Cosa intendiamo quando parliamo di fascistizzazione della società?

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Con il comporsi della maggioranza di governo costituita da Lega e Movimento 5 Stelle, l’involuzione reazionaria in atto già da decenni nel nostro paese ha subito una drammatica accelerazione. In poche settimane, in particolare il protagonismo di Matteo Salvini ha evidenziato il precipitare di un processo di normalizzazione del peggio, il quale sta imponendo al senso comune una torsione verso l’accettazione di forme spinte di autoritarismo politico e ferocia nell’esercizio del potere che stanno facendo rapidamente evaporare il belletto sotto cui quella stessa ferocia usualmente si cela nelle cosiddette “democrazie liberali”. In altri termini, le prime settimane del governo Conte rendono pienamente evidente quali siano i caratteri con cui un governo apertamente reazionario organizza la propria azione pedagogica nei confronti dell’opinione pubblica e quanto tale pedagogia s’identifichi, classicamente, con l’incanalamento dell’odio derivante dalle tensioni sociali nella persecuzione delle minoranze, delle marginalità, delle forme più estreme di disagio materiale. Il bersaglio immediatamente successivo è ovviamente l’attivismo politico e sindacale, come d’altronde dimostrano le prime azioni di schedatura di massa avvenute in occasione del corteo nazionale usb.

Quando si trae da questi dati di fatto la conclusione che nella nostra società sia in corso un processo di fascistizzazione, tuttavia, si deve prestare attenzione a non incorrere in due distinti pericoli. Il primo pericolo è quello di limitare tale considerazione agli aspetti fenomenologici: una tendenza, questa, non a caso e significativamente incoraggiata dal Partito Democratico, intento ormai da tempo in un’opera di accaparramento dell’immaginario antifascista tanto vuota quanto ipocrita, tutta fondata sulla rimozione, precedentemente portata avanti con successo dallo stesso centrosinistra per oltre vent’anni, della consapevolezza delle radici di classe del fascismo e dell’antifascismo e quindi del contenuto di trasformazione radicale dell’ordinamento sociale che quest’ultimo, se sincero e conseguente, assume in tutto il mondo ma in Italia in particolare. Il secondo pericolo è invece quello di ricercare negli avvenimenti attuali le caratteristiche del processo che condusse storicamente all’avvento del fascismo, sempre limitandosi ad accostamenti tra le caratteristiche sintomatiche dei due fenomeni che, evidentemente, sono solo in parte coincidenti, se non per l’insistenza nell’invocazione della strutturazione di una risposta persecutoria nei confronti delle marginalità come catarsi tramite la quale allontanare lo spettro della pauperizzazione di strati crescenti della società italiana.

Eppure la fascistizzazione c’è. Essa si fa di giorno in giorno più evidente, più opprimente e più capillare e chiunque abbia una certa sensibilità ne sente già da molto tempo spirare il vento. Il nuovo governo è, come dicevamo, solo il punto di avvio di un ulteriore salto qualitativo.

Per definire cosa intendiamo quando parliamo oggi di fascistizzazione, occorre innanzitutto riferirsi ai dati strutturali. È su questo terreno che avviene, contemporaneamente, la più ampia divaricazione tra il fenomeno fascista storicamente conosciuto e quanto viviamo attualmente e, per converso, si constatano le radici profonde del nuovo fenomeno autoritario che vediamo avanzare.

Come noto, all’insorgere dei fascismi europei della prima metà del XX secolo concorsero due fattori. Da un lato l’aprirsi di una crisi strutturale del capitalismo, che avrebbe prodotto due guerre mondiali nate dalla necessità del Capitale di distruggere le forze produttive per dar vita a una nuova fase di crescita economica. Dall’altro l’irruzione sulla scena mondiale della classe operaia come protagonista della Storia, avvenuta con l’evento palingenetico rappresentato dalla Rivoluzione d’Ottobre. Il fascismo storico, cioè la “dittatura aperta degli elementi più reazionari del capitale finanziario”, secondo la celebre definizione del fenomeno formulata dalla Terza Internazionale, fu dunque in parte un prodotto dell’antagonismo di classe che si esprimeva ad alto livello nella lotta per il potere politico tra soggetti organizzati. Il pericolo della rivoluzione comunista spinse la borghesia a esprimere una pulsione eversiva degli stessi sistemi istituzionali che essa aveva generato, non a caso nei paesi che, in virtù degli equilibri determinatisi agli esiti della Prima Guerra Mondiale e delle specifiche caratteristiche sociali di ciascuno, erano risultati o sfavoriti nella lotta per il primato tra imperialismi o particolarmente permeabili al rischio di una rivoluzione sociale.

Significativamente il Regno Unito, potenza egemone dell’epoca, e gli Stati Uniti d’America che si apprestavano a prenderne il posto nella gerarchia mondiale, malgrado le tensioni interne non ebbero bisogno di esprimere un regime dittatoriale e di sovvertire i propri ordinamenti per governare la fase storica: in quei paesi, l’ordinamento liberale non fu mai seriamente minacciato dalla possibilità di un rivolgimento autenticamente democratico e la repressione contro ogni pulsione alla democratizzazione della società poté svolgersi nell’ambito della continuità politica e istituzionale. Sono forse le forme con cui in passato si è manifestato l’autoritarismo sociale nel Regno Unito e negli USA a fornire il metro di paragone più valido per valutare alcuni aspetti del fenomeno odierno.

Se compariamo la situazione della prima metà del XX secolo con l’attuale, salta immediatamente all’occhio il tratto strutturale comune costituito dalla crisi strutturale del capitalismo. Il secondo elemento, però, e cioè un’opzione rivoluzionaria minacciosa, è sostanzialmente assente. La crisi del capitalismo interviene oggi nello scenario prodotto da un altro evento palingenetico, di segno opposto a quello rappresentato dalla Rivoluzione bolscevica: la caduta del Muro di Berlino e la fine del blocco socialista, cioè la vittoria della controrivoluzione che, a livello ideologico, ha aperto la fase dell’affermazione dogmatica della “fine della Storia” e spalancato la via all’assalto demolitore condotto dall’ideologia dominante contro qualunque elemento culturale, morale o intellettuale, così come contro l’intero retaggio storico riconducibile al processo di liberazione umana.

Una fase, la nostra, in cui l’intero razionalismo filosofico, tutta la storia delle rotture rivoluzionarie generatrici di protagonismo popolare – a cominciare dalla Rivoluzione francese e dalle sue correnti più democratiche -, l’intero lascito di centinaia di anni di democratizzazione delle relazioni politiche e aperture progressive al protagonismo delle masse organizzate, tutto viene sottoposto a processo e indefettibilmente condannato, bollato con gli infamanti epiteti di “dogmatismo” e “totalitarismo”. Il tanto celebrato “pluralismo” occidentale, ossia la negazione radicale della possibilità del riconoscimento razionale della realtà, si completa ora nell’insorgere delle cosiddette “post-verità”, e cioè della menzogna resa verità dall’iper-soggettivismo su cui si fonda.

Questa particolare condizione, in cui il vecchio sta morendo ma il nuovo non è nemmeno in gestazione per assenza di antagonismo politico organizzato e con finalità rivoluzionarie, produce il fenomeno della “putrefazione della Storia” di cui la fascistizzazione delle relazioni sociali è frutto. Ciò avviene su scala planetaria, per declinarsi poi in ogni singolo scenario nazionale secondo le condizioni specifiche del luogo.

Dai due elementi analizzati – crisi strutturale del capitalismo e assenza di antagonismo organizzato -, uno convergente e uno radicalmente divergente rispetto al brodo di coltura che produsse storicamente il fascismo, si ricava una prima conclusione: l’unica minaccia immediata che incombe sul capitalismo contemporaneo sono i suoi stessi limiti strutturali e le conseguenze che il loro manifestarsi comporta. Un fenomeno autoritario, nella metropoli imperialista del nostro tempo, necessariamente erediterà la lezione del fascismo storico ma non la riprodurrà, nei suoi aspetti apertamente dittatoriali, se non in presenza dell’emersione di una soggettività politica capace di contendere il potere alla borghesia e di minacciarne il dominio, o almeno di una concreta minaccia alla capacità di riprodurre attraverso una concatenazione di passaggi la presa egemonica delle classi dominanti sulle masse.

Un simile fenomeno autoritario avrà dunque due compiti principali: prevenire il sorgere di un antagonista politico organizzato capace di minacciare il potere borghese ma soprattutto garantire il disciplinamento dell’intera società sotto la guida dello stesso potere borghese, in funzione della risposta che questo intende organizzare alla crisi strutturale del modello economico di cui è espressione. Appare evidente come, in un simile scenario di dominio politico, una soluzione apertamente dittatoriale sia non solo inutile, ma assolutamente non funzionale allo scopo. L’Europa contemporanea, con casi quali quello dell’Ungheria di Orbán, offre già evidenze di come il genere di autoritarismo di cui necessita oggi il capitalismo non abbia bisogno di mettere in discussione apertamente caratteristiche abituali della “democrazia liberale” quali il multipartitismo.

Per contro, si rende evidente la necessità di stabilire un controllo diretto sul movimento sindacale, espressione della lotta economica dei lavoratori che, anche in assenza di una piena coscienza di classe, costituisce di per sé una minaccia gravissima contro la capacità egemonica del capitalismo nei confronti delle classi subalterne. Da questo punto di vista, le vie battute sono due: quella perseguita in Italia, e cioè la cooptazione del movimento sindacale nell’apparato burocratico di gestione dello stato di cose presenti, che a partire dagli anni ‘90 ha assunto principalmente la forma della trasformazione in senso corporativo del fenomeno sindacale tramite l’istituzione degli enti bilaterali e l’induzione della dipendenza economica delle burocrazie sindacali rispetto agli stessi, oppure quella seguita in Francia, dove la svolta corporativa è riuscita in proporzioni insufficienti per stabilire le necessarie forme di controllo dello Stato e del Capitale sul movimento sindacale e dunque si fa ricorso alla brutalità repressiva.

Non a caso, dopo la stagione delle mobilitazioni contro la riforma del mercato del lavoro voluta dal governo Hollande, sono stati migliaia gli attivisti sindacali trascinati davanti ai tribunali per rispondere della loro condottadurante le mobilitazioni, e l’approccio repressivo va consolidandosi ed estendendosi grazie all’azione del governo Macron. Un atteggiamento molto simile, ancorché su scala ridotta, è stato d’altra parte assunto in Italia dai governi del PD nei confronti del sindacalismo di base: in assenza di un orizzonte conflittuale capace di dotarsi di una prospettiva politica, di lotta per il potere, il rifiuto del dialogo sociale e la repressione violenta tesa a colpire gli elementi più attivi nell’organizzazione del conflitto, generano la paura e la frustrazione necessarie per ristabilire il pieno dominio sulle dinamiche sociali e disgregare alla radice qualunque minaccia.

In assenza di antagonismo politico e sociale soggettivamente organizzato, dunque, la borghesia è libera di perseguire i propri interessi e di fornire alla crisi economica la propria risposta. Anche nella fase storica che attraversiamo, essa si riassume essenzialmente nella distruzione delle forze produttive e nell’accelerazione del processo di concentrazione o centralizzazione del capitale. Una via, questa, che nel nostro tempo non può però essere perseguita attraverso una conflagrazione bellica a livello mondiale per via dell’esistenza delle armi di annientamento totale di cui l’umanità si è dotata a partire dagli anni ’40. L’alternativa tuttavia esiste e si articola in un complesso meccanismo di gestione del potere politico ed economico nel quale si integrano istituzioni sovranazionali quali la NATO, l’UE, l’FMI, il WTO e altri ancora ed enti privati, come ad esempio le agenzie di rating. Tale meccanismo definisce il campo di battaglia di una complessa guerra economica, che si esprime anche in una moltitudine crescente di conflitti bellici nelle aree soggette a dominazione neocoloniale, ma che principalmente articola due esigenze: quella di “governare” e contenere l’emersione di nuove potenze (in particolare la Cina) e quella di ridefinire le gerarchie, i ruoli e la divisione del lavoro in seno allo stesso blocco imperialista “atlantico”.

In questo senso, la dominazione politica e burocratica esercitata dalle istituzioni sovranazionali, entro le quali si manifestano i rapporti di forza esistenti tra i diversi imperialismi che si contendono il primato planetario, fornisce la possibilità a questi ultimi di attuare una vera e propria strategia di soffocamento dei competitori più deboli, rendendo possibile proprio l’accelerazione del processo di concentrazione del capitale di cui il sistema in crisi ha disperatamente bisogno. Nell’antagonismo sempre più evidente tra Stati Uniti e Germania, di cui l’ultimo vertice del G7 è stato una plastica manifestazione, possiamo scorgere l’evidenziarsi di questo ruolo delle istituzioni politiche, burocratiche e finanziarie internazionali.

Occorre dunque sottolineare che il fenomeno della fascistizzazione non si realizzerà, nella metropoli imperialista contemporanea, se non entro i confini dettati dalla compatibilità tra regimi politici nazionali e controllo economico e burocratico da parte delle istituzioni transnazionali. In Italia questa complementarità si è da ultimo palesata nell’atteggiamento assunto dal Presidente Mattarella in relazione all’affare Savona: un caso che nulla aveva a che vedere con la tutela delle istituzioni e del dettato costituzionale, funzione propria del Presidente della Repubblica, e tutto invece con la garanzia dell’assoluta continuità strategica e del passaggio indolore di consegne tra il liberismo social-libertario declinante e la fascistizzazione che deve raccoglierne il legato. La riconciliazione tra i due elementi, fisicamente incarnati da Mattarella e Salvini, è stata rapida e il danno è stato inferto solo alla tenuta democratica del paese, che non rappresenta una priorità per nessuno dei due contendenti. La piena garanzia che l’Italia continuerà a interpretare il ruolo assegnatole nel canovaccio già scritto delle relazioni economiche e politiche internazionali, al massimo oscillando tra Germania e Stati Uniti, ha spianato la strada alla nascita del governo Conte. Da quel momento, emblematicamente, la voce di Mattarella non si è più levata a limitare le intemperanze di Salvini, nemmeno nei momenti più drammatici di queste ultime settimane.

Appare evidente come, nei nuovi equilibri, il destino progettato per l’Italia debba essere quello di soccombere come potenza industriale e cedere le proprie posizioni nell’equilibrio internazionale del potere ad altri soggetti.Lo esige la crisi: le forze produttive italiane devono essere distrutte. Alla borghesia italiana vengono ovviamente garantite le briciole del banchetto ed essa accetta di buon grado, fedele alla sua tradizione stracciona. Si sa che l’internazionalizzazione del capitale tipica della fase dell’imperialismo sopprime ogni legame tra borghesia e nazione, cosicché la prima cessa d’identificarsi con i destini della seconda e questa (cioè le classi lavoratrici che la popolano) può essere tranquillamente distrutta.

Nel frattempo, l’unico vero attore del progresso che ha fatto del nostro paese la settima economia industriale al mondo, ossia lo Stato, si ritrae disordinatamente dal campo dell’intervento economico, lanciando tutti i settori strategici verso un rapido smantellamento. La cifra delle politiche economiche della Seconda Repubblica, emblematicamente rappresentata dalla figura dello stesso Romano Prodi che appena prima di divenire uomo di governo aveva affossato l’IRI, non è stata altro che questa. La ragione profonda dello sfascio della qualità del nostro sistema educativo, del disastro cui è stata abbandonata la nostra agricoltura, in breve della consunzione pianificata delle potenzialità della nostra economia produttiva, e così pure l’inerzia con cui i vari governi di centrodestra e centrosinistra hanno assistito alla desertificazione d’intere regioni del nostro paese, spogliate delle loro forze vive da un fenomeno di emigrazione la cui portata ricorda da vicino i momenti peggiori dell’esodo degli italiani verso l’estero, e ancora la sistematica umiliazione delle lavoratrici e dei lavoratori abbandonati a una precarizzazione occupazionale tradottasi ben presto in fatto esistenziale e formulata come una sistematica svalutazione del valore-lavoro: tutto questo si riassume sotto il concetto di distruzione organizzata delle forze produttive nel nostro paese.

Come viene percepito tutto questo nella società italiana? Quali conseguenze comporta a livello ideologico? La svolta autoritaria in atto eredita una ripartizione della gestione del potere secondo tre colonne politico-ideologiche: il liberismo, responsabile della definizione del modello economico, l’anima sociale del cattolicesimo in politica e la socialdemocrazia liberale, che si sono compenetrate e alternate storicamente nell’affermarsi come garanti burocratiche e politiche della pace sociale e, infine, il libertarismo che ha reso possibile il costituirsi della società dei consumi in virtù di un rapporto con la morale tradizionale fondato su una “emancipazione trasgressiva” che altro non ne era se non una reinterpretazione in chiave voluttuaria della vecchia morale in funzione del mercato. Queste tre componenti, avvertiva già negli anni ’70 il filosofo francese Michel Clouscard, si sarebbero fuse, generando le condizioni di partenza per la fascistizzazione della società. “Il neofascismo – scriveva Clouscard nel 1998 – sarà l’ultima espressione del liberismo social-libertario, dell’insieme che ha origine nel Maggio ’68. La sua specificità consiste in questa formula: tutto è permesso, ma niente è possibile. Alla permissività dell’abbondanza, della crescita, dei nuovi modelli di consumo, succedono le proibizioni della crisi, della penuria, della pauperizzazione assoluta. Queste due componenti storiche si fondono nelle teste, negli spiriti, creando le condizioni soggettive del neofascismo”.

Possiamo dunque ora procedere all’elencazione degli elementi costitutivi della fascistizzazione della società nel nostro tempo: innanzitutto la crisi economica, in seconda istanza la necessità di una variazione di portata rivoluzionaria nella divisione internazionale del lavoro – e quindi della ricchezza – tesa a favorire un’intensificazione del processo di concentrazione e centralizzazione del capitale, dunque il caducarsi di un sistema di organizzazione del consenso (il liberismo social-libertario) non più sostenuto dalle condizioni materiali, conseguenza del decadere dei modelli di consumo e della crisi dell’immaginario sociale su cui si edifica l’apparato ideologico occidentale, e il tutto nel panorama politico e organizzativo prodotto dal crollo del blocco socialista.

In conseguenza della particolare rapidità del declino pianificato dell’economia produttiva italiana e del fatto che il paese, per poter accedere a questa fase di declino accelerato, ha dovuto sopportare già una prima volta l’impatto dello smantellamento della conformazione partitica della sua classe dirigente nel periodo 1989-1994, da noi il processo di fascistizzazione sta assumendo una fisionomia tanto “pionieristica” rispetto al resto del blocco atlantico quanto sincopata, fatta di una successione di lacerazioni nel tessuto dell’organizzazione del consenso, tutte concentrate in un lasso temporale assai breve. La trasformazione della Lega in un partito marcatamente neofascista a vocazione nazionale, ma attentissimo a offrire le dovute garanzie alle oligarchie finanziarie e alle istituzioni sovranazionali pubbliche e private, e l’emersione del M5S come “tecnocrazia della rete” legata direttamente al capitalismo finanziario e capace di battere la via della smaterializzazione della partecipazione politica tramite la digitalizzazione, perfetto completamento dell’avvitamento individualista prodotto dalla fase del liberismo social-libertario, ha offerto al dramma contemporaneo i due interpreti reazionari necessari a indurre il passaggio definitivo alla fascistizzazione della società: due forme verticali di disciplinamento delle masse, entrambe insistenti in particolare sul ceto medio in via di proletarizzazione ed entrambe capaci di occupare gli spazi lasciati liberi dall’espressione diretta del consenso liberista social-libertario, ossia il PD, sconfitto dalla sua stessa mancanza di duttilità nell’interpretare l’ortodossia della sottomissione al capitale finanziario.

Le poche settimane trascorse dall’insediamento del governo Lega-M5S esprimono già la cifra politica di quanto sta avvenendo: nessun intervento strutturale viene annunciato che possa essere interpretato come l’avvio di un piano di rilancio dell’economia produttiva italiana. In quel senso, la linea di continuità con il PD è palese. Vengono invece ventilate misure tese a sostenere l’accesso a forme minime di reddito, in modo da offrire un palliativo che possa alleviare le condizioni più stridenti di difficoltà che si manifestano nel tessuto sociale. Le politiche securitarie e repressive varate nel quinquennio renziano ma non solo, invece, subiscono un salto qualitativo e la tensione sociale viene indirizzata contro un bersaglio immediato: chiunque possa essere identificato visivamente come “diverso” e “marginale”.

L’alibi ideologico viene offerto da deliranti teorie complottarde, tutte tese a presentare la conservazione sociale e il ristabilimento dell’ordine e della “legalità” come un elemento di rottura rispetto a potentati tanto indefiniti nei contorni quanto lontani dall’essere identificabili con la vera natura delle gerarchie sociali, che in questo modo vengono ristabilite. Lo stesso immaginario social-libertario, che identifica nell’individuo marginale oppresso e in lotta per la sua liberazione “nel quotidiano” il motore della trasformazione sociale, viene ora riutilizzato per inferocire folle rese amorfe dalla sistematica cancellazione di ogni barlume di coscienza di classe e scatenarle in una caccia all’untore dalla ferocia agghiacciante, scandita dalla forsennata esaltazione di un identitarismo tanto culturalmente confuso quanto espressione di una tensione frustata alla riconquista dell’appartenenza a un corpo sociale perduto, la cui complessità viene ricondotta a unità tramite la spinta all’adesione a stereotipi definiti dai feticci dell’accesso calante al consumo voluttuario, utile a rifiutare di essere inclusi nella disprezzata categoria dei “marginali”, e infine tramite l’appartenenza razziale.

L’identificazione delle marginalità da colpire e il compiacimento nel misurare la violenza che contro di esse va via via scatenandosi completano questo processo di alienazione e allontanano tragicamente la prospettiva di restituire coscienza di sé ai vari strati di cui si compongono le classi subalterne. Falsa coscienza che stabilisce il nesso di funzionalità tra l’elemento sovrastrutturale (la fascistizzazione) e l’elemento strutturale (la crisi economica e la distruzione delle forze produttive nel nostro paese. Le classi lavoratrici sono, infatti, l’unico strato sociale rimasto ad avere un interesse diretto alla salvaguardia della capacità del paese di produrre ricchezza. Questa realtà, venuta chiaramente alla ribalta per la prima volta, nell’esperienza italiana, con la Resistenza antifascista e l’accanita difesa armata delle fabbriche da parte degli operai contro l’invasore tedesco, deve essere occultata e dimenticata per permettere al processo di concentrazione del capitale di tradursi con successo in guerra economica perdurante per la distruzione indotta delle forze produttive nei paesi subalterni. Capitale finanziario e fascistizzazione della società sono rispettivamente elementi portanti della struttura e della sovrastruttura nel blocco storico che determina i destini della nostra epoca.

Visti in questi termini, la durata e i destini dell’asse di governo Lega-M5S e la possibilità dello stabilizzarsi di un possibile monopolio del potere nelle mani di uno di questi partiti sono da considerarsi elementi marginali rispetto al quesito principale: quale società erediteremo quando la complessa transizione in atto sarà giunta a compimento? Molto dipenderà dalla capacità, fino ad ora assai dubbia, degli elementi progressivi ancora attivi di dare una risposta adeguata al livello dello scontro. In altre parole, la discriminante sarà rappresentata dalla possibilità o meno di dar vita a un partito rivoluzionario capace di conquistarsi un legame organico con la classe e produrre coscienza politica. Se ciò dovesse avvenire, e se da ciò dovessero derivare le rotture necessarie ad aprire all’Italia la via della salvezza, il livello dello scontro di classe salirebbe esponenzialmente e l’alternativa “socialismo o barbarie” tornerebbe d’attualità come espressione non di un avvenire minaccioso, ma della speranza che solo la lotta può dare. In caso contrario, qualunque opzione politica venga a incarnare l’orrore dei prossimi decenni, la loro cifra reale non cambierà.

Possiamo essere certi, comunque, che la catastrofe democratica rappresentata in particolare dall’azione di governo di Matteo Salvini stia già segnando un salto di qualità vertiginoso nell’imbarbarimento delle nostre relazioni umane, la cui qualità determina l’unico terreno sul quale edificare la possibilità di costruirci un avvenire migliore. È nella ricerca di questo risultato che consiste la vera natura del processo di fascistizzazione in atto, che per nessuna ragione dobbiamo stancarci di denunciare e combattere.

Alessio Arena

30/06/2018 www.lacittafutura.it

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