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Dall’Arneo al processo ai NO TAP nulla è cambiato. Il fallimento della politica (Prima parte)

Dallo Stato di diritto, allo Stato di polizia e alle aule dei tribunali

Pubblicato da

(A seguire il racconto “L’aeroplano fa la guerra ai contadini” di Vittorio Bodini)

La politica, intesa nella sua accezione primaria della gestione della cosa pubblica, del bene comune, è ormai da decenni separata dalla realtà, occupata a dividersi fette di potere e privilegi rimane sorda alle sollecitazioni della società civile non percependone le necessità, le esigenze, la disperazione delle fasce più deboli e abbandonate.

È un modello che si ripete nell’avvicendamento di questo o quell’assetto istituzionale, di questo o quel potere esecutivo, in ambito nazionale o regionale.

Nella nostra regione, la Puglia, così come in così tante altre da non poter essere elencate, la politica ha fallito. Ha marcatamente segnato una distanza con i territori che dovrebbe amministrare così ampia, da lasciare dietro e intorno a sé un deserto di diritti, di giustizia sociale, di dignità e civiltà ormai difficile da colmare.

Certo non è nuovo che la politica abbia fallito il suo incarico di responsabilità, ma persistere con lo schema della criminalizzazione della protesta, delegando agli apparati di polizia e di ordine pubblico l’imposizione della propria strategia, è faccenda che -ancora e sempre- fa tremare le vene dei polsi.

Polizia schierata vicino al cantiere della Tap a Melendugno, in provincia di Lecce, contro i manifestanti che protestano per l’espianto degli ulivi sul tracciato dove dovrebbe sorgere il micro-tunnel del gasdotto, 28 marzo 2017. ANSA / CLAUDIO LONGO

Questo è quanto accaduto in Salento negli ultimi anni con la questione Tap (il gasdotto inutile, dannoso e soprattutto imposto), così è avvenuto 69 anni fa per la conquista delle terre dell’Arneo. Rina Durante, ricercatrice e studiosa salentina, lo riportava nel brano “La Quistione Meridionale” del Canzoniere Grecanico Salentino: “Il padre di mio padre non aveva nemmeno Terra dove lavorare, allora decise di occupare un po’ di terra incolta nell’Arneo, ma un poliziotto con la camionetta gli fece a pezzi la sua bicicletta”.

Per giungere allo Stato di Polizia, e successivamente alle aule dei tribunali – a settembre, presso l’aula Bunker del carcere di Lecce si svolgerà il processo al Movimento No Tap -, è necessario un passaggio, che si avvale della complicità dei media e di una narrazione infamante, essenziale per il raggiungimento del proprio obiettivo: la criminalizzazione dell’antagonista. Che siano movimenti sociali, ambientali o i braccianti senza terra, poco importa. Bisogna isolarli, infamarli, descriverli come ignoranti e violenti, irragionevoli. 

14 febbraio 1950: la polizia spara sui braccianti in Puglia

Ma su tribunali, processi e sviluppi mediatici inevitabilmente correlati, non è questo il momento di esprimersi, sarà argomento da trattare nella seconda parte delle considerazioni esposte finora.

Ma, a sostegno di quanto scritto e della tesi che “La storia insegna ma non ha scolari”, ci viene in aiuto un articolo scritto da Vittorio Bodini proprio sulla questione Arneo, nel quale già d’allora si dimostra il fallimento della politica. Si tratta di un pezzo giornalistico dallo stile unico, tra indagine e romanzo, attento ai volti e ai protagonisti, che non rispetta i dettami della fredda cronaca alla quale ci hanno abituato. Uscito su Omnibus il 4 febbraio 1951, racconta le prepotenze delle forze dell’ordine in quei giorni di occupazione. Nella stesura di Bodini, quei fatti così lontani nel tempo, si attualizzano nelle molte analogie riscontrate con ciò che abbiamo vissuto e stiamo vivendo sulla nostra pelle tuttora in Salento a causa del malaffare Tap.

Una lettura certo utile per comprendere come gli schemi siano sempre gli stessi, allora come ora, e quanto la violenza dello Stato sia antica prassi per dirimere questioni che la cattiva politica non è capace di affrontare.

L’auspicio è che susciti una riflessione per tutti coloro che, concettualmente figli e nipoti di Bodini, grande scrittore di questa terra schierato contro le ingiustizie e dichiaratamente antifascista, hanno preso ad esempio il suo operato ma, una volta ottenuto un ruolo di potere politico, si sono piegati alla “ragion di stato” avallando ogni abuso compiuto ai danni di questo territorio. 

4/7/2020 www.notap.it

L’aeroplano fa la guerra ai contadini

Terra coltivabile! – dice il mio compagno -. Siamo nascosti dietro un muretto, fra l’ultimo raggio d’un sole di gennaio che spalma sull’orizzonte una tenera pomata color sangue e il viottolo su cui é posata la motocicletta con due carabinieri che ci cercano. Siamo in una manda macchia che ci circonda a perdita d’occhio, tutta groppe ispide come d’una sterminata mandria di bufali. Solo verso oriente una striscia di sole rimbalzando su un rialzo di terra scopre una piccola costruzione abbandonata, deve essere la torre di Cardo, dove dicono vi sia un tesoro sotterraneo. L’abbandono dei luoghi, che furono fino a un secolo fa ricetto di briganti, e la miseria profonda dei paesi che vivono intorno all’Arneo sono buon alimento a simili leggende. Ancora oggi l’Arneo potrebbe essere la scena di un nuovo Giuliano, che oltre alla topografia favorevole potrebbe contare sull’appoggio della popolazione. Se è quella la torre del Cardo, è di lì che fece la sua comparsa l’aeroplano che coadiuvò le forze di polizia nell’attacco del primo gennaio contro i contadini. Il ministro Pacciardi ha smentito la notizia dell’aeroplano. Non potendosi supporre che egli non conosca l’uso che si fa degli apparecchi militari, e poiché la smentita non potrebbe essere a sua volta smentita senza dare di bugiardo al ministro della Difesa, non resta che ritenere bugiarde quelle migliaia di persone che lo videro e ne seguirono le evoluzioni nel cielo dello scontro. Ma aeroplano o no, militare è stata dichiarata per dieci giorni la zona dell’Arneo, e una giornalista romana penetratavi due giorni fa è stata fermata e portata a Lecce, col suo fotografo. Gli italiani non devono dunque sapere cosa avviene quaggiù? Ma abbiamo un nuovo problema per il Ministero della Difesa: due carabinieri che abbiamo incontrato sulla contrada di Carignano Piccolo sono comandati da un’ufficiale dell’esercito.

Un trenino di tre vagoni, coi balconcini dietro, come nei western dei pionieri, ci porta alle otto del mattino a Salice: ultimo punto che si può raggiungere in ferrovia verso questa parte dell’Arneo. È con me il corrispondente di un giornale romano. L’Arneo è un grosso bubbone sull’incrocio delle tre provincie che formano il Salento: Lecce, Brindisi, Taranto. Ma dei 42.000 ettari che occupa e che sottrae alla vita delle popolazioni, la parte maggiore, e per disgrazia la più deserta, la più ispida e priva d’acqua, di comunicazioni e di ogni altro segno umano che non siano i cartelli di caccia riservata, rientra nella provincia di Lecce: 28.000 ettari, di proprietà quasi tutta del senatore Tamborrino. La popolazione del Leccese è tutta ammucchiata e compressa nel lato dell’adriatico; sul versante ionico, da Nardò fino a Taranto non c’è nulla, c’è L’Arneo, un’espressione vagamente favolosa, come nelle antiche carte geografiche qui e vuoti improvvisi che s’aprivano nel cuore di terre raggiunte dalla civiltà. Da notare che Tamborrino, ed ora i suoi figli a cui le ha intestate, non pagano tasse per queste terre considerate improduttive. A salice prendiamo una vecchia corriera in cui sono pigiati quindici contadini e un bambinuccio di pochi mesi infagottato in uno scialle celeste. Sono piccoli agricoltori delle provincie di Brindisi e Taranto che vanno, dicono, a Veglie a ordinare i mobili per una sposa. È strano che lo facciano in tanti. Appena sentono parlane di Arneo si chiudono in un mutismo diffidente. Solo un vecchietto dal viso quanto una mela dice che loro l’Arneo lo conoscono solo perle tasse che gli fanno pagare: “Paghiamo per la bonifica che non s’è mai fatta e per la strada da Jaco Rizzo a Porto Cesareo finita già da quattro anni. Non so quanto paghiamo, è tutto scritto sulle cartelle della Fondiaria”.

“Da quanti anni pagate?”.

“Da quando ero così grande” dice il vecchio indicando il neonato.

Veglie: diecimila abitanti, un’aria da paese greco; la corriera deve fermarsi e aspettare un passaggio di capre, poi di donne vestite di nero che escono dalla chiesa portandosi appresso le sedie di casa. Le ragazze sono vestite di flanellina rosa, con le calze di lana nera fatte a mano. Sulla piazza sono riuniti gli uomini a capannelli. Per un comizio che vi hanno tenuto ieri sera, il Prefetto ha ordinato la chiusura per quindici giorni del cinema Trento e Trieste. È il mattino dell’Epifania: a molti di questi uomini le feste hanno portato quest’anno la perdita del loro unico bene: la bicicletta.

“È la cosa più atroce che si poteva fare a un figlio di mamma!” ho sentito dire da più d’uno che avrebbe preferito perdere un figlio. Un figlio lo si sostituisce fin troppo presto, ma la bicicletta distrutta significherà migliaia di chilometri a piedi e notti passate nella nuda campagna, anche d’inverno.

All’uscita di Veglie brulicano le vigne come un fumo rossastro e sotto gli ulivi è una festa di pratoline bianche e gialli. Queste terre facevano parte dell’asse dell’Arneo, a cui sono state strappate, e mostrano una terra rossa e succosa. A Monteruga basta guardare da lontano il gruppo di case rosse del SEBI per rendersi conto che è un gioiello d’azienda. La macchia comincia bruscamente alla Case Arse: di colpo la campagna perde la sua aria di gentile pazienza e nonostante la mite mattinata invernale si fa ingrugnita e selvatica. Dei cartelli avvertono che è zona di caccia riservata. Riservata, possiamo aggiungere, a non più di cinque o sei nomi di feudatari. Le schegge che ricoprono il letto della strada schizzano contro i parafanghi: qualche gazza bianca e nera che cercava chissà che cibo fra le pietre si alza in volo. Non abbiamo visto per oltre quindici chilometri che un uomo su un calessino, il fucile fra le ginocchia e mezzo sigaro in bocca. È il fattore di Tamborrino. “Tutto calmo, grazie a Dio. Ormai non c’è più niente da fare per quei facinorosi “. “L’avete visto, voi, l’aeroplano? “. “Io no, Ma l’hanno visto in molti “, “Credete che ci sia veramente disoccupazione fra i contadini? “, “Ce n’è, ma se sono disoccupati vuol dire che non sono agricoltori veri. Gli agricoltori veri la terra ce l’hanno”, dice con disprezzo. “Ma è vero che Carignano Piccolo è tutto terra incolta? “. “Nossignore “. “Cosa c’è? “. “Coltivabile a boscaglia “. “ e alle Fattizze? E a Cola Rizzo? “. “Lo stesso “.

Sul sentiero per Carignano incontriamo due pattuglie dei carabinieri. Il comando è su una salitella da cui ci viene incontro un tenente, mentre una trentina di carabinieri che giocavano a pallone, alla vista dell’automobile, si dispongono in squadra e fanno evoluzioni militari. “Questa è zona militare – dice l’ufficiale restituendoci i documenti – dovete uscire immediatamente “. “Ma voi siete ufficiale dell’esercito? “. “Sono in esperimento “. Risponde un po’ sconcertato. “E l’esperimento procede bene? “.

Ci fa cenno di andarcene. Tornati sulla strada il medico di Veglie che ci ha accompagnati con la sua macchina non vuol saperne di continuare. Siamo a una ventina di chilometri dal più vicino paese, ma scendiamo lo stesso, col rischio di non trovare un mezzo per il ritorno. A Boncore le macchie messe a coltivazione dai contadini dopo l’occupazione dell’anno scorso danno un grano già verde, alto cinque dita, che trema al vento sulla terra rossa, e hanno aperto una piccola cava, cominciò un anno fa di questi tempi la lotta dei contadini per la redenzione della parte incolta dell’Arneo. Dopo diversi giorni di occupazione e di scontri con la polizia ottennero la promessa di 4.500 ettari da parte dei proprietari e del Prefetto. Se ne distribuirono 890, poi tutto si arenò. A distanza giusta di un anno i contadini son calati di nuovo sull’Arneo il 27 dicembre ultimo. Tremila braccianti provenienti da tutti i paesi limitrofi: Nardò, Carmiano, Leverano, Veglie. Strappo un filo di grano e lo metto tra i denti: è il primo frutto di una terra riscattata al più stupido feudalesimo. Ecco là di fronte, come un termine di confronto, una boscaglia di ulivi selvatici ai cui piedi si aggroviglia la fratta. Tre carbonai di Calimera la stanno disboscando per ordine di Tamborrino, per non lasciarvi nulla, nel caso i carabinieri non riescano a sorvegliarla. I carbonai in questi giorni sono stati mandati via e hanno ripreso oggi. “perché proprio oggi che è l’epifania? “. “Stanotte si sono ritirati i contadini che occupavano il bosco su Cola Rizzo “. Li lasciamo e troviamo un uomo nella fratta. Ci stava spiando. “ Dov’eri il primo dell’anno? “ “A casa mia, a passare la festa con la famiglia “ “ È vero dell’aeroplano? “ “L’ho visto con i miei occhi. Era bello grande, e tutto scuro. Spuntò da dietro la torre di Cardo e stette un’ora girando anche a bassa quota e segnando la zona “. “Allora eri qua? “. “Si, ma ora non vi dico più nulla “. “Nemmeno dove stanno i resti delle biciclette bruciate? “. “Li hanno portati alle Fattizze. Erano una sessantina. Centocinquanta biciclette sono state portate a Lecce “. Per andare alle Fattizze occorre passare da Carignano, davanti ai carabinieri. Risolviamo di arrivarci dalle spalle. Dopo un’ora di cammino ci imbattiamo in quattro ragazzine che raccolgono ulive selvatiche cadute dagli alberi. Potevano avere fra i dieci e i dodici anni, magre, vestite d’una gonnellina lacera e di scialletti colorati, la bocca tutta orlata di nero. Ci mostrano i sacchetti dove tengono le olive, piccole e vizze, tutte nocciolo. “Non abbiamo ancora fatto cinquanta lire di olive da stamattina “. “Fra tutte quattro? E tu, perché ne hai così poche? “. “Aveva fame e se l’è mangiate “dicono le altre ridendo, è con loro un ragazzo che torna dalla cava. Ci mostra il permesso per entrare nell’Arneo: è firmato dal commissario della Democrazia Cristiana di Veglie. Tamborrino, Democrazia Cristiana, Polizia, Esercito: che strana mescolanza di poteri sull’Arneo! Il foglio attesta che il giovanotto non è iscritto ai “compagni”. “Hai visto l’aeroplano? “. “Si, fece due fumate proprio qua sopra “. Gli offriamo denaro per farci da guida alle Fattizze; esita un po’, poi rifiuta.

“State attenti – ci grida una delle ragazze mentre ci allontaniamo. – ieri è passato di qua un cristiano ben vestito, portava persino gli occhiali, e lo hanno messo in caggiòla “.

Raggiungiamo la cava e una casupola, a cui ci affacciamo. Un giovane dal viso intelligente si alza da una brandina, infila le scarpe e ci invita ad entrare. “Si, ho visto ogni cosa – ci dice. – Il giorno 27 dicembre ero alla cava. I contadini sbucarono all’improvviso da tutte le parti. Uscivano dai cespugli come gli indiani quando fanno la guerra. Saranno stati tremila. Si accamparono tutt’intorno. Io rimasi qui dentro fino al pomeriggio, poi pensai: perché dovrebbero farmi del male? Uscii, stavano mangiando. Mi invitarono, ma mi parve brutto togliergli cibo a loro che lo avevano misurato per rimanere qui. Accettai mezzo finocchio per far vedere che gradivo. Il giorno seguente i carabinieri spararono e lanciarono bombe lacrimogene. I contadini si dispersero e tornarono subito, e tutto rimase tranquillo fino alla mattina dell’ultimo dell’anno. Quel giorno trecento carabinieri di rinforzo arrivarono e restarono rinchiusi tutta la mattina nella casa di Carignano. Uscirono il pomeriggio a gruppi di due o tre, mescolandosi ai contadini e spargendo la voce che il governo era dalla parte dei braccianti: che quel giorno era Capodanno e loro la notte se ne sarebbero andati. E così fu. Allora i contadini fecero la legna perché si scaldassero i carabinieri che erano rimasti a Carignano, poi se ne andarono quasi tutti a passare il fine d’anno in famiglia. Qui ne rimasero solo due o trecento. All’alba venne l’aeroplano, un trimotore grigioscuro, e fece segnalazioni, poi i carabinieri che avevano finto di andarsene, piombarono sui contadini e cominciarono a picchiarli col manganello e col calcio dei fucili. Durò parecchie ore, perché i contadini dopo che si erano dispersi tornavano di nuovo. Alla fine ne rimasero una quarantina, dei più disperati, che volevano riprendersi la bicicletta, li arrestarono e li picchiarono. Sulle strade intanto altri carabinieri prendevano quelli che tornavano dai paesi. Poi si alzò un fumo, ed erano le baracche, le robe e le biciclette dei contadini che i carabinieri facevano bruciare “. “E ora? Credete che torneranno ancora?”. “Così ho sentito dire. Dicono che verranno con quelli di Taranto e Brindisi “.

Ecco come degli uomini hanno passato la notte di San Silvestro del mezzo secolo. A quant’impari lotta, come idoli indolenti assistettero le vacche del senatore Tamborrino. Sono vacche grigie e lustre, dalle corna larghe e dall’andatura impudica: le statistiche ne danno una per chilo metro quadrato. Andiamo ancora per macchie, per terra rocciosa, per pascoli, poi le Fattizze, dove riusciremo a trovare pane nero e ricotta, ma non i resti delle biciclette. Anzi arriva una pattuglia in cerca di due giornalisti e bisogna filare e nascondersi nella macchia. Sulla cava il fratello del cavamonti ce ne conferma il racconto. Vide l’aeroplano. Gli mostriamo il giornale con la smentita di Paccardi. “Il ministro non può fare che io non l’abbia visto “, mi sembra un uomo sincero, come il fratello, e mi dispiace di doverlo considerare, sia pure solo ufficialmente, un bugiardo. Ci mostra in lontananza il pozzo dove i carabinieri bruciarono le biciclette; i resti li portò via in tre viaggi di carro il guardiano delle vacche di Tamborrino. Troveremo il guardiano dietro un muretto. L’ombra comincia a scendere nel sottobosco, e le pietre prendono un’aria di teschi di animali preistorici. Non proprio al pozzo che sono state bruciate, ma un po’ prima, presso il “paretone”. C’erano trecento metri da fare, alla vista d’una decina di carabinieri che giocavano a pallone. Servivano da porta due coppie di ulivi selvatici, ma c’era qualcosa di strano nel loro modo di giocare: inseguivano il pallone burberamente, come se rappresentasse ai loro occhi una illegalità da punire.

Arriviamo carponi dove il terreno è tutto coperto di segni dei feroci falò. Si vedevano forme intere di pani carbonizzati, cocci di bottiglie, brandelli di coperte e cappotti. Pare che tra gli arrestati trovarono anche bottegai dei paesi vicini: “E voi che c’entrate con l’occupazione delle terre? “. “Qualcuno bisognava pure che gli desse da mangiare. Questi ci devono tutti dei soldi. Chi settemila, chi sei, chi cinque, chi tre. Sono brava gente, non potevamo farli morire di fame. Se avessero ottenuto un po’ di terra da lavorare ci avrebbero pagato i debiti “.

Ecco il falò delle biciclette: fra le ceneri si vedevano ancora pompe contorte, pezzi di campanelli e del cuoio dei sellini. Perdemmo dieci minuti per fare una fotografia, che doveva risultare inservibile per la stampa. L’ultima luce del giorno sembrava si fosse tutta rifugiata, e impazzita, nel mirino della macchina. Avvolsi i resti di quattro pompe in un giornale che avevo in tasca, e in cui si diceva che i contadini si erano bruciate essi stessi le biciclette. Bisognava tornate a Veglie, quasi venti chilometri a piedi. Non incontrammo per la via che un biroccio di zingari da cui penzolavano un mucchio di gambe di bambini addormentati. Era un magnifico luogo da delitti! Improvvisamente una lanterna accesa fra gli alberi ci guidò a una masseria. “Paesano” gridai avvicinandomi. La lanterna si spense. Nessuno rispose. “Stai attento. Torna indietro “gridò il mio compagno. Partì uno sparo e la palla fischiò fra le foglie a un metro dal mio cappello. Ci mettiamo a correre, con tutta la stanchezza della giornata. Veglie: un caffè doppio e alle otto di sera né un mezzo per tornare né un albergo. Contrattiamo per un furgoncino, ma arriva un tale e fa un segno al padrone; ci dice che non può essere, che non funzionano i fanali. Poi vengono tre contadini e dicono che ci troveranno loro il mezzo.

Usciamo dal bar, arrivano altri tre uomini e ci portano via ai primi. Ci portano in una stanzuccia male illuminata, piena di contadini e cominciano ad interrogarci. Che cosa siamo andati a fare sull’Arneo? Cosa cercavamo? Erano già al corrente d’ogni nostro passo.

“Come possiamo fidarci di voi? Qui è ogni giorno un nuovo trucco per arrestare i nostri compagni”. Allora io cominciai a scartare il pacco sul tavolo: “Ecco qua”. E mostrai i quattro tubi contorti dal fuoco. Non li guardavo in faccia, ma sentivo nell’improvviso silenzio la loro commozione, come se avessi mostrato i cadaveri dei loro figli. Ci fu uno scoppio d’ira. “maledetti! Ma perché una cosa così stupida? Se avessimo avuto armi e ce le avessero bruciate! Ma le biciclette per andare a lavorare!”. Non è stata una cosa stupida. È stata una cosa furba. Non c’è nulla di più perfidamente efficace per colpirli dritto al cuore. Ma i fanali del furgoncino si erano messi a funzionare. “Ci dispiace di ciò che penserete di noi per l’accoglienza fattavi – mi dissero mentre partivamo. – La prossima volta che ci andate fatecelo sapere in tempo. Veniamo con voi “.

Omnibus 4 febbraio 1951. 

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