Cosa significa «essere goccia»? Orso, un anno dopo

«Ciao, se state leggendo questo messaggio è segno che non sono più a questo mondo. Be’, non rattristatevi più di tanto, mi sta bene così; non ho rimpianti, sono morto facendo quello che ritenevo più giusto, difendendo i più deboli e rimanendo fedele ai miei ideali di giustizia, eguaglianza e libertà». Lo ha scritto Lorenzo Orsetti, Orso per gli amici, Tekosher Piling per le Unità di protezione del popolo (Ypg), l’esercito rivoluzionario curdo di cui vestiva l’uniforme mentre è caduto in combattimento il 18 marzo 2019 in Siria, presso Baghuz. Partecipava al penultimo assalto contro lo Stato islamico, nelle decisive fasi di una guerra che aveva provocato in cinque anni decine di migliaia di morti. Giustizia, eguaglianza e libertà non erano compatibili con il Califfato dell’Isis, mentre lo erano con le trasformazioni di genere, sociali, politiche ed economiche avviate nelle zone liberate dal Movimento per la società democratica (Tev Dem), di cui le Ypg sono le forze di protezione. «Quindi, nonostante questa prematura dipartita, la mia vita resta un successo, e sono quasi certo che me ne sono andato con il sorriso sulle labbra. Non avrei potuto chiedere di meglio. Vi auguro tutto il bene possibile». 

Fare della propria vita «un successo» e non mera sopravvivenza: questo sembra rendesse felice Lorenzo, anche mentre rischiava la vita. Di che genere di «successo» stiamo parlando? Non certo quello imprenditoriale dei ristoratori fiorentini per cui Lorenzo aveva lavorato per anni, e che disprezzava, considerandolo responsabile delle riproduzione sul mercato del lavoro dell’individualismo egoista, dello sfruttamento cinico e di una competizione immorale tra le persone. La sua idea di successo era opposta – vertiginosamente: «Spero che anche voi un giorno (se non l’avete già fatto) decidiate di dare la vita per il prossimo, perché solo così si cambia il mondo. Solo sconfiggendo l’individualismo e l’egoismo in ciascuno di noi si può fare la differenza». Un’inclinazione talmente radicale ad agire per gli altri, anziché contro gli altri, da donare loro la vita. Non perché l’abbia ordinato il cielo, ma perché «soltanto così» si cambiano la vita e la terra.

Era arrivato nell’autunno del 2017 in Rojava, la regione curda della Siria, e fu lì che lo incontrai di persona un’unica volta. Pochi mesi dopo avrebbe combattuto per difendere Afrin, nella provincia di Aleppo, da ventimila miliziani jihadisti coperti dall’avanzata dell’esercito turco. Fu lì che lui, italiano, si trovò a combattere contro gli elicotteri venduti alla Turchia dall’Italia a protezione (informarsi per credere) dei fondamentalisti islamici; e fu testimone dei crimini di guerra che grazie a quei mezzi in Siria vengono commessi. Sarebbe sopravvissuto per miracolo insieme a Jacopo, Maria Edgarda e altri italiani. Tutti impegnati come volontari senza premi o guadagno di sorta, per aiutare una rivoluzione sotto attacco là dove sentivano che ce n’era bisogno. Questo, naturalmente, significava rischiare la vita, e tutti loro, ad Afrin come altrove, ne erano consapevoli. Pure Lorenzo ne era consapevole e ciononostante partecipò anche, nei mesi successivi, alla lunga offensiva contro l’Isis a Deir el-Zor.

Chi era con lui dice che il suo stato d’animo era cambiato durante il periodo in Rojava, e in meglio. «Il viso gli si era come illuminato, era un’altra persona», racconta un italiano che ha combattuto con lui nel fumetto Macellisplendido omaggio a Orso di Zerocalcare. Io lo sentivo su internet, perché ero ritornato in Italia proprio dopo averlo incontrato. Pochi giorni prima di morire aveva finito di leggere, nelle retrovie in cui la sua unità era stata ritirata, il libro che avevo scritto sulla rivoluzione che lui stava difendendo, Il fiore del deserto. L’aveva apprezzato e ne fui felice. Il suo giudizio contava per me. Non lo conoscevo bene, ma non avevo mai avuto a che fare con un volontario italiano che mostrasse tale dedizione per la causa. Speravo inoltre che leggere un approfondimento sulle cooperative egualitarie, le comuni popolari, le assemblee delle donne (che lui poteva visitare solo di rado, perché impegnato nell’esercito) gli desse ancor più morale e spirito nel combattere.

Prima di chiudere la conversazione, quell’ultima volta, mi scrisse: «A presto. Per qualsiasi cosa, io sono qui». Qui? Restai stupito. Per qualsiasi cosa tu sei lì, in Siria, sul fronte di Deir el-Zor, ad avanzare contro gli ultimi superstiti, i più fanatizzati, dello Stato islamico? Se lo avessi conosciuto altrimenti, ne sono sicuro, non avrei avuto modo di scoprire la forza del sentimento umano che era in lui. Lui «c’era» – per me! – mentre si trovava in guerra. Mi aveva visto una volta, non avevamo neanche combattuto insieme, mi conosceva per lo più attraverso ciò che avevo scritto; mentre lui combatteva, io stavo a Torino attaccato a un computer, eppure lui «c’era» per me. Sono certo che non si rese neanche conto della generosità incredibile, anche perché totalmente ingenua e spontanea, contenuta in quel pensiero. Più di un pensiero: in quei giorni era stato intervistato da Le iene, e la prima cosa che aveva detto era stata che il suo pensiero «correva subito ai compagni Eddi, Jacopo, Jak, Paolo e Davide», perché la procura di Torino ci aveva dichiarati «socialmente pericolosi» per aver sostenuto la causa confederale, proponendo di relegarci a una «sorveglianza speciale». Prospettiva poco piacevole, certo, ma certo non paragonabile a quella che affrontava lui. Eppure lui era lì per noi.

Mancavano poche ore al momento in cui l’Isis avrebbe diffuso la foto dei suoi documenti e i suoi compagni avrebbero fatto circolare le sue ultime parole. Credo possa fare a tutti un certo effetto rileggerle in questo particolare momento. «Sono tempi difficili lo so, ma non cedete alla rassegnazione, non abbandonate la speranza, mai! Neppure per un attimo». Dobbiamo tenere a mente che, per quanto sia difficile la situazione che noi stiamo vivendo ora, non sarà mai paragonabile a quella che viveva lui quando ci scriveva, un anno fa. «Non cedete alla rassegnazione, non abbandonate la speranza». Proviamo a immaginare cosa deve aver vissuto in quei mesi. Proviamo ad approssimare. Ci sono cose che si «capiscono» soltanto in guerra; ciononostante chi non ha vissuto la guerra può provare a immaginare, ne ha anzi credo il dovere. «Anche quando tutto sembra perduto e i mali che affliggono l’uomo e la terra sembrano insormontabili, cercate di trovare la forza, e di infonderla nei vostri compagni. È proprio nei momenti più bui che la vostra luce serve». E ricordate, continuava, «che ogni tempesta comincia con una singola goccia. Cercate di essere voi quella goccia».

Questa frase, un anno fa, ha colpito l’Italia. È stata un fulmine per milioni di persone. È rimbalzata su internet, sui quotidiani, sui telegiornali. Essere goccia, rendere possibile la «tempesta». Una tempesta? Che cos’è? Si percepisce qui la distanza da cui la lettera è stata spedita, rispetto ai milioni che l’hanno ricevuta. Nella tempesta lui c’era. Noi no. Soltanto chi ha attraversato la rivoluzione, chi ha partecipato alle offensive delle Forze siriane democratiche può intuire quale genere di tempesta Lorenzo potesse in quel momento avere attorno e nel cuore. Non risulta da nessuna testimonianza che Lorenzo amasse la violenza. La tempesta è un cambiamento storico, sociale e politico la cui forza è proporzionale ai torti fatti dagli uomini alle donne, e dagli uomini ad altri uomini, nel corso della storia. È il tentativo di avviare un percorso inverso per porvi fine. La violenza rivoluzionaria, se agita secondo un’etica socialista e democratica, forgiata nell’autocritica e nella trasformazione di sé, non costituisce un «inizio», magari pretestuoso, delle ostilità. Si inserisce in una lunghissima storia di ostilità: poiché se vi sono ingiustizia, diseguaglianza e negazione della libertà, queste sono ostilità, e non è quindi la rivoluzione a iniziarle. Ed è questo genere di tempesta, lo ricordino tutti, cui Orso si riferiva.

Tuttavia è curioso che, in questi dodici mesi, tanti abbiano scritto sui muri e sui social network, o abbiano urlato nei microfoni: «Saremo tempesta». Orso non ha mai scritto «siate tempesta», semmai: «siate goccia». C’è una differenza. «Saremo tempesta» suona come un equivoco, effetto di una qualche disattenzione, forse rivelatrice; una sorta di lost in translation familiare, perché dall’italiano all’italiano ma dalla guerra alla pace, dalla rivoluzione alla facile promessa, dal testamento politico allo slogan. Questa reazione può aiutare a capire perché Lorenzo, così rivoluzionario in Siria, non era mai stato un militante in Italia. Non lo era stato neanche in quei mille gruppi impegnati e frammentati che giustamente ne alzano oggi il ritratto. Ricordo come reagì quando gli chiesi, in Rojava, se appartenesse a qualche collettivo o centro sociale della sua città: nel dire di no assunse un’aria strana, come se preferisse non parlarne. Mi è stato spiegato poi che non aveva una grande opinione dei centri sociali fiorentini, e neanche di un certo genere di «militanti politici», tra i quali io indubbiamente ricadevo.

Lungi da me presentare qualsiasi atteggiamento di Lorenzo come il verbo, soltanto perché è morto. Nulla potrebbe essere più stupido, e lui stesso ne riderebbe a crepapelle. Ci direbbe anzi: pensate piuttosto a Leopoldo Odelli, vivo, che è a Kobane oggi a rischiare la vita nel Rojava occupato e sotto attacco, e nessuno ne parla. I nostri amici inestimabili non possono ottenere attenzione soltanto se e quando tornano cadaveri. Leopoldo, un giovane di Cremona, ha diffuso in questi mesi diversi messaggi dal Rojava. Pensiamo a lui e a tutte e tutti gli internazionalisti oggi laggiù, ogni giorno e ogni volta che pensiamo a Lorenzo e al suo messaggio; e ripensiamo bene a quel messaggio. Le Ypg scrivono sui muri: «Ogni martire è un esempio di vita»; e noi, senza idealizzarlo, dobbiamo arrovellarci su quale sia l’esempio di Lorenzo – l’uomo, il combattente, il ragazzo che, immerso nella guerra, a un passo dalla morte, ci ha scritto: «siate gocce». Ha poi aggiunto che ci ama tutti, ma anche un’altra cosa importante: «Spero farete tesoro di queste parole».

Facciamone tesoro, quindi, e chiediamoci: preferiamo essere «tempesta» nella nostra immaginazione onirica, triviale, propagandistica o patetica, o gocce nella realtà? Perché la tempesta reale non esiste senza gocce, mentre quella immaginaria può tranquillamente raccontare sé stessa altrimenti.

Non si crede da tempo a ciò che si dice. Non gli si dà peso, invece un peso ce l’ha. Se un giorno la storia o la vita mi portassero dentro a una tempesta simile a quella che una volta ho vissuto, mi sentirei mancare il fiato. Non collochiamo Orso in un catalogo di famiglia. Quel catalogo di famiglia non esiste. Lui, in ogni caso, non ci dovrebbe stare. Il suo gesto è stato alto, altissimo, fuori dal comune. Non investiamo la delicatezza della sua modestia con fraseologie roboanti. Lorenzo non conferma nessuna delle nostre certezze. Non ha centrato le aspettative di nessun mondo separato. Lorenzo ha colpito l’immaginazione del popolo. Pochi giorni dopo il suo martirio una professoressa mi ha mandato, su Facebook, la lettera inviatale da un suo alunno:

Ciao prof., ci hai detto che se abbiamo casini te lo possiamo dire o scrivere. Questo non è un casino ma dall’altro giorno ho una questione. Te la dico: mi dispiace per questo lutto, non ho capito se lei conosceva Lorenzo Orsetti di persona o no ma forse non importa. Io non lo conoscevo, anzi non sapevo proprio chi era, però dall’altro giorno ci penso perché non capisco delle cose e a uno così avrei voluto fargli delle domande. Ho cercato su Google la guerra in Siria ed è troppo complicata, mi sono stancato di leggere (se poi ce la dice a scuola potrebbe essere interessante), però mi sembra che questi gruppi di cui abbiamo parlato lottino per cose molto comprensibili: la libertà e la vita sono valori che capiamo tutti. O no? Prof., come si prende una decisione così? Immagino che anche tu hai pianto, io sì, però a casa. Sai che penso che di fronte a un coraggio così grande io sono piccolissimo? Se Lorenzo è stato così coraggioso forse anche noi dovremmo esserlo di più: non solo per andare in guerra ma anche per cose più piccole. Qualche giorno fa (prima che ci parlasse di Lorenzo) ai giardinetti vicino al comune c’era uno che ha tirato un calcio a un piccione che era già mezzo morto. Io volevo dirgli qualcosa ma ho avuto paura che picchiasse anche me. Penso invece che dovevo andare da lui e incazzarmi, non solo per quel piccione ma anche per altri piccioni o per le persone a cui questo idiota può fare del male. È un modo di essere goccia? Tu come fai ad essere goccia? La paura non ci può bloccare sempre e anche se ce l’abbiamo non può essere una giustificazione per rimanere immobili. Hai detto che quando c’è una situazione ingiusta se noi non decidiamo da che parte stare allora stiamo dalla parte sbagliata. Penso che hai ragione. Glielo volevo dire ma non in classe perché non si riesce a parlare bene. Ci vediamo giovedì.

Davide Grasso

dal 2015 è attivo tra Europa e Siria in sostegno della Federazione democratica della Siria del Nord e nel 2016 si è unito alle Forze siriane democratiche per combattere l’Isis. È autore di New York Regina Underground. Racconti dalla Grande Mela (Stilo Editrice, 2013), Hevalen. Perchè sono andato a combattere l’Isis in Siria (Alegre, 2017) e di Il fiore del deserto (Agenzia X, 2018)

18/3/2020 jacobinitalia.it

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