CRITICA POLITICA AL CIBO SINTETICO: UN’ALTRA VERITA’

Una critica politica al “FAKE FOOD” per un veganismo popolare – Di Lorenzo PoliIniziamo con questa dettagliata critica sul cibo sintetico la collaborazione con Lorenzo Poli, che scriverà per noi degli approfondimenti, sulle tematiche che ci stanno più a cuore. Punti di vista, supportati da studi e ricerche, a volte scomodi, che magari non tutti condividono, ma che sono ottimi spunti di riflessione.
Di quale “sostenibilità” parliamo?
Se non si mette in discussione il modello di sviluppo, di produzione e di consumo e il nostro rapporto con l’alterità non può esserci futuro veramente ecologico.
Adesso si parla della Quarta Rivoluzione Industriale e dell’evoluzione del capitalismo avanzato, ma non è la
prima volta che il capitalismo globale annuncia di voler “convertirsi alla sostenibilità”.

Eppure le vie della sostenibilità sono infinite: una visione burocrate da Ministero dell’Ambiente con supporto delle rispettive lobby industriali potrebbe portare ad investire nelle “tecnologie sostenibili”; un attivista ambientalista punterebbe sulle risorse rinnovabili e sul cibo biologico, un attivista vegano, vegetariano e antispecista punterebbe alle alimentazioni sostenibili ed ecologiche senza violenza animale, mentre i deep ecology movement e i teorici dell’ecologia sociale sosterrebbero tutto questo aggiungendo una critica alle false soluzioni tecnocratiche sulla crisi climatica (OGM, Agrocombustibili, Agricoltura Climaticamente Intelligente, Geoingegneria), dando importanza più alla sinergia tra animali umani, animali non-umani e Madre Terra attraverso un modello di vita non-gerarchico che si rifà alle epistemologie indigene. Quindi quando si parla di sostenibilità bisogna chiedersi soprattutto in che modo si vuole creare le sostenibilità, parola spesso prostituita dalle burocrazie neoliberiste.

Come movimenti ambientalisti e anticapitalisti, oggi, non possiamo credere che de-carbonizzare l’economia sia veramente solo l’unico presupposto per un cambiamento di paradigma economico ed ecologico. Anzi, sappiamo benissimo come il mondo della finanza abbia inventato, insieme ai colossi dell’energia fossile, il mercato mondiale per lo scambio dei permessi di inquinamento, la soluzione ai problemi del clima che entusiasma Wall Street. Invece di ridurre le emissioni di gas che causano il caos climatico, i grandi inquinatori pagano alcune comunità perché continuino a curare i loro boschi, oppure pagano altri soggetti perché piantino monoculture di soia, palma da olio e altre colture. Colture che, secondo questa visione affaristica, presumibilmente assorbono anidride carbonica compensando il fatto che le loro aziende continuino a inquinare. Le multinazionali, per mantenere questo affare, pagano poco alle comunità e agli agricoltori e poi rivendono i crediti di carbonio che teoricamente “generano” in quelle aree, moltiplicando molte volte la somma iniziale. Senza fare nulla, aumentano così i loro profitti. Inoltre, si dipingono di “verde” e affermano di essere “neutrali dal punto di vista climatico” o di avere “emissioni nette zero”.

Questo è quello che la biologa e direttrice di ETC Group Silvia Ribeiro ha definito “colonialismo climatico” e che il presidente boliviano Luis Arce ha chiamato green capitalism in quanto i Paesi sviluppati costruiscono discorsi dove appaiono come i campioni della lotta climatica con il tema “del bilancio delle emissioni entro il 2050”, ma in realtà promuovono un nuovo processo di ricolonizzazione mondiale che possiamo chiamare il “nuovo colonialismo del carbonio”, dove stanno imponendo le nuove regole del gioco per continuare ad alimentare il nuovo sistema capitalista
“verde”, sostenendo che i Paesi in via di sviluppo debbano accettare queste regole del gioco senza discutere, senza poter proporre qualsiasi opzione alternativa. Si tratta dell’ennesima operazione ben architettata di greenwashing che i governi neoliberisti e l’industria del fossile hanno iniziato a chiamare “giustizia climatica”.

Oggi sta succedendo che i grandi colossi si appropriano dello slogan “de-carbonizzare l’economia” per non
cambiare veramente l’economia. Una sottile operazione di greenwashing parallela all’appropriazione coloniale del “cibo sotto brevetto” da parte delle grandi multinazionali dell’agro-chimico-alimentare che, per quanto spaccino i loro prodotti per ecofrendly, nulla hanno di ecologico e sostenibile. In questo grande serbatoio vi è anche il nascente settore del cibo sintetico, una chimera della Quarta Rivoluzione Industriale che avrebbe lo scopo di creare “un’alimentazione sostenibile” per il futuro liberandoci presumibilmente dagli allevamenti intensivi.
Secondo gli innovatori-creatori, il cibo sintetico risolverà ogni genere di problema: dalla fame nel mondo, allo sfruttamento degli animali, all’inquinamento, al costo del cibo di qualità, ai problemi di salute legati a ciò che mettiamo nel piatto. Se scaviamo più a fondo di questo nuovo core business, capiamo che la realtà è molto diversa da ciò che appare.

Dal boom della carne alla “necessità” di una dieta vegetariana e vegana

Nell’immediato dopoguerra assistiamo ad un aumento spropositato del consumo di carne. Le popolazioni, con la fine della Seconda Guerra Mondiale, abbandonano sempre di più i loro stili di viti e la loro alimentazione molto parca fatta pressochè di verdura, legumi e cereali. In una intervista, che feci al Dottor Antonio Lupo di Amigos MST Italia, era lui stesso che ricordava come sua madre lo costringeva a mangiare spesso la bistecca perché si voleva imitare gli americani, che “avevano liberato l’Italia”. Erano già i sintomi di una colonizzazione culturale che dagli USA stava invadendo il globo. Nel 1951, si inizia a parlare di “cibo spazzatura”, ma sarà nel 1972 che il microbiologo vegetariano Michael Johann Jacobson parlerà espressamente di junk food per indicare quel cibo considerato malsano a causa
del suo bassissimo valore nutrizionale ed all’elevato contenuto di grassi saturi, sale e zuccheri raffinati tipici delle preparazioni industriali dei fast food americani come hamburger, wurstel, hot dog, patatine fritte, bibite zuccherate e dolci elaborati. Questa grande quantità di carne è sempre derivata da una produzione industriale su larga scala con un
grandissimo impatto ecologico per il Pianeta comprendente squilibri degli ecosistemi, deforestazione e devastazioni di intere zone del mondo per lasciare spazio ad uno sfruttamento animale sistematico in grossi capannoni con costi per quanto riguarda le emissioni di “gas serra” e altre sostanze inquinanti derivanti dalla zootecnia intensiva. Un fatto scientifico risaputo, ma che in quel momento storico i “detentori della scienza” (laboratori finanziati dai finanziatori degli allevamenti intensivi) non avevano alcuna intenzione di diffondere. Qualora sarebbe stato posto il problema in termini scientifici ed ecologici, subito erano pronti a tacciarla come una “bufala” derivante dalla fantasia di qualche ambientalista radicale, pauperista e “contro il progresso”. Questo è successo fino all’altro giorno quando si ridicolizzava questa tesi dicendo: “c’è chi crede che le scoregge delle vacche inquinino” – frase fuorviante ma che veniva riportata in tal modo per accentuare la confusione sul tema.

Nel Rapporto FAO del 2006 Livestock’s long shadow è stato calcolato che gli allevamenti intensivi producono il 18% di anidride carbonica, metano e ossido di azoto, mentre, ad esempio, l’attività di trasporto via terra, acqua e mare ne causa solo il 14%. In un recente studio di due degli autori dello stesso Rapporto FAO, il valore è stato revisionato e risulta ammontare addirittura al 51%, poiché in Livestock’s long shadow alcune voci non erano state conteggiate.
D’altra parte, come si può evincere dai dati sopracitati, un decisivo impatto ambientale (quasi il 60%) è dovuto ai naturali processi di digestione degli animali (letame e fermentazione intestinale). Quindi il tema è l’innaturale quantità di presenza animale negli allevamenti intensivi che altera gli equilibri ecologici, anche attraverso l’impiego stesso delle monocolture intensive: quasi l’80% della soia prodotta nel mondo va ad alimentare gli “animali da carne”, secondo il WWF.

Nella seconda metà del Novecento il consumo globale di carne è aumentato di 5 volte, passando dai 50 milioni di tonnellate del 1961 agli oltre 300 milioni di tonnellate attuali (2020) (Our World in Data website; Meat consumption, health and the environment, H.C.J.Godfray, et all (2018).
Un aumento dovuto all’incremento demografico mondiale (nello stesso periodo gli abitanti del pianeta sono cresciuti da 3 a 7,6 miliardi) ma anche all’aumento del benessere di parte della popolazione. Nei Paesi più ricchi (Stati Uniti, Australia, Europa), ma anche in Argentina, Brasile o Messico il consumo di carne supera gli 80 kg pro-capite medi all’anno – Meat and seafood production and consumption, Hanna Ritchie and Max Roser, Our World in Data (2017) – sebbene 26 kg l’anno siano sufficienti ad un adulto sano. I consumi sono elevatissimi ma stabili nei Paesi occidentali.
Come affermava Antonio Lupo: “In Italia la carne consumata è passata dai 16 Kg pro-capite/anno del 1960 agli attuali 75 Kg, anche se c’è una lieve tendenza al ribasso” – per l’aumento dei vegetariani e della conoscenza sulla “qualità” di questa carne, magari anche sterile, ma ottenuta da animali nutriti con foraggi OGM, ultra-processata, ultra-trattata, piena di residui chimici e di antibiotici (la cui presenza negli alimenti è tra le cause del fenomeno della antibiotico-resistenza).
La produzione industriale di carne sta esercitando pressioni fortissime sulle risorse ambientali. Come ha dichiarato la FAO in un rapporto del 2016, il settore agricolo produce il 24% delle emissioni climalteranti globali e quello zootecnico il 14,5%

Nel nostro Paese, una riduzione del 10% dei consumi di carne equivarrebbe per ogni italiano alla diminuzione di 8 kg l’anno, ovvero 150 gr a settimana (si intende carne di animali terrestri, esclusi pesce e prodotti ittici). Secondo studi accreditati, una diminuzione del 10% ridurrebbe le emissioni annuali di 0,242 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti.
Come ha scritto LAV nel suo rapporto “Allevamenti intensivi e cambiamenti climatici”: “Sostituire 1 kg di carne a settimana fa risparmiare 1872 CO2 equivalenti in un anno, mentre sostituire una lampadina da 60 W con una a basso consumo 26. Sostituire 1 kg di carne suina, bovina e di merluzzo al mese, invece (sempre per un anno), ne fa risparmiare rispettivamente 96, 344,4 e 86, 4 e mangiare solo ed esclusivamente cibo locale (anche vegetale), 367. Quindi un piatto ricco di proteine vegetali diminuisce l’emissione di GHG da circa 10 a 30 volte rispetto ad uno di proteine animali”. Alla luce della sensibilità filosofica per i diritti animali e per l’antispecismo, queste nozioni pongono la necessità di promuovere le diete vegetariana e vegana soprattutto per il fatto che ogni anno 60 miliardi di animali al mondo vengono allevati in condizioni di tortura, mentre il consumo di carni derivanti da animali malati causano 2.4 miliardi di problematiche di salute nei consumatori, e 2.2 milioni di morti l’anno.

I vantaggi delle diete vegetariane e vegane sono innumerevoli: con l’assunzione di cibi vegetali è possibile soddisfare il proprio bisogno di proteine senza introdurre colesterolo e grassi saturi; i cereali (pane, pasta, riso, ecc) e i legumi (fagioli, lenticchie, ceci, soia, piselli ecc) forniscono tutti gli aminoacidi necessari nelle giuste quantità e proporzioni; i legumi contengono pochi grassi e molta fibra alimentare, esercitano un’azione «ipocolesterolemizzante», contengono una discreta quantità di fosforo, calcio e ferro ed apportano quantità apprezzabili di alcune vitamine del gruppo B (B1, B2 e niacina), e, allo stato fresco, anche di vitamina C.
Si tratta di soluzioni non facilmente realizzabili nell’arco di un breve periodo di tempo, passando attraverso una consapevolezza interiore, ecologica, culturale e politica, partendo da una critica della fallacia di libertà illimitata delle azioni umane sull’esistente per prendere le distanze dall’antropocentrismo e da una visione gerarchica e dicotomica dell’organizzazione della vita sulla Terra.
Erano proprio stati i due degli autori del Rapporto FAO Livestock’s long shadow, a dichiarare esplicitamente qualche anno fa che non esiste misura più efficace, pratica e allo stesso tempo rapida, in grado di diminuire le emissioni di GHG come la diminuzione dei consumi di prodotti animali. Inoltre lo studio Weber C. e R.
Saunders, 2008. Do food miles matter? Science news, pubblicato nel 2008 dell’Università di Oxford confutava anche la retorica secondo la quale si può ridurre il proprio impatto ambientale orientandosi su carni di allevamenti locali, dimostrando che si può risparmiare di più in termini di GHG sostituendo carne e pesce con cibi vegetali una sola volta a settimana.

Una persona che venga a conoscenza di tutto questo, anche pur non nutrendo alcuna empatia per la sofferenza psicologica e fisica a cui gli animali vengono quotidianamente sottoposti negli allevamenti intensivi, non può ignorare che la sua scelta alimentare contribuisce a mantenere in piedi un mercato non ecosostenibile e non ecocompatibile, che contribuisce giorno dopo giorno a rendere questo Pianeta sempre più inquinato e sempre più povero di flora e fauna. Perfino l’ONU ha lanciato un appello dove consiglia di approcciarsi sempre più ad una alimentazione libera da carne e prodotti di derivazione animale per ridurre la devastazione delle risorse del pianeta.
La domanda sorge spontanea: come procacciarsi il cibo vegetale in modo ecologico e, si spera, sano?
Fino a qualche anno fa si opponeva l’industrializzazione dell’agricoltura e degli allevamenti intensivi con l’agroecologia, con le economie agricole localizzate pensate per distretti secondo le logiche del “pensare globale e agire locale” e per avere cibo a kilometro zero. Insomma delle scelte per la Natura, per gli animali, per gli ecosistemi e per la salute umana. A questo si aggiungevano le varie alternative agro-ecologiche e veramente sostenibili e realizzabili a livello locale su piccola scala come l’agricoltura naturale e biologica, l’agricoltura sinergica, la permacultura, l’agricoltura biodinamica, il bio-intensivo o le nuove tecniche di agro-forestazione sintropica: sistemi di agricoltura dove gli animali non sono contemplati come “forza lavoro” o “merce”, ma in cui sono parte di un ecosistema in cui rivestono un ruolo ecologico nel “taglio” dell’erba e nella pulizia dei prati e nei campi in modo del tutto spontaneo e naturale. Questo soprattutto in contrasto alle monocolture intensive, agli input di pesticidi da cui ormai sono dipendenti e lasciando che gli animali possano vivere in Natura.
Inoltre questo è avvantaggiato dal fatto che i piccoli contadini, che utilizzano solo il 30% delle terre coltivabili nutrono il 70% della popolazione mondiale, mentre l’Agrobusiness, che ne detiene il 70%, nutre solo il 30% della popolazione mondiale.

Motivo in più per una svolta ecologica e per abbandonare l’industrializzazione dell’agricoltura e il cibo industriale.
Anche se qualche anno fa questa risposta sembrava scontata, oggi non lo è più perché l’agrobusiness è molto consapevole del suo ruolo nella crisi climatica e nella devastazione degli ecosistemi, ma non può permettersi di rimanere inerme di fronte alle nuove sensibilità e alle nuove esigenze della gente che reclamano più attenzione per l’ambiente e per il benessere animale.
Laddove c’è una sensibilità collettiva crescente, vi è anche l’opportunità per le multinazionali di aprire un nuovo mercato di nuovi brand. È così che l’agrobusiness, dopo aver dato origine alla zootecnia intensiva, alle impattanti monocolture intensive, alla “Rivoluzione Verde” prima dei pesticidi e dei fertilizzanti con la Fondazione Rockfeller e poi degli OGM con la Fondazione Gates, e all’alimentazione di massa del cibo- spazzatura del Mc Donald incrementando malattie come l’obesità, il diabete, malattie cardiovascolari, alcuni tipi di cancro e la depressione, oggi ci propone/ci vende una panacea alla cause dei loro mali: il cibo sintetico, chiamato fake food.
Per capire la portata di questo fenomeno, bisogna guardare alle attuali operazioni di rebranding dei colossi multinazionali dell’agrochimica, in cui sono cascati anche molti giornalisti attenti alle questioni climatiche e ambientali definendo il “cibo tecnologico” come “il cibo del futuro”. D’altronde, pensare ad un’alimentazione fondata sull’agroecologia che si basi su economia locali e non più su una economia globale, potrebbe intaccare ciò che è il core business che queste multinazionali hanno costruito negli ultimi
due secoli.

Fake food: una “necessità” costruita dai tycoon dell’online per l’industria della carne

Iniziamo col dire che il fake food avrebbe l’intenzione di sostituire i prodotti animali con alimenti altamente
trasformati coltivati in laboratorio, come carne, latticini o uova sintetiche, grazie all’avvento di innovazioni
tecniche come la biologia sintetica, che comporta la riconfigurazione del DNA di un organismo per creare
qualcosa di diverso.

CONTINUA SU file:///C:/Users/PepWeb/Downloads/Critica%20al%20cibo%20sintetico.%20L’altra%20verit%C3%A0%20di%20Lorenzo%20Poli%20-%20RadioVeg.it.pdf

Sono Lorenzo Poli, sono nato a Brescia e dopo la maturità classica,
ho iniziato a frequentare il corso di Scienze Politiche Relazioni
Internazionali Diritti Umani all’Università di Padova. Appassionato
di attualità politica, politica internazionale, questione di genere e studi
postcoloniali mi interesso di temi riguardanti diritti umani,
antirazzismo, femminismo, liberazione animale e antispecismo con
particolare attenzione all’intersezionalità dei contesti. Da qualche
anno mi occupo, da autodidatta, di popoli in lotta contro
l’imperialismo, di America Latina, di conflitti in Medioriente, in
particolare la Palestina in una prospettiva decoloniale.
Dal 2019 sono parte della Redazione di InfoPal, agenzia stampa sulla
Palestina, e dal 2020 della Redazione di Pressenza Italia, agenzia
stampa internazionale sui diritti umani, la pace, la nonviolenza e il
disarmo. Dallo stesso anno scrivo sui temi della salute, della
prevenzione primaria e dell’ecologia sociale per Lavoro e Salute
Blog, il cui mensile è supplemento di Medicina Democratica.
Dal 2021 ho fondato la Redazione Sebino Franciacorta di Pressenza
per dare voce alle problematiche ambientali e non solo del territorio.
Collaboro saltuariamente con Invictapalestina, VentunoNews,
Altrenotizie.org sui temi della Palestina e dell’America Latina.
Nel 2019 ho contribuito a fondare Progetto EcoSebino, progetto di
rigenerazione eco-sociale che interseca le lotte per la giustizia
ambientale e per la giustizia sociale sul territorio del Lago d’Iseo. Ho
collaboro con Il Periodista ed ho pubblicato nel 2016 il mio primo
romanzo “Luce al di là del Buio”, edito da Marco Serra Tarantola
Editore

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