Corpi (s)connessi

Parlare di cura è come aprire un Vaso di Pandora: ogni storia si lega a un altra, ogni storia evidenzia problemi e bisogni che si scontrano con quelli di altre storie. Non si può parlare di chi si prende cura senza parlare di chi viene curato e senza tenere in considerazione che chi oggi fa un lavoro di cura un giorno avrà bisogno di cure. Le contraddizioni della cura si intrecciano le une con le altre, come in una catena. E proprio l’immagine della catena è quella evocata da chi studia questo fenomeno da anni e che ha coniato il termine catene globali della cura (Donne Globali di Ehrenreich e Hochschild – 2004) proprio per evidenziare l’intreccio a livello mondiale di legami basati sul lavoro di cura pagato, non pagato, sfruttato.

Il mondo delle badanti e quello delle famiglie sono spesso due miserie che si incontrano

ci dice Natalia, quasi settant’anni, insegnante in pensione, quando la incontriamo in occasione della realizzazione del nostro lungometraggio documentario La Cura – Quanto vale un corpo?, Natalia insieme ad alcune amiche e il marito Vanni, partecipa ad uno dei laboratori che conduciamo sul tema della cura. Arrivano da Fabbrico, un paesino della provincia di Reggio Emilia. Ci raccontano che hanno formato un gruppo di parola sulla cura per ragionare sull’esperienza che hanno fatto come caregiver e per elaborare delle soluzioni collettive all’invecchiamento e all’inevitabile bisogno di cure.

Io ho potuto assistere mia madre – continua – donando tanta attenzione e tempo perché non ho avuto figli né nipoti ed ero già in pensione. Noi abbiamo fatto un’esperienza di cura e forse siamo l’ultima generazione che ha potuto farla. In Italia oggi si lavora fino a settant’anni. Dobbiamo porci il problema di come si farà ad assistere sia i bambini che gli anziani. Le strutture sanitarie hanno bisogno di essere riviste anche perché abbiamo visto come funzionano. Cosa faremo? Abbiamo bisogno di pensarci prima.

Quando si domandano «cosa faremo?» Natalia e il resto del gruppo usano una parola molto bella rispetto alla cura: desiderio. Vogliono essere curati secondo quelli che sono i loro desideri e non solo i bisogni (parola che rimanda sempre a un’idea emergenziale della cura, per cui si agisce solo quando il problema è già esploso).

Svitlana, badante ucraina, e Galia, colf e baby sitter moldava (Rubiera)

La soluzione delle badanti o assistenti familiari è interessante… – fa una piccola pausa, poi sorride – è necessaria più che interessante, perché non abbiamo tanto altro, ma è molto complicata. Per prima cosa noi familiari diventiamo datori di lavoro e non siamo preparati a esserlo. L’ultimo periodo della vita di mia madre abbiamo preso un’assistente familiare che conoscevamo. In quel momento mi sono ammalata, perché mia madre mi guardava chiedendo con gli occhi: «perché mi lava lei, l’assistente, e non tu anche se sei qui?». Senza dirlo mi chiamava, chiedeva la mia presenza e io dovevo lasciarla a qualcun altro che non la conosceva come la conoscevo io. Mia madre mangiava tutto macinato, frullato e soltanto dandole da mangiare dalla parte destra riusciva a deglutire senza tossire. Come fai a spiegare tutte queste cose a una persona che all’improvviso entra in casa e tutto il giorno dovrebbe stare con lei? Questa assistente si offendeva perché io restavo con lei: non sono mai mancata a metterla a letto e ad alzarla anche se c’era l’assistente, perché c’erano tante cose che bisognava fare assieme, affinché lei vedesse con che modalità facevamo le cose. Con il tempo la relazione è migliorata, ma io mi sono ammalata.

Sentiamo un’eco delle parole di Natalia in quelle di Stefania, assistente familiare di Latina. Lei ci racconta la difficoltà che hanno le sue colleghe e lei a far accettare alle famiglie il loro modo di curare l’assistito. È chiaro – dice Stefania – che la famiglia fa resistenza a cambiare modalità e ad accettare le tue, anche se hai studiato, hai esperienza e quello che fai lo fai per il bene dell’assistito, magari è una procedura migliore di quella che stavano facendo loro. Ma non devi importi sulla famiglia, devi spiegarglielo, farglielo accettare piano piano. È un rapporto delicato».

Galia, colf e baby sitter moldava (Rubiera).

Rapporti delicati come sono delicati e sensibili i corpi che bisogna curare, com’è difficile entrare nell’intimità fisica (ma non solo) di una persona e, dall’altra parte, lasciare entrare. Stefania ha cinquantaquattro anni, ha studiato counseling e ha fatto un corso professionalizzante per fare l’assistente familiare con le Acli-Colf, lavora da vent’anni nella sua città natale, senza un contratto regolare, al massimo con la ritenuta d’acconto. Te lo dice chiaro, tondo e subito perché vuole che si sappia che in questo ambito c’è un problema endemico: il costo della messa in regola è troppo alto per le famiglie e fa guadagnare troppo poco all’assistente. «Ma senza contratto non hai tutele, se ti ammali chi si prenderà cura di te?». A Stefania è successo proprio questo: ha dovuto combattere contro un tumore, da sola. Si è operata il lunedì e il sabato era già a lavorare. Lei lavora a ore anche se la figura più ricercata dalle famiglie è l’assistente 24 ore su 24.

24 ore su 24 non l’ho mai fatto e non lo voglio fare – racconta – a livello lavorativo è devastante sia per me che per l’assistito. Lui non migliora e io non posso dare il meglio di me: si arriva subito al burn-out perché si passano troppe ore assieme. Ho sempre trovato questo contratto assurdo perché non fa bene a nessuno, se non ai familiari per una questione economica.

C’è la convinzione diffusa, e durante questo viaggio ne La Cura ne abbiamo spesso la conferma, che in fondo questo lavoro non sia così pesante perché «passi il tempo a guardare la televisione, l’assistito dorme sempre e ti danno anche vitto e alloggio: praticamente non hai spese». Ah vabbè ma tu che fai in fondo? Dopo che l’hai lavato e gli hai fatto da mangiare, stai solo là seduta!» – dice Stefania, imitando i tipici commenti che riceve. «Sì sono lì seduta, ma il mio tempo non ha valore, i miei bisogni non esistono. Se la persona che assisto ha bisogno di essere massaggiata 4 ore di fila io lo faccio, e non interessa a nessuno se ho mal di schiena e sono piegata in due. Ti dicono: a casa degli assistiti passi il tempo a guardare la tv! Ma io non vedo la tv: sono violentata dalla tv che vuole vedere l’assistito. Devo mangiare quello che vogliono loro. Devo stare attenta a quanto mangio perché non posso andare a casa di un estraneo e svaligiare il suo frigo. Sono cose che possono sembrare piccolezze, se le fai una, due volte, ma se lo fai per anni ti cambia la vita».

Per non parlare della considerazione che ti riservano molte famiglie.

I rapporti da gestire per un’assistente familiare sono complessi: bisogna avere a che fare con la famiglia, l’ammalato, e poi le strutture esterne: hospice che vengono a domicilio, quelli del comune che vengono a lavarlo… Quando vengono ospiti, per esempio, i parenti dell’assistito mi dicono di andare a fare il caffè. Io assisto l’ammalato, non l’intera famiglia, non sono una colf! Non c’è scritto nel mio contratto che devo fare il caffè per tutti. Il mio lavoro è curare il mio assistito. Il problema è che poi ti ricattano: se vuoi lavorare, lo devi fare.

Maria e Mariana Badanti bulgare (Centro Integrato Donne straniere e Famiglie – Pontedera)

Il ricatto può spingersi ancora oltre, come ci racconta Olha, una donna ucraina che fa la badante in Italia da vent’anni.

La prima signora da cui sono stata aveva un figlio che i primi tempi abusava di me. Io mi sono rifiutata e lui mi ha cacciata dalla casa della madre. Io ero arrabbiata e ho chiamato sua moglie per spiegare cos’era successo. So che poi lei gli ha parlato e lui da allora non ha più fatto niente, soltanto mi diceva: se tu vuoi, io sono disponibile! Approfittava della sua posizione perché era lui che portava la spesa per sua madre, portava i soldi per le spese… quindi dipendevo anche io da lui. Lui diceva: se tu sei la badante di mia madre sei anche la badante mia, posso fare quello che voglio. Questo penso che sia uno dei problemi di tante donne che vengono qua, perché loro (gli uomini) vogliono fare l’amore con le badanti. Tu devi scegliere: o perdi il lavoro o stai con loro. Però questa cosa non può durare, prima o poi deve finire.

Ma come farla finire? O meglio come possiamo fare perché non inizi? Olha è l’unica che ci parla apertamente di abusi sessuali ma dubitiamo che sia un caso isolato. Non se ne parla per pudore, per vergogna, per il senso di colpa e lo stigma che colpisce chi subisce violenza sessuale (purtroppo ancora oggi), per la paura che ci siano delle conseguenze: spesso non conosci le leggi, le strutture del paese in cui sei e hai la sensazione che in ogni caso non tuteleranno te, non sai di chi puoi fidarti, e nel caso forse è meglio non fidarsi di nessuno.

Olha è venuta in Italia per garantire un futuro ai suoi figli, per farli studiare. Tutte le donne dell’Est Europa che incontriamo hanno questo tratto di storia in comune. Tutte ci mostrano orgogliose le foto dei loro figli, dei nipoti e delle case che hanno fatto costruire per la famiglia nel loro paese. Anche Galia se n’è andata dalla Moldavia vent’anni fa. Quando è partita, per raggiungere il marito in Italia, ha preso da parte sua figlia maggiore che all’epoca aveva quattordici anni e le ha detto: «Io devo andare ad aiutare papà, rimani tu a fare da mamma e papà per tuo fratello Yuri». La figlia le ha risposto: «E di me? Chi si prende cura di me?». Galia doveva partire: avevano debiti, suo marito non trovava lavoro, le avevano detto che per le donne in Italia era più facile. Non aveva scelta. Per cinque anni non è tornata a casa, allora non esisteva Skype, non c’erano i cellulari e i figli li sentiva, quando poteva, dalle cabine telefoniche. I nostri figli sono venuti a prendermi all’aeroporto con dei loro amici. Mia figlia è venuta subito verso di me e mi ha abbracciata. Io le ho chiesto: dov’è Yuri? E lei mi ha detto: mamma ma come non lo vedi? È lì! Indicava il gruppo di amici, io non l’ho riconosciuto…».

Torna in mente una frase di Natalia rispetto alla sua esperienza con le badanti:

La relazione con gli assistiti dipende anche da che problemi hanno queste donne a casa loro. Il lavoro di cura ha bisogno di massima attenzione e una certa responsabilità amorosa; e allora come puoi pensare che queste donne che vengono da lontano che lasciano madri, figli e mariti riescano a dimenticare questo carico di sofferenza mentre fanno il loro lavoro? Credo che riuscire a stare bene con l’anziano e la famiglia e sentirsi bene nella casa in cui si sta ti restituisca un guadagno non solo economico anche umano. Se sei accolta e stai bene, si sta tutti bene.

Ecco, stare bene tutte e tutti. Non dovrebbe essere questo l’obiettivo? È possibile stare bene tutte e tutti o c’è per forza qualcuno che in quel tutte e tutti non rientra? Ci sono corpi che valgono più di altri? Chi ha stabilito il prezzo? La risposta è facile, la conosciamo. Eppure la soluzione non lo è, come si scioglie questo nodo?  Questo problema se lo pone anche la Dottoressa Katia Acquafredda, responsabile dell’Rsa Biffi di Milano. Le abbiamo chiesto come sia il rapporto tra le operatrici socio-sanitarie e le signore che risiedono nella struttura.

Sofia e Alina operatrici socio sanitarie (Rsa Fondazione Biffi – Milano)

Complicato – ci dice – perché chiaramente si scontrano bisogni diversi. Ognuna ha in mente il suo bisogno individuale all’interno di un sistema nel quale le persone hanno tanti bisogni in orari molto simili. Il problema più grosso è l’alzata e la messa a letto perché tutte qui hanno bisogno di aiuto e le operatrici socio-sanitarie, anche mettendo tutta la buona volontà del mondo, non ce la fanno. La situazione può diventare drammatica: da una parte c’è chi soffre e ha bisogno di assistenza, dall’altra la fatica che può diventare sofferenza a sua volta.

Troviamo riscontro a queste parole nelle interviste che facciamo alle operatrici socio-sanitarie: quasi tutte migranti, tutte contente di questo lavoro e felici della relazione di cura con le signore, ma tutte concordano che la parte più pesante sia quella dell’alzata e della messa a letto.

Nevila Spaho confida che comincia a chiedersi come sarà la sua schiena quando avrà sessant’anni, visto gli sforzi che fa ogni giorno. Chi si prenderà cura di lei? La dottoressa Acquafredda spiega come nasce il problema. 

Quante persone devono operare in una struttura come questa è dettato dalle norme regionali che sono più o meno uguali in tutta Italia. La soglia minima di fabbisogno lavorativo consentita è talmente bassa che nessuna Rsa, neanche le peggiori, rispettano quello standard. Siamo tutti sopra, perché con quello standard non funziona. Siamo sopra di un pelo: che questo pelo sia sufficiente ho molti dubbi. Gli strumenti per valutare questo aspetto sono pochi e imperfetti. In Italia si usa il Mapo (Movimentazione Assistita Pazienti Ospedalizzati). Se si guardano i valori Mapo di una qualsiasi struttura, i risultati sono buoni, se però si guardano in faccia la operatrici, ricordandosi che la movimentazione manuale delle persone produce un danno cronico sulla colonna vertebrale, si capisce che questo strumento forse è stato creato da qualcuno che non aveva interesse a verificare nel dettaglio. Tra l’altro la movimentazione andrebbe sempre fatta in due, ma spesso viene fatta da una persona singola e in un tempo ristretto, con la conseguenza che l’operatrice torna a casa con la schiena rotta ed è pure colpa sua perché avrebbe dovuto farla con un’altra persona. Il problema è: a chi interessa? Finora a nessuno. Il fatto è che questo è un micromondo: o siam tutti un po’ più felici o inizia una guerra e non si salva nessuno. Ci sono delle realtà dove le operatrici socio-sanitarie sono sistematicamente oppresse dalla direzione. Cosa pensi che succederà all’ultimo anello della catena, cioè alla persona anziana? Se tu opprimi, non pensi che l’operatrice si scaricherà in qualche modo? Perché o se ne esce insieme o non se ne esce.

«Quando riusciremo a parlare di cura come cultura, come politica che diventa una possibilità, una capacità collettiva, e insieme pensiamo cosa ci serve? Perché ormai tutte noi donne vogliamo lavorare e vogliamo possibilmente fare il lavoro che ci piace…». Le parole di Natalia, durante il laboratorio, dopo aver conosciuto la realtà di Fondazione Biffi, e quelle di Stefania, Galia e Olha, ci risuonano ancora di più. Cosa possiamo fare perché ci sia una cultura della cura? Che non sia soltanto un ruolo… creare una condizione culturale e politica per avere strumenti collettivi, una gestione insieme della vita, un’opera di civiltà, soprattutto del più fragile». 

Noi non sappiamo (ancora) rispondere alle domande di Natalia ma sicuramente possiamo aggiungerne altre e provare, con i nostri strumenti, a stimolare nuove riflessioni, a offrire altri sguardi. 

Operatrici sociosanitarie e residenti (Rsa Fondazione Biffi)

*La cura – Quanto vale un corpo? è un documentario di Teresa Sala e Tiziana Francesca Vaccaro. Le autrici hanno lanciato una campagna di crowdfunding sulla piattaforma go fund me per riuscire a realizzarlo. Se volete aiutarle a “scoperchiare il Vaso di Pandora” diventate coproduttori/coproduttrici del film con una donazione. Prendetevi cura de La Cura. Teresa Sala lavora in Italia come regista e filmmaker freelance. Scrive e dirige documentari, cortometraggi di fiction, di videodanza e docufiction. Nel 2017 realizza Non è amore questo documentario sulla vita sessuale e sentimentale di una donna con disabilità. Da dieci anni intreccia la sua pratica lavorativa con l’attivismo transfemminista queer. Tiziana Francesca Vaccaro, classe 1984. È conduttrice di laboratori teatrali, autrice e unica attrice in scena degli spettacoli teatrali Terra di Rosa – vite di Rosa Balistreri e Sindrome Italia. O delle Vite Sospese. Scrive la drammaturgia a fumetti Terra di Rosa – vite di uno spettacolo e il graphic novel Sindrome Italia. Storia delle nostre badanti, in collaborazione con la fumettista Elena Mistrello e Becco Giallo Editore

20/9/2021 https://jacobinitalia.it

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