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Altra Informazione, Ambiente e salute, Blog, Comitati di Lotta, Cronache di Lavoro, Cronache Politiche, Cronache Sindacali, Cronache Sinistra Europea, Cronache Sociali, Culture, Editoria Libera, Politiche di Rifondazione, Storia e Lotte — Novembre 15, 2020 8:45 am

“Personalmente sono molto scettico. Non ho mai ritenuto che l’alternanza repubblicani/democratici (e viceversa) potesse rappresentare, in Usa, un sostanziale e radicale cambiamento di politiche sociali ormai consolidate; solo poco più che un “ritocco”.” Una articolata nota di Renato Fioretti sulle recenti elezioni negli Stati Uniti

DA TRUMP A BIDEN: AI POSTERI L’ARDUA SENTENZA

Pubblicato da franco.cilenti

Se è vero che, nell’immaginario collettivo, anche di tanti nostri connazionali, gli Usa continuano a rappresentare un “Grande Paese” – in grado, ancora oggi, di offrire a tutti un’opportunità e una prospettiva di benessere, singolo e collettivo – è, a mio parere, altrettanto vero che sarebbe opportuno prendere atto di una realtà sostanzialmente diversa.
Naturalmente, esprimo un’opinione personale, legittimamente contestabile; mi conforta, però, rilevare di essere in nutrita e ben più qualificata compagnia (1).

In questo senso, ho frequentemente espresso considerazioni molto negative nei confronti del Paese che, con supponenza e protervia, pretende – addirittura – di “esportare la democrazia”!

E sarebbe sin troppo facile – perché a tutti ampiamente noto – dimostrare cosa abbia rappresentato la politica estera Usa e quali nefaste conseguenze abbia generato, in tutte le parti del mondo, il suo “interventismo (2) ”

Procedendo per “macro capitoli” sarebbe sufficiente rilevare gli effetti prodotti nel Sud-est asiatico e in America del Sud.

Ma quali sono le motivazioni che m’inducono ad esprimere un giudizio negativo su quella che considero una democrazia “incompiuta”?

Solo per motivi di “spazio”, mi limiterò ad alcune considerazioni rispetto a due punti che considero tra i più rappresentativi: 1) il sistema elettorale e 2) la giustizia penale.

Questioni che, insieme al sistema scolastico e a quello sanitario – dei quali sono ampiamente note le difficoltà di accesso e le enormi disuguaglianze – credo concorrano, in maniera determinante, a indicare il grado di “vivibilità democratica” di un paese.

Rispetto al primo, c’è un elemento che a noi italiani – ormai abituati al c.d. “suffragio universale (3) ” – dovrebbe già apparire, per lo meno, privo di senso logico; se non antidemocratico.

Infatti, come ampiamente noto, negli Usa, l’esercizio del diritto di voto non è automatico; è indispensabile richiedere la registrazione nelle liste elettorali e – elemento dalle intuibili conseguenze, in termini di partecipazione attiva – le operazioni di voto avvengono, ancora oggi, sempre in un giorno feriale; il martedì (4) . Oltre che presso i seggi, in molti Stati è possibile votare per posta (5).

A parte la particolarità attraverso la quale è possibile esercitare il diritto di voto, c’è un’altra procedura che, a mio parere, è poco condivisibile e dalle conseguenze – come vedremo – discutibilissime.

Infatti, per pervenire all’elezione (6) dei 538 delegati del “collegio elettorale (7) ” che, ogni quattro anni, ha il compito di eleggere il presidente e il vicepresidente degli States, i cittadini di ciascuno Stato votano su liste bloccate, secondo il metodo (Chi vince piglia tutto); ciò significa che il candidato che ottiene anche un solo voto in più rispetto al secondo arrivato conquista tutto (8) il pacchetto dei “grandi elettori (9) ”.

Questo sistema, però, da non pochi osservatori, è considerato assolutamente antidemocratico (10) in quanto – in ossequio a un inspiegabile criterio (11) concordato all’epoca della Convenzione Costituzionale, del giugno 1787 – gli Stati del Sud, anche se con popolazione inferiore ad altri, eleggono un numero superiore di “grandi elettori”.

Ciò rappresenta, non di rado, il motivo per il quale si realizza una mancata corrispondenza tra il risultato del voto popolare nazionale e quello espresso dai grandi elettori.

Non è un caso, infatti, che, negli ultimi venti anni, ben due presidenti Usa siano stati eletti da una minoranza dei votanti; George Bush (12) nel 2000 e Donald Trump (13) nel 2016.

E non solo questo.

La particolare incidenza, in termini di maggiore numero di grandi elettori, di alcuni Stati rispetto ad altri e una tradizione (più o meno consolidata) di carattere geografico – le due coste e le aree metropolitane ai democratici, il Sud e le aree rurali ai repubblicani – fanno sì che le campagne elettorali dei candidati alla presidenza si concentrino, in particolare, laddove il risultato finale offre maggiori margini d’incertezza.

In definitiva, a milioni di cittadini viene sostanzialmente negata la possibilità di incidere in una scelta di grande rilevanza; sociale prima che politica.

Tra l’altro, nonostante la presenza di diverse proposte di legge, tese al superamento dei collegi elettorali così concepiti, procedere a una riforma costituzionale è, nei fatti, praticamente impossibile; sarebbe sufficiente che 14, tra i 50 Stati, si dichiarassero contrari.

Al riguardo, qualche esperto ha ipotizzato la possibilità di procedere attraverso una legge ordinaria (senza l’esigenza di ricorrere a una modifica costituzionale) che sancisca l’assegnazione dei “grandi elettori” in maniera proporzionale rispetto ai voti popolari ottenuti dai due maggiori candidati (in ciascuno Stato).

Si tratta, però, di pura illusione. Infatti, tale soluzione sarebbe possibile (e non penalizzante, per chi volesse, comunque, adottarla autonomamente) solo con l’accordo di tutti gli Stati!

Un altro punto “dolente” d’oltre Atlantico è, senza dubbio, quello della giustizia penale.
In questo senso, rispetto alle attuali modalità di amministrazione della “giustizia” negli Usa, nulla potrebbe essere più istruttivo ed esauriente delle considerazioni e delle ipotesi di riforme contenute in un documento presentato alla stampa, nel corso della scorsa campagna elettorale, da una task force istituita da Joe Biden e dal senatore Bernie Sanders.

Già l’incipit del capitolo – oltre a quelli sull’estensione della copertura sanitaria attraverso il sistema “Medicare for all” e all’impulso all’economia “verde” – non ricorre a facili eufemismi nel denunciare una realtà che definirei “drammatica”.

“Il nostro sistema di giustizia penale” – recita il documento – “non è in grado di mantenere le comunità al sicuro e, soprattutto, non è in grado di garantire la giustizia”!

Inoltre: “Invece di realizzare investimenti mirati in tema di istruzione, occupazione, salute e alloggi che ………, il nostro sistema ha criminalizzato la povertà; ha tagliato i servizi pubblici ed ha esposto le comunità nere (nonché latino-americane) a un eccessivo controllo delle forze di polizia”. Invece di offrire ai detenuti l’opportunità di dare una svolta alle loro viti, le nostre carceri continuano a riferirsi a metodi inumani di punizione”.

Il che conferma, evidentemente, una realtà secondo la quale, ancora oggi, la concezione della pena detentiva si traduce in castigo e costrizioni; fisiche e morali.

Nulla a che vedere con concetti quali “rieducazione, riabilitazione e reinserimento sociale”.

Il passaggio successivo rappresenta, in sostanza, un’altra – drammatica – denuncia del presente: “Invece di trattare coloro che hanno scontato la loro pena come cittadini …………………, troppe leggi (14) continuano a punire gli ex detenuti, erigendo barriere per l’accesso all’alloggio, all’occupazione, all’istruzione e al diritto di voto di milioni di americani”.

Una fotografia impietosa quindi; opera non di un pericoloso bolscevico, né di un qualsiasi “socialista” (termine di fronte al quale, la stragrande maggioranza dei nordamericani, ricorre agli scongiuri).

Le considerazioni e le proposte di riforma del sistema vigente – che arricchiscono il documento dei democratici – rappresentano, in definitiva, un “j’accuse” inequivocabile nei confronti di una società nella quale “La brutalità delle forze di polizia è una macchia nell’anima della nostra nazione. È inaccettabile che più di mille persone vengano uccise dalla polizia ogni anno”.

“Noi democratici” – sostengono Biden e Sanders – “dobbiamo mettere fine a un’incarcerazione di massa, supportare l’eliminazione dell’uso della cauzione (che agevola solo i ricchi), e garantire che nessuno sia imprigionato per non aver pagato multe o delle tasse.”

E ancora: “Noi (democratici) dobbiamo rompere quel legame diretto che unisce la scuola al carcere e che vede tanti minori di colore arrestati direttamente nelle aule scolastiche”.

Senza dimenticare l’intenzione di porre definitivamente fine, a livello federale, all’abominevole ricorso alla pena di morte.

Cosa dire: più che un programma elettorale sembra di scorrere un lungo elenco di “capi d’accusa”, tra i quali, inevitabilmente, non poteva mancare quello relativo alla sistematica “criminalizzazione della povertà” (in una società nella quale è considerata una grave colpa; piuttosto che un’involontaria condizione di fragilità sociale(15).

Se ciò non bastasse, a beneficio di qualche strenuo difensore di quelle pratiche cui, invece, Biden e Sanders affermano di voler porre fine, potrebbe servire rilevare che, ancora nel terzo millennio, in un paese che si definisce “democratico” – e, come già detto, con la pretesa di esportarne i principi – è sconvolgente ritrovare un candidato presidente che abbia bisogno di promettere la promulgazione di leggi che prevedano: 1) “l’uso letale della forza (da parte della polizia) solo quando necessario e come ultima risorsa”; 2) “il divieto di eseguire prese al collo e di tutte le prese che limitano il flusso di sangue o di ossigeno al cervello; incluse la presa al collo e alla carotide”.

È la clamorosa ed autorevole conferma che le forze di polizia Usa ricorrono, metodicamente, a pratiche brutali e comportamenti razzisti (ai danni di neri e latini) sistemici; un fenomeno (forse) incontrovertibile (16).

Inoltre, appare poi sconcertante che in un così “Grande Paese” sia necessario diventarne il Presidente per impegnarsi a “interrompere la prassi di arrestare i bambini per comportamenti che devono essere gestiti dal preside”. Nonché “Depenalizzare (17) reati disciplinari come le assenze ingiustificate e il consumo di alcool”.

Senza dimenticare l’Alcatraz del XXI secolo: la vergogna di Guantanamo! Ciò che un altro “democratico” si era già impegnato a chiudere. Barack Obama è ormai un ricordo sbiadito, ma circa un centinaio di presunti terroristi è ancora lì; manette alle mani e catene ai piedi.

In estrema e brutale sintesi: più che un programma elettorale, quello stilato dalla task force di Biden e Sanders, rappresenta un decalogo di buone intenzioni per riformare un sistema penale iniquo, razzista e, francamente, indegno di un Paese civile.

Cosa si prospetta quindi all’orizzonte di un Paese nel quale molti osservatori ritengono prematuro considerare sconfitto il trumpismo?
Riuscirà Biden a tradurre in atti concreti i propositi che gli sono valsi 75 mln di voti?

Personalmente sono molto scettico. Non ho mai ritenuto che l’alternanza repubblicani/democratici (e viceversa) potesse rappresentare, in Usa, un sostanziale e radicale cambiamento di politiche sociali ormai consolidate; solo poco più che un “ritocco”.

Anche in questa occasione nutro molti dubbi circa la reale volontà (e possibilità concessagli) del neo Presidente di intervenire veramente – nei termini espressi nel corso della campagna elettorale – rispetto a questioni di enorme rilevanza sociale: l’eterno problema del razzismo, il degrado del concetto di giustizia, l’intollerabile livello di disuguaglianze (tra bianchi e bianchi; tra bianchi e neri; tra ricchi e poveri; tra l’uno e l’altro; tutti armati), l’educazione scolastica di eccellenza per pochi eletti e un’assistenza sanitaria cui non sono in grado di accedere – in modo soddisfacente – decine di milioni di cittadini.

C’è un punto, in particolare, che, a mio parere, rende oggettivamente impossibile immaginare che il democratico Biden (come qualsiasi altro al suo posto) possa avere la forza – e contare sull’indispensabile sostegno di tutto il partito – per intraprendere un piano di riforme volto a stravolgere un sistema economico e sociale ormai radicalizzatosi.

Chi ha finanziato la “corsa presidenziale” di Joe Biden?
I nomi sono ampiamente noti (18): da Google a Facebook, da Apple a Twitter; solo per citarne alcuni.

Il solo Dustin Moskovitz, cofondatore di Facebook, ha contribuito con più di 20 mln di $.

Come non condividere, quindi, il pessimismo di Elisabetta Grande quando afferma: “E’ molto difficile credere che Biden possa cimentarsi in un’inversione di rotta di un sistema che da quarant’anni a questa parte, indipendentemente dal partito al governo, permette all’un per cento di depredare la stragrande maggioranza della popolazione; soprattutto se nera, provocandone il progressivo impoverimento”.

“Il tutto in un Paese in cui” – aggiunge – “le elezioni sono ostaggio del danaro”!

Ancora più drastico, ma drammaticamente eloquente, il parere di Carlo Clericetti (19) ,secondo il quale – a parte qualche “ritocco” alla riforma fiscale di Trump – “altre riforme, da parte di Biden sono probabili come una pioggia arancione”!

NOTE

1– Fonti: “Biden e Trump, due facce della stessa medaglia”, di Pierfranco Pellizzetti; da “Micromega blog”, del 7 novembre 2020. “La giustizia sociale quale prezzo da pagare per la sconfitta di Trump”, di Elisabetta Grande; da “Micromega.net”, del 9 novembre 2020. “Presidenziali Usa: i sintomi per ora scompaiono, la crisi resta”, di Giorgio Cesarale; da “Micromega.net”, del 9 novembre 2020.
2– A cominciare dall’entrata in guerra il 6 aprile 1917. “Per rendere sicuro il mondo per la democrazia”, come recitava l’allora Presidente Thomas Woodrow Wilson. Quindi, per liberare le popolazioni, piuttosto che per trarne vantaggi economici (ritornello ripetuto in tutte le guerre e gli interventi armati americani: dalla Corea al Vietnam e alla Libia, passando attraverso l’Iraq, l’Afganistan e le ingerenze in tutto il continente Sudamericano). Fonte: “Dalla dottrina di Monroe ai 14 punti di Wilson”, di Michele Rallo; da “Il Discrimine”, del 29 dicembre 2016.
3– Anche se, in Italia, l’estensione alle donne del diritto di voto rappresenta una conquista (ancora) abbastanza recente. Infatti, risale al Decreto legislativo 1° febbraio 1945, nr. 23.
4– Nel 1845 fu scelto il martedì perché il sabato e la domenica erano dedicati alle funzioni religiose, il giovedì era dedicato al lavoro nei campi e quindi il lunedì fu giudicato utile per il viaggio da affrontare da parte dei votanti (maschi bianchi e proprietari terrieri).
5– Uno dei pochi servizi ancora pubblici, ma (per questo?) sottoposto a continui “tagli”. Tra l’altro, il notevole ritardo con il quale sono pervenuti tali voti, ha rappresentato uno dei motivi per i quali Trump ha contestato la regolarità e l’esito della tornata elettorale.
6– Ciò avviene, ormai, per consolidata consuetudine, anche se, in effetti, l’art. 2 della Costituzione recita: “Ciascuno Stato nominerà, nel modo che…..”
7– L’art. 2, sez. 1, della Costituzione prevede “Ciascuno Stato nominerà, nel modo che sarà deciso dal parlamento locale, un numero di elettori pari al totale dei senatori e dei rappresentanti ai quali lo Stato abbia diritto nel congresso”.
8– Fanno eccezione il Maine e il Nebraska, nei quali gli elettori presidenziali vengono divisi tra i due maggiori contendenti.
9– Il cui numero corrisponde alla somma dei senatori (per tutti 2) e dei “deputati” (Camera dei rappresentanti) cui ha diritto ciascuno Stato; più 3 espressi dal Distretto della Columbia.
10– Fonte: “La grande truffa del sistema elettorale americano”, di Fabrizio Tonello, Professore di Scienze politiche presso l’Università di Padova; da “Micromega” nr.6/2020
11– Al fine di determinare la ripartizione dei 435 componenti la Camera dei rappresentanti, agli Stati del Sud fu concesso di aggiungere alla loro popolazione i tre quinti di quella rappresentata dagli schiavi; senza, peraltro, che avessero diritto di voto. Gli schiavi quindi erano conteggiati nella popolazione ma non facevano parte del corpo elettorale.
12– Con oltre 500 mila voti “popolari” in meno rispetto al rivale Al Gore.
13– Addirittura con circa 3 mln di voti in meno rispetto a Hillary Clinton.
14- Sull’argomento: “Il terzo strike. La prigione in America”; di Elisabetta Grande
15– Così come brillantemente illustrato e denunciato da Elisabetta Grande nel suo saggio “Guai ai poveri. La faccia triste dell’America”; (2017)
16– Molto interessante, al riguardo, una “Tavola rotonda” sul tema “Riformare la polizia Usa: si, ma come”? Da “Micromega” nr. 6/2020
17– Il problema della giustizia riguardante i minori è persistente, in un paese come gli Stati Uniti in cui il sistema che legifera sull’età minima per l’arresto non è omogeneo. Basti pensare che 34 Stati non hanno un’età minima perché un minore sia considerato “delinquente”, mentre la maggior parte degli altri ha fissato l’età a 10 anni, seguendo la linea consigliata dal governo. Inoltre 24 Stati non possiedono un’età minima per trasferire i casi di minori in un tribunale per adulti. 
18– Fonte: “La giustizia sociale: quale prezzo da pagare per la sconfitta di Trump?”, del 9 novembre 2020; www.blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it
19– Fonte: “Usa, la rassegnazione al potere”, del 6 novembre 2020; su www.eguaglianzaeliberta.it

Renato Fioretti

Collaboratore redazionale del mensile Lavoro e Salute

14/11/2020

Tags: APPLE Bernie Sanders Bill Gates democrazia liberale Donald Trump elezioni USA facebook Google Joe Biden Kamala Harris Sistema elettorale USA Twitter USA
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Autore: franco.cilenti

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