che procederà ancora più velocemente riducendo ancora la progressività fiscale, i poveri si troverebbero, quando potranno permetterselo, a dover pagare un sistema di welfare che farebbe la fortuna dei privati e niente restituirebbe in termini di protezione sociale. Le conseguenze di politiche antipopolari che gli industriali, tentando di determinare l’agenda politica, vorrebbero rendere ancora più incisive, sono già evidenti nella distribuzione della ricchezza, tanto che l’Asvis, Agenzia Italiana Sviluppo Sostenibile segnala che “Il divario fra il reddito disponibile equivalente ricevuto dal 20% della popolazione con più alto reddito (quintile più ricco) e quello del 20% con più basso reddito (quintile più povero) è, in Italia, molto elevato ed è aumentato nell’ultimo decennio”. Queste ineguaglianze si manifestano anche in settori delicati come la sanità pubblica e riguardanti, perciò, il diritto alla salute.

L’ultimo rapporto dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane ha mostrato come i divari di salute sono legati anche allo status sociale. Ad esempio, l’obesità, determinata anche dalla difficoltà ad alimentarsi correttamente, interessa il 14,5% delle persone con titolo di studio basso e solo il 6% dei più istruiti. Così, anche la speranza di vita di chi si trova tra le classi sociali più vulnerabili è molto minore rispetto a chi vive tra le classi benestanti: tra gli uomini può sperare di vivere 77 anni chi ha un livello di istruzione basso e 82 anni chi possiede almeno una laurea. Ad influire, ovviamente, ci sono la fatica del lavoro e le minori possibilità di cura per i soggetti più deboli. Così che anche l’aumento dell’età pensionabile, sempre auspicato dagli industriali, tanto da chiedere in ogni occasione il mantenimento della riforma Fornero delle pensioni, si prefigura – per usare le parole di Luciano Gallino in La lotta di classe dopo la lotta di classe – “una inaccettabile redistribuzione di risorse a scapito delle persone che arrivano alla pensione da carriere di lavoro subordinato con basso reddito e modesta posizione sociale, risorse che vengono riversate sui gruppi sociali più avvantaggiati”.

Nonostante lo scenario di aumento delle condizioni di precarietà, disoccupazione, tagli allo stato sociale checonducono un numero crescente di persone in condizioni di così grave povertà da rinunciare alle cure mediche, il debito pubblico rimane un’ossessione per Confindustria e per quei politici suoi portatori d’acqua. Eppure – tanto per rimanere al diritto alla salute, non fosse altro che per le gravi conseguenze che ha sulla vita delle persone – il già citato rapporto dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane evidenzia come i vincoli di finanza pubblica, sbandierati continuamente come necessità prioritarie ed elementi rispetto ai quali rendere compatibili l’assistenza sanitaria, incidono direttamente sul diritto alla salute, praticamente negato per le persone socialmente più deboli. Bisognerebbe perciò considerare che ogni volta che una prestazione sanitaria viene subordinata ad un vincolo di bilancio, si sta attentando alla salute di chi già soffre una condizione sociale vulnerabile. Perciò, ogni prestazione vincolata alle necessità di bilancio, ogni taglio alla sanità per raggiungere pareggi di bilancio, dovrebbe essere considerato un atto politicamente criminale.

Ma in barba a questa condizione di estrema sofferenza per tanta parte di chi vive in Italia, da Confindustria arriva la proposta di mantenere le riforme che hanno indebolito le condizioni di chi, non può vivere godendo di patrimoni, deve lavorare. Una posizione, come ovvio, non isolata in Europa, tanto che, secondo un’indagine condotta dalla Banca centrale europea, l’80% delle imprese sostiene la necessità prioritaria di ulteriori riforme che incrementino l’intensificazione della precarietà, che rendano l’orario di lavoro più flessibile, permettano un uso più libero dei contratti a tempo determinato ed indirizzino la legislazione verso minori protezioni dell’occupazione. Insomma, la flessibilità non basta mai. E nemmeno i finanziamenti pubblici, così malvisti quando si tratta di indirizzarli verso la spesa sociale, ma mai sdegnati quando si tratta di drenarli verso le imprese.

E infatti, Confindustria intende puntare su investimenti per un totale di 250 miliardi di euro, rispetto ai quali il settore privato dovrebbe contribuire al massimo con 38 miliardi, cioè poco più del 15%. Ed i restanti 212 miliardi? Semplice: dall’Europa che dovrebbe liberare risorse per investire in infrastrutture, ricerca e innovazione, formazione e – manco a dirlo – attraverso azioni sul bilancio pubblico, che dovrebbe, per questa via, contribuire fino a 120 miliardi di euro al piano di Confindustria, che invece invoca sempre tagli quando si tratta di sanità, stato sociale, servizi di pubblica utilità. Certo, sarebbe interessante sentire spiegare da Boccia come si fa ad aumentare gli investimenti, quindi incrementare la produttività, mantenere gli attuali livelli di sfruttamento (vista la volontà di mantenere le riforme sul lavoro e sulle pensioni) anziché puntare sulla riduzione del tempo di lavoro e contemporaneamente aumentare il tasso di occupazione. E non finisce qui, perché mentre – secondo i desiderata padronali – il pubblico dovrebbe finanziare un sistema privato orientato ad incrementare i profitti (in questi casi la spesa pubblica pare piaccia molto agli industriali) e che nel frattempo estende ed intensifica le condizioni di disagio sociale per una massa crescente di persone, gli industriali potranno dedicarsi alla “crescita delle imprese italiane sui mercati del continente africano, contribuire alla crescita del settore privato in Africa in collaborazione con i governi locali, realizzare programmi formativi per preparare gli immigrati a lavorare in Italia”, nonché a “stimolare l’ingresso di lavoratori e ricercatori stranieri altamente qualificati in Italia, attraverso una riduzione della base imponibile IRPEF al pari della misura oggi già prevista per il ‘rientro dei cervelli’ italiani, rendendo così competitivo il salario italiano rispetto a quanto offre il mercato internazionale”. Gli industriali potranno, cioè, dedicarsi più serenamente ad un programma neocoloniale, con prevedibili conseguenze per i lavoratori africani e per quelli nel nostro Paese con la previsione di riduzione del costo del lavoro altamente qualificato.

Ora, da qui dovrebbe essere abbastanza chiaro come anche la contrapposizione tra italiani e stranieri, sulla quale il populismo xenofobo, reazionario e neofascista sguazza, sia in realtà tra gli strumenti che il capitalismo sta usando per uscire dalla sua crisi, il cui prezzo, però, è pagato dalle classi popolari senza distinzioni di provenienza o genere. E neppure di età, nonostante Confindustria continui a punzecchiare sulla contrapposizione generazionale, ad esempio quando afferma, sempre nel rapporto dell’Assise, che “In una fase dove c’è chi invoca più pensioni e chi più spesa pubblica, noi vogliamo parlare di giovani e lavoro, crescita, riduzione del debito pubblico”.

E allora, quale Italia beneficerebbe di queste misure? Non certo quella formata dalla stragrande maggioranza dei suoi abitanti; non certo chi appartiene alle classi popolari, che se sono sulla stessa barca degli industriali, è solo per farli remare sulle galere dei ceti privilegiati.

Ma vedrete quanti soggetti politici che si mostrano in competizione fingendo idee di società alternative, faranno a gara nel farsi portatori delle istanze degli industriali, mentre abbiamo bisogno di chi ha il coraggio di vivere “per camminare sulla testa dei re“.

Carmine Tomeo

24/02/2018 www.lacittafutura.it

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