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Sulla pagina FB Contro Ogni Autonomia Differenziata trovate le tre pagine della newsletter del 26 maggio 2023

Audizioni informali sui ddl 615 e connessi (attuazione dell’autonomia differenziata nelle regioni a statuto ordinario) – Intervento di Marina Boscaino per i Comitati NO AD 23 maggio 2023

I comitati per il Ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della
Repubblica, l’uguaglianza dei diritti hanno iniziato il proprio
lavoro di contrasto al processo di autonomia differenziata
nell’ottobre del 2018, come ‘tavolo scuola’, quando – nonostante la
scarsità di notizie relative al tema – ci sembrò che fosse in atto un
pericoloso attacco alla scuola della Repubblica, spina dorsale del
Paese, strumento di determinazione dell’unità e dell’identità
culturale della nazione e del popolo italiani.
Ben presto, nel giugno del 2019, ci siamo resi conto che l’attacco
riguardava potenzialmente ben 22 materie ulteriori, alcune delle
quali altrettanto pericolose (sanità, ambiente, tutela del territorio e
dei beni culturali, sicurezza sul lavoro, infrastrutture,
alimentazione, energia, rapporti con l’UE, solo per citarne alcune).
I Comitati in tutti questi anni hanno studiato, informato, mobilitato
e sono stati promotori di un Tavolo contro l’autonomia
differenziata che raccoglie oggi decine di associazioni, gruppi,
comitati, sindacati di base, la Flc-Cgil, ecc.


Il nostro giudizio sulla riforma del Titolo V del 2001 si basa su
alcuni pronunciamenti autorevoli: quello del prof. Gianni Ferrara,
ad esempio, che la definì “un manifesto di insipienza giuridica e
politica” e – da ultimo – quello del prof. Gian Maria Flick, che ha
parlato di “riforma frettolosa e disorganica, destinata ad aumentare
le diseguaglianze nel Paese”. Ė per questo che, nel corso della
nostra ormai quinquennale attività, abbiamo insistito – quale
provvedimento di emergenza, ferma restando la nostra critica
radicale a tutto l’impianto della riforma del 2001 – sulla necessità
della cancellazione del c. 3 dell’art. 116 Cost., che comporterebbe
l’impossibilità per le regioni a statuto ordinario di accedere alla
potestà legislativa esclusiva fino a 23 materie, previste nei c. 2 e 3
dell’art. 117 Cost.


L’autonomia differenziata provocherebbe una drammatica
frammentazione non solo territoriale, in cui la centralità della
persona umana – una premessa e una promessa della Carta dense di
significati e di un dialogo imprescindibile con la partecipazione,
con la rappresentanza e con la funzione delle formazioni sociali
– si trasformerebbe definitivamente nel suo contrario: la
competitività tra le persone, che richiama l’hobbesiano homo
homini lupus. L’autonomia regionale differenziata cavalca questa
deriva, la promuove e la asseconda nello stesso tempo. Dal ‘prima
gli italiani’ al ‘prima i veneti, i lombardi e gli emiliano-romagnoli’
il passo è stato brevissimo. Ormai è una corsa ad ‘essere primi’, una
lotta generalizzata di tutti contro tutti. Si prenda il caso delle regioni
a Statuto speciale: il testo del ddl 615 prevede addirittura la
possibilità per le regioni a statuto speciale e le province autonome
di accedere a “Ulteriori forme e condizioni particolari di
autonomia”.
L’aspirazione principale è quella di sfrondare orpelli ed ostacoli
inutili per procedere il più liberamente possibile nella corsa verso
un primato, il primato: quello del profitto sui bisogni delle persone
(si pensi, ma non è che un esempio, alle dichiarazioni di ieri di
Gianni Mion, braccio destro della famiglia Benetton, relativamente
al crollo del ponte Morandi); quello della conduzione solitaria di
processi di cambiamento che investono la vita di donne e uomini,
annullando qualsiasi spazio di discussione e di confronto; quello del
privilegio del più ricco, a dispetto delle diseguaglianze che si
moltiplicano nel Paese; quello dell’uomo solo al comando, il
cosiddetto “Governatore” della Regione, in modo che sempre più si
limitino conoscenza, accesso, spazi di democrazia.


Riteniamo i primi 12 artt. i fondamenti e i principi della
Costituzione, e tra questi l’art. 5, che afferma il principio del
regionalismo cooperativo e la sussidiarietà verticale, ma non
orizzontale, prevista dall’art. 118 Cost., che ha aperto la strada alle
privatizzazioni e al taglio delle spese per la Pubblica
Amministrazione, di cui tutti noi paghiamo le inefficienze a causa
della carenza di personale e della mancanza di competenze. Da un
regionalismo senza modello si passerebbe a un regionalismo
impazzito, dove le Regioni speciali, che lamentano l’arretramento
subito a seguito della riforma del Titolo V, si affiancherebbero a
Regioni ordinarie di “tipo a” e Regioni ordinarie differenziate di
“tipo b”, a loro volta differenziate tra loro, mentre l’assenza di una
istituzione rappresentativa di raccordo al centro di questo dedalo di
competenze differenziate, che già tante volte è stata lamentata dal
2001 in poi, diverrebbe a questo punto un elemento di ulteriore
frammentazione dell’assetto istituzionale.
L’autonomia differenziata è una questione italiana, soprattutto delle
fasce più deboli del popolo italiano. Pensiamo che essa colpirà,
senza distinzione, le cittadine e i cittadini meno abbienti, con
minore capacità economica di ogni parte del Paese, ovunque
risiedano, dal momento che essa sottende – come ad esempio
dimostrano perfettamente i sistemi sanitari lombardo e laziale,
privatizzati per il 50%dal 2001 ad oggi- la ricerca di profitto e
dunque la privatizzazione, che escluderà proprio i più bisognosi
dall’esigibilità dei diritti universali.
Così come, prevedendo l’affiancamento al contratto collettivo
nazionale di contratti regionali – e dunque parti diverse tra eguali –
l’autonomia differenziata costituisce un attacco alle conquiste e ai
diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.
Il primo comma dell’art 33 della Costituzione – “l’arte e la scienza
sono libere e libero ne è l’insegnamento”, un principio-guida per
costruire l’interesse generale – sarà definitivamente cancellato nella
pratica da 20 uffici scolastici regionali, che recluteranno il
personale e ne pianificheranno la formazione. Ingerendo sul
processo di valutazione; sui percorsi di PCTO; su come, perché e
cosa si debba insegnare – dando addirittura la prevalenza allo studio
della storia e della lingua della propria Regione- contravvenendo
così anche al secondo comma dell’art. 33: “La Repubblica detta le
norme generali sull’istruzione”.
E ancora, gli USR si occuperanno della parificazione degli istituti
scolastici, con buona pace del principio di laicità e gratuità e del c.
1 dell’art. 34: “La scuola è aperta a tutti”.


Non possiamo altresì ignorare che la situazione del Paese registri
squilibri tali che già denunciano il mancato rispetto delle
disposizioni degli artt. 2 e 3 della Carta. Oggi un bambino nato nel
2021 in provincia di Bolzano ha un’aspettativa di vita in buona
salute di 67,2 anni. Mentre uno nato in Calabria di 54,2 anni. Un
gap di ben 12 anni. E tra le bambine del sud il divario aumenta
ancora di più, con una differenza di 15 anni, secondo quanto
rilevato dalla XIII edizione dell’Atlante dell’Infanzia (a rischio)
2022, dal titolo “Come stai?” di Save the Children.
Lino Patruno, commentando i dati Istat di gennaio, scrisse: “Se sei
un bambino di Crotone corri un rischio doppio di morire nel primo
anno di vita rispetto a uno di Pavia. Se sei un vecchio di Potenza
non puoi essere curato come uno di Padova e muori tre anni prima.
Se sei di Alessandria hai l’assistenza domiciliare e a Campobasso
no. Se vai a scuola a Caserta hai un insegnante ogni venti alunni e
a Modena uno ogni dieci. Se sei l’università di Foggia ti danno
meno fondi di quella di Bologna. Se sei un lavoratore di Cosenza ti
pagano meno di uno di Verona. Se stai a Torino hai un treno ad
alta velocità ogni venti minuti con Milano e fra Bari e Napoli
nessuno”.
Dati Svimez ci informano, poi, che un bambino o una bambina del
Sud usufruisce di un anno in meno di scuola rispetto ad uno/a
residente in regioni diverse.


Pensiamo che parte della responsabilità di tale situazione sia stata
della riforma del Titolo V che ha fornito, proprio a causa
dell’incoerenza con quei principi fondamentali, un surplus di
impegno a carico della Corte Costituzionale per risolvere i
contenziosi.
La determinazione dei Lep, livelli ESSENZIALI delle prestazioni,
diventa oggi – nella ratio sottesa al ddl 615 e dopo ben 22 anni di
inattività rispetto a quanto disposto a tal proposito nel c. 2 dell’art.
117, ovvero che si tratti di una potestà legislativa esclusiva dello
Stato – una risposta frettolosa e assolutamente inadeguata, dato che
si prevede l’invarianza delle risorse, per cui questi livelli non
potranno neppure essere “essenziali”, ma solo “MINIMI”, al di
sopra dei quali potranno ergersi solo le Regioni più ricche.Questo
per noi – ma dovrebbe esserlo anche per voi che rappresentate tutte
e tuttile cittadine e i cittadini – è inaccettabile. Inaccettabile per
diversi motivi: primo tra tutti, “essenziali” è una definizione
sottoposta all’arbitrio di chi la interpreta: chi decide cosa è
essenziale? E ancora: tra il determinare in tal modo i Lep (che
peraltro non vuol dire renderli concretamente operativi) e la
istituzionalizzazione delle diseguaglianze esistenti il passo è
brevissimo. Per noi i livelli essenziali delle prestazioni devono
corrispondere a livelli UNIFORMI, uguali per tutti, come previsto
dal c. 2 dell’art. 3, nel senso che tutti debbono poter fruire di quanto
loro necessita per garantire il pieno sviluppo della loro persona
umana. Detto altrimenti, per garantire l’eguaglianza delle persone
occorrono azioni positive differenziate che tengano conto della
diversità degli individui, in quanto, è ciò che sostiene il prof. Luigi
Ferrajoli, ‘siamo uguali come persone ma diversi come individui’.
Per questo anche il concetto dei LEP va interpretato sempre alla
luce del’art. 3, 2 comma, della Costituzione.


La questione meridionale – ancora straordinariamente attuale – per
anni è stata disconosciuta, al punto che la parola Mezzogiorno è
stata cancellata dalla Costituzione (compariva nel c. 3 dell’art. 119
prima della Rif Tit V). Il Sud peninsulare (considerando i recenti
provvedimenti sull’insularità in Costituzione) non viene più
nominato in Costituzione. Per questo ai Comitati è parsa
incomprensibile la scelta fatta dal Parlamento della XVIII
Legislatura di reintrodurre in Costituzione il riferimento alle Isole,
già contenuto nel testo del 1948, lasciando solo il Sud peninsulare
senza ‘copertura costituzionale’, una dimenticanza che andrebbe
sanata e che, ci auguriamo, questo Parlamento voglia sanare
ripristinando integralmente il testo del 1948. Questo così recitava:
‘Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per
valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per legge a
singole Regioni contributi speciali’. Questo comma dell’articolo
119 della Carta del 1948 esprime in modo compiuto il regionalismo
cooperativo che i Comitati propugnano. Infatti lo Stato deve farsi
carico di eventuali ‘scopi particolari’ di ogni Regione, senza
dimenticare che il Mezzogiorno e le Isole hanno necessità per
un’intera fase storica di essere sostenuti non con l’assistenzialismo,
ma con interventi mirati a valorizzare le loro risorse naturali e le
loro energie sociali.
Se il ddl 615 dovesse mai giungere all’approvazione, le donne – dai
servizi sociali, agli asili nido – saranno le sue prime vittime, dato
che esso è un vero e proprio sovvertimento dell’uguaglianza dei
diritti, mai peraltro realizzata a causa della mancata attuazione della
stessa Carta.
Il ministro Salvini parla della prima pietra del ponte sullo Stretto;
ma forse non ha mai fatto un viaggio in treno per raggiungere
Reggio Calabria e persino Bari.
E, a proposito di “viaggi della speranza” – quelli che molte cittadine
e cittadini del Sud (sempre che possano permetterselo…) sono
costretti a fare per curarsi al Nord – richiamiamo alcuni dati: la
regione Calabria devolve 77 milioni annui agli ospedali
convenzionati accreditati privati della Lombardia: un diritto
riservato solo a coloro che hanno la possibilità di esercitarlo. Negli
ultimi 10 anni le Regioni meridionali hanno versato 14 miliardi a
poche regioni settentrionali. Non solo. Diversi medici di grandi
ospedali del Nord si recano al Sud presso ambulatori privati e qui
visitano e arruolano pazienti che vengono poi operati nelle regioni
del Nord, soprattutto Lombardia, Veneto, Emilia.
Il ministro Calderoli afferma che il finanziamento delle autonomie
differenziate avverrà attraverso la compartecipazione al gettito di
uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale.
Consideriamo anche solo l’Irpef, per vedere quali sarebbero le
conseguenze: poichéil 40% di questo gettito deriva da Veneto (41,2
miliardi), Lombardia (106,3 miliardi) ed Emilia Romagna (43
miliardi), ciò significherebbe che 190,5 miliardi uscirebbero dal
bilancio dello Stato nazionale per entrare in quello di queste sole tre
regioni. Il doppio all’opposto di quello che invece sarebbe
necessario, visto che lo Svimez indica la necessità di almeno 100
miliardi annui per perequare le attuali differenze tra Sud e Nord.
Dunque, nessuna perequazione sarà possibile; al contrario
aumenterà a dismisura la sperequazione.
L’affossamento definitivo del Sud provocherà delle inevitabili
ripercussioni sul Nord, naturalmente ai danni dei soggetti più
deboli, cui verrà progressivamente erosa l’esigibilità di diritti
universali, come la salute e l’istruzione, ma non solo. E la
frammentazione del Paese moltiplicherà particolarismi che si
riverbereranno anche nelle regioni del Nord, in un pericolosissimo
conflitto tra chi è più avvantaggiato e chi è meno avvantaggiato.
Di fronte ai drammatici mutamenti climatici, con le conseguenze
devastanti della siccità e delle alluvioni, si può pensare di ‘far da
soli’ per sanare i danni e intraprendere finalmente una politica di
recupero e messa in sicurezza del territorio, consapevoli che fiumi
e torrenti non conoscono i confini regionali? Si pensa di poter
attuare la transizione energetica attraverso la differenziazione tra i
territori o integrandoli in una rete che poggi sulle fonti rinnovabili,
attivabili soprattutto nel Mezzogiorno, o si pensa di imporre alle
regioni meridionali solo nuove servitù con i gasdotti? Si pensa di
potere contrastare le epidemie, come il COVID, frammentando le
capacità operative del sistema sanitario, oppure occorre ricostruire
un sistema della sanità e della prevenzione pubblici a livello
nazionale, con competenze decentrate ma integrate tra loro? A
questi interrogativi il ddl 615 non dà risposte, e non può darle
perché si muove in direzione opposta, per questo speriamo che non
venga approvato dal Parlamento, per costruire invece un sistema
istituzionale fondato sulla cooperazione tra i diversi livelli di
governo e sulla solidarietà tra i diversi territori e tra le persone che
li abitano.


Ė inaccettabile anche il fatto che questa, che si annuncia come una
gigantesca (contro)riforma dello stato sociale del Paese, venga
attuata da una “cabina di regia” di nomina governativa (ad onta di
quanto previsto nel c. 2 dell’art. 117 della Costituzione),
espropriando totalmente il Parlamento delle sue prerogative.
Infine un simile provvedimento dovrebbe, in un Paese che voglia
dirsi democratico e considerate le peculiarità del territorio, essere
frutto di una approfondita consultazione con Comuni, associazioni,
sindacati; mentre il ddl 615 e la legge di Bilancio (l. 197/2022)
prevedono una concentrazione di tutto il potere decisionale nelle
mani del presidente del Consiglio, che – attraverso lo strumento del
DPCM – configurerà non solo un vero vulnus ai danni della
rappresentanza politica parlamentare, ma anche alle esigenze reali
e concrete dei cittadini e dei territori.


Ringraziamo per averci dato in questa sede la possibilità di
esprimere le nostre ragioni, nella speranza che possano apportare
riflessioni, dubbi, ripensamenti rispetto ad un progetto di divisione
della Repubblica e di frantumazione dei diritti dei suoi cittadini,
differenziati sulla base del loro certificato di residenza.

Marina Boscaino

26/5/2023 https://perilritirodiqualunqueautonomiadifferenziata.

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