Coronavirus, chi pensa ai bambini?

Confinati in casa per necessità, nell’epoca del metro di distanza genitori e figli sono alle prese con paure e  piccole e grandi difficoltà. La tutela della salute pubblica resta prioritaria per tutti, tuttavia famiglie, professionisti e associazioni chiedono maggiore attenzione nei confronti di chi ha bisogni specifici. Un esempio: garantire a bambini e ragazzi di stare all’aria aperta, per un tempo anche molto breve, sotto tutela e nel rispetto di ogni cautela. È davvero così necessario? Lo è. Perché altrimenti, a tempesta passata, toccherà fare i conti anche con i costi pedagogici di una situazione che per alcuni è troppo pesante. Ne è convinto Raffaele Mantegazza, docente di Scienze umane e pedagogiche presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università di Milano-Bicocca, per il quale “uscirne” significa resistere, ripartire, reinventarsi e ricostruire. Ricostruire le relazioni, ad esempio quelle che danno senso alla scuola vissuta come ambiente di vita significativo, alla quale i ragazzi abbiano davvero voglia di fare ritorno. Ricostruire i rapporti interpersonali, contando su nuove consapevolezze, imparando a gestire fragilità e paura, perché faranno sempre parte di noi.

Professore Mantegazza come stanno i bambini, in questo momento?

Da genitore vedo che i bambini e i ragazzini stanno affrontando questa condizione con grande maturità e senso di responsabilità. Hanno capito che stanno facendo un sacrificio, per loro enorme. La situazione attuale ha messo in atto un’inversione del rapporto pedagogico, perché chiediamo ai ragazzi – giustamente – di stare in casa per “salvare la vita ai loro nonni”, per prendersi cura degli anziani. Che è una cosa molto bella, ma che li responsabilizza tanto. Credo sia giusto che recuperino momenti di spensieratezza, divertimento. Cioè, non vorrei che questa condizione diventasse per loro troppo pesante sul piano psicologico. Che questa cosa andasse a scapito dell’infanzia come stato d’animo. Probabilmente è arrivato il momento di fare un passaggio ulteriore.

Raffaele Mantegazza, docente di Scienze umane e pedagogiche dell'Università di Milano-Bicocca
Raffaele Mantegazza, docente di Scienze umane e pedagogiche dell’Università di Milano-Bicocca

Sappiamo che esperienze e relazioni aiutano a crescere, ma, in questa situazione per bambini e ragazzi sono venute meno molte risorse. È così? E cosa comporta?

Le faccio un esempio. Mio figlio ha 13 anni e aveva appena iniziato a uscire da solo con gli amici. Esperienza che adesso è stata sospesa e resterà bloccata per un po’. E questo nella fase in cui anche io come genitore dovevo imparare a gestire il momento, le piccole ansie per il ritardo eccetera. Ora, per recuperare ci vorrà del tempo e anche per lui non sarà facile. Dal canto nostro, dovremmo accettare di essere un po’ meno rigidi in questo momento, tollerare anche un po’ la disubbidienza, il fatto che ogni tanto si scatenino, corrano per casa, magari romperanno un bicchiere in più: pazientiamo. Del resto, cosa devono fare? Non si può pretendere che siano dei soldatini. Stiamo e stanno vivendo un momento storico e l’effetto di quello che vivono oggi bisognerà monitorarlo, perché poi dovranno tornare a uscire, a fidarsi del fatto di stare con altri bambini, altri ragazzi.

Viviamo tutti anche la dimensione normativa di questa situazione. Siamo costretti a sottostare a nuove regole, sappiamo – e lo sanno anche bambini e ragazzi – che le forze dell’ordine controllano, gli assembramenti sono vietati etc. Non c’è il rischio che i piccoli percepiscano questa condizione come un castigo? Come se ne avessero colpa?

Il rischio c’è e non solo a livello dei bambini. Vorrei che fosse chiaro a tutti che va anche bene in questo momento che si entri nella gestione delle nostre vite private, ma una volta passato il virus questo tipo di intervento deve sparire. Sono sempre molto perplesso – sebbene comprenda umanamente – quando vedo i video appelli dei sindaci che continuano a minacciare chi esce. Per quello c’è la polizia, ci sono le forze dell’ordine. Proviamo a ribaltare il discorso. Proviamo a dire grazie a chi resta in casa. Cioè, proviamo a dare messaggi positivi. Io rimango in casa, non perché obbligato, ma perché sono una persona responsabile e non voglio far ammalare gli altri. E quindi il mio rimanere in casa è un gesto attivo, di resistenza attiva. E anche ai ragazzi poter dire: vedi, stai in casa e non vedi il tuo amico perché lo stai tutelando, lo stai proteggendo, se lo vedi in videochiamata non c’è rischio di contagio. Trovo pericoloso che passi solo il messaggio del controllo, della repressione.

Una consapevolezza che deve essere di tutti, quindi, piccoli e grandi: una situazione eccezionale che è tale solo entro la condizione di emergenza…

Il discorso tocca anche il modo dell’informazione. Continuare tutti i giorni a guardare il numero dei contagiati… per noi che stiamo in casa è un’informazione inutile, e comunque fa salire l’ansia. Quindi, cerchiamo di selezionare le informazioni che ci servono e, soprattutto coi ragazzi, parliamo anche d’altro. Nel mondo stanno succedendo anche delle cose positive, che non c’entrano con il coronavirus. Sicuramente non metterei i ragazzi davanti al computer a cercare informazioni sui numeri esatti del contagio. Diverso è venire a sapere che si è ammalato qualcuno che conosciamo, e in quel caso gli facciamo una telefonata.

Tornando alle restrizioni in atto, si sono levati appelli negli ultimi giorni e famiglie, professionisti, associazioni, cittadini chiedono l’attenzione delle istituzioni territoriali. Un esempio, non l’unico, è quello della possibilità di trascorrere alcuni momenti all’aria aperta, per bambini, con tutte le cautele del caso…

Mi sembra una cosa ragionevole, poi è chiaro che va gestita. Ma è un appello che ho trovato molto di buon senso, soprattutto visti i tempi lunghi che si prospettano. Faccio un esempio. Vivo in un condominio con giardino interno e proprio questa mattina ho appeso un cartello per invitare i condomini a fare i turni. Un quarto d’ora l’uno, scendi solo tu e tuo figlio e fai due tiri al pallone e poi lasci spazio a un altro. Anche formalmente in questo modo rispettiamo le regole. Poi però io sono certo, ed è già successo, che se capitasse una cosa del genere ci sarebbe qualcuno pronto a chiamare i vigili, anche se si tratta di genitore e figlio da soli che giocano con la mascherina.

“È giunto il momento di pensare ai costi educativi e sociali per i bambini. Non possiamo pensare di tenerli così, chiusi in casa, ancora per un mese: è fuori dal buonsenso”

Adesso, assorbito lo shock iniziale, è giunto il momento di pensare seriamente ai costi educativi e ai costi sociali, della vita di relazione tra le persone. Dopo la “botta iniziale” è il momento di ragionare più freddamente a partire da esigenze che non sono solo quelle di tutela della salute e che sui piccoli si stanno manifestando. Non possiamo pensare di tenerli così, chiusi in casa, ancora per un mese: è fuori dal buonsenso.

Non dimentichiamo poi che in alcuni casi la casa può non essere l’ambiente più salutare e tutelato. Oggi che la rete di attenzione e intervento (scuola, servizi del territorio etc.) in grado di segnalare abusi, violenze, omissione di cure e quant’altro è fuori gioco, associazioni e singoli hanno mosso un appello al Governo per chiedere un “Decreto bambini”, per attivare servizi a tutela di situazioni delicate e spesso invisibili. Cosa ne pensa?

Il problema è che purtroppo alcune situazioni sono state perse di vista, e ricostruirle poi sarà molto difficile. La casa è l’inferno per alcune persone. Perché può essere il luogo della violenza sulle donne, sui bambini. Anche qui occorre un intervento, senza aspettare che finisca l’emergenza. È necessario un provvedimento ad hoc che permetta, con tutti i controlli e le tutele del caso, di ritornare a “entrare in queste case”. Se li salvaguardiamo dal virus ma li mettiamo in un circolo di povertà o di violenza i costi per questi bambini saranno altissimi. È il momento di andare più in profondità, non puoi gestire 60 milioni di italiani tutti allo stesso modo; è il momento di vedere caso per caso ogni situazione, soprattutto se sono coinvolti i minori, e soprattutto i cosiddetti minori a rischio.

La scuola in queste settimane si è trasferita online. La didattica a distanza, bene o male a seconda delle situazioni, ha rimesso in contatto alunni e docenti. Cosa potrebbe mancare di più agli studenti in questo momento?

La questione è complessa. Certamente manca la presenza fisica, il rapporto diretto con l’insegnante ma solo  laddove questo rapporto c’era. Gli insegnanti che avevano, e che hanno ancora, una relazione positiva con i ragazzi, che sapevano gestire la relazione educativa, sono quelli che stanno usando meglio la didattica a distanza. Perché non la ritengono solo un modo per passare i contenuti ma un’opportunità per tenere i contatti con i ragazzi. È chiaro che poi mandano anche il compito, però capiscono che la didattica a distanza è uno strumento per gestire l’emergenza. Ho una preoccupazione, e cioè che il rientro a scuola sia seguito solo dal punto di vista dei contenuti. La prima cosa del rientro a scuola sarà ri-imparare a stare a scuola proprio fisicamente, stare con l’amico, di fianco al compagno, stare nelle relazioni. Se il rientro a scuola si traduce in due settimane di verifiche per cinque ore al giorno è il disastro! Buttiamo via l’occasione di ripartire con questi ragazzi in modo un po’ diverso. La scuola è un ambiente, un ambito di vita. Ed è all’interno di quell’ambito che noi docenti passiamo i contenuti. E allora la scuola deve uscire da questa emergenza pensando a che cosa vuol dire andare a scuola. Spero vivamente che si faccia un lavoro sui programmi. Non possiamo certo pensare che gli iscritti al primo anno dell’anno prossimo a Medicina faranno l’esame di Fisica uguale a quello dell’anno precedente. Vorrebbe dire bocciarli tutti. Ma al di là di questo, vuol dire non avere capito quello che è successo. È necessario avviare insieme, e bisogna farlo adesso, un modo per rendere il passaggio verso la nuova fase scolastica, elementari, medie, superiori etc., il più seguito e più soft possibile.

Ripartire vorrà dire recuperare un sistema scuola.

Dobbiamo inventarci come. Rimettere al centro il tema della relazione, della fisicità e ricostruire una scuola diversa. Che almeno questi mesi ci diano lo stimolo per fare quello che forse avremmo già dovuto fare. Altrimenti il rischio è che i ragazzi ci dicano: “Bene, ho imparato lo stesso stando a casa, perché dovrei andare a scuola?”, non sarebbe un’osservazione così peregrina. Dare un senso, fargli venire voglia di tornare a scuola. Di fare un’esperienza che è unica e che non è sostituibile con i video.

Passare il messaggio che la scuola fa la differenza…

“Sarà la scuola a dare la spinta per la ripartenza, per reinventarsi l’essere umano. E c’è la possibilità che tutto migliori, ma anche dell’imbarbarimento ulteriore”

Assolutamente! Anzi, io sono convinto che – dicono tutti che l’umanità non sarà più la stessa – la direzione che prenderemo per tanta parte sarà decisa anche dalla scuola. Sarà la scuola a dare la spinta per la resistenza, per la ripartenza, per reinventarsi l’essere umano. E c’è la possibilità che tutto migliori, ma anche dell’imbarbarimento ulteriore. È il momento per fare un grande patto educativo, che abbia al centro da un lato i piccoli e da un lato gli anziani. Perché questa tragedia ci mostra anche tutta la fragilità e la sofferenza delle persone anziane. Questo forse potrebbe essere un modo per ripartire, e ripartire in modo diverso.

In Massa e potere Elias Canetti inizia così: “Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto”. Il timore più profondo è l’invasione del nostro spazio, perché siamo fragili. Oggi questa paura assume una dimensione concreta, lampante. Supereremo il timore di venire a contatto con l’altro, di essere toccati?

Sì, dovremo convivere con la paura perché la paura è ineliminabile da qualunque situazione, e non solo nell’essere umano. Forse abbiamo pensato che la cultura, la scienza, le grandi conquiste della conoscenza eliminassero la paura, invece probabilmente dobbiamo farci i conti, e fare in modo che la paura non ci paralizzi. Dovremo re-imparare ad abbracciarci, a stare insieme fisicamente, però anche imparare che io abbraccio l’altro solo se l’altro lo desidera. Quando entro nella sfera di intimità, quando varco il famoso metro di distanza che è già il simbolo dell’epoca che viviamo, oggi non lo faccio perché so che un virus potrebbe passare, ma anche domani non è mica detto che possa farlo, perché dipende dall’altro. Toccare, abbracciare l’altro soltanto se l’altro lo vuole, lo desidera e mi autorizza a farlo. Questo potrebbe essere un momento evolutivo per tutti. Riscopriamo i limiti della nostra intimità e di quella dell’altro. In modo che quando ci abbracceremo, poi, lo faremo veramente. Anche la stretta di mano, spero, non sarà più il gesto banale che è sempre stato, ma diventerà proprio un contatto fisico significativo, quando potremo farlo.

Che augurio fa a lei e agli altri?

L’augurio di resistere, perché la resistenza è da sempre la caratteristica dell’essere umano. Trovare la forza per ripartire e capire che per eliminare l’umano ci vuole qualcosa di più che un virus, insomma. Ce la si può fare anche questa volta e dobbiamo veramente trovare le risorse insieme. Senza retorica, dobbiamo lavorare insieme, soprattutto a partire dai più fragili, dai più deboli e che purtroppo in questi casi sono quelli che pagano di più.

Francesca Rascazzo

Editor per Gruppo Abele

31 marzo 2020

31/3/2020 https://lavialibera.libera.it

Foto di Kelly Sikkema

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