Dare voce a ciò che non si può dire né pensare

rabbia

Alle spalle della nomina di Anna Nicolò a presidente della società psicoanalitica italiana, carica per la prima volta ricoperta da una donna, c’è una lunga militanza nella psicoanalisi degli adolescenti e, in particolare nell’intervento clinico con coppie e famiglie, quella terapia familiare il cui manifesto di esordio ha ormai più di mezzo secolo: lo scrisse Harold Searles nel 1959 e il titolo era di per sé eloquente, Il tentativo di fare impazzire l’altro partecipante al rapporto: una componente dell’etiologia e della psicoterapia della schizofrenia, dove venivano presi in esame i modi di entrare in relazione con l’altro più passibili di generare patologie. Molto è cambiato da allora, soprattutto nelle manifestazioni della sofferenza mentale che gli analisti si trovano a fronteggiare, mentre la disciplina inaugurata da Freud conosce alcuni tra gli attacchi più violenti della sua storia. Delle ricerche più recenti Anna Nicolò parlerà nel corso di questo incontro, che si è svolto nel suo studio romano, a ridosso della sua nomina.

Una buona sintesi di quelle che sono le peculiarità del tempo presente ce l’ha fornita lo psicoanalista francese René Kaës dicendo che viviamo in una «cultura dell’illimitato ma anche dei limiti estremi», caratterizzata da una continguità con l’esperienza del trauma e della catastrofe. Inoltre, sembra sempre più pressante la richiesta di sincronizzarsi sull’«urgenza», sull’immediatezza, su quegli orizzonti temporali ristretti che privilegiano l’incontro sincronico, l’ora e subito, lo zapping e il nomadismo piuttosto che la continuità. Quali effetti producono queste forme di vita contemporanee?

È vero, viviamo in una cultura che tende a abrogare i limiti, anzitutto quelli biologici: basterebbe pensare a tutti i metodi di fecondazione artificiale, o alla possibilità di cambiare sesso, o alla negazione del tempo e alla pretesa di una eterna giovinezza, o alla illusione di un accesso illimitato ai beni di consumo a fronte della grande povertà che sta riguardando fette sempre più ampie della società occidentali. Naturalmente, questo è correlato all’idea, favorita da Internet, che tutto sia possibile: in rete vale il «come se». Tutto ciò oggi induce una serie di sindromi psicosociali legate alla necessità di aggrapparsi al corpo come roccia di base, che consente sicurezza e garantisce stabilità: lo vediamo non solo nei disturbi alimentari, dove entra in gioco una enorme complessità di fattori, ma anche nella diffusione dei pearcing, dei tatuaggi, del self cutting, che interessano soprattutto i giovani perché si sentono sfidati sul piano della loro soggettivazione, della costruzione di una loro identità mentre vivono il lutto del loro passato infantile e tentano di ridefinirsi come adulti. Questa operazione è tanto più difficile se una società non offre il senso del limite, perché così anche i confini del corpo saltano. La forma estetica definisce la nostra identità, tutti noi abbiamo bisogno sia dello sguardo dell’altro che del nostro, ma in molti dei nostri pazienti attuali è evidente come questo involucro esterno si sostituisca a un senso di vuoto interiore. L’analisi è molto efficace, in questi casi, perché il setting è già di per sé una cornice, è una dimensione metaforica del «come se» estremamente importante; in più mette di fronte a una serie di confini: tra l’esterno e l’interno, tra la realtà e la fantasia, fra sé e l’altro, e naturalmente impone una scadenza al tempo. André Green assimilava il funzionamento del setting a quello del sogno: è come se avessimo la possibilità di ricostituire in analisi i confini del lavoro onirico, svolgendo la pellicola del sogno all’interno di una dimensione condivisa tra paziente e analista.

Riprendiamo il problema dei disturbi alimentari: Christopher Bollas ha scritto un lungo saggio per illustrare come anoressia e bulimia siano le forme attuali che prende l’isteria, niente affatto scomparsa. Invece Kernberg iscrive i disturbi alimentari nelle patologie gravi del carattere, e anche Nando Riolo, ha messo l’accento sul fatto che in questa patologia non ci si limita a fare delirare un corpo simbolico, come nell’isteria: lo si affama, lo si rende un ideale di perfezione, di bellezza, di spiritualità, dunque si agisce sul registro del reale, perdendo la capacità di simbolizzare. Lei cosa ne pensa?
Non sono d’accordo con nessuna di queste posizioni, perché tanto per cominciare trovo necessario distinguere tra più forme di anoressia, che possono avere diverse origini, proprio come la febbre. Certamente, ci sono anoressiche che fanno un uso del nutrimento e del cibo condizionato istericamente dalla imitazione dell’altro: lo si vede in alcuni licei dove la diffusione di questa forma di malessere tocca i vertici di una epidemia. E ci sono forme di disturbo alimentare che funzionano come una protesta nei confronti dei genitori. Ma accanto a queste espressioni, ce ne sono due molto più gravi: in una di queste l’anoressia viene usata come una difesa contro il crollo psicotico. L’aggrapparsi al corpo, l’irrigidire il controllo sul piacere del cibo, il bloccarne lo sviluppo sessuale possono essere strategie difensive contro il break-down evolutivo di un adolescente che non ce la fa a sostenere il suo sviluppo. Paradossalmente, queste difese sono utili, perché danno tempo alla personalità, se ben seguita, di evolversi. Un’altra possibilità è quella che ci hanno descritto gli autori classici, dove parlano di una perversione dell’ adolescenza, in cui si verifica un piacere connesso con il masochismo, e dove osserviamo una sorta di orgasmo da digiuno che nasce dall’affamarsi: qui, effettivamente, c’è dissociazione tra il corpo e la mente, perché le anoressiche sono in genere molto studiose, intelligentissime, ma tengono i bisogni del corpo totalmente separati. Proprio a questo argomento ho dedicato il mio libro Una o più anoressie (Borla).

Le forme con le quali si presenta più spesso la sofferenza mentale sembrano evidenziare il fatto che è soprattutto la capacità di simbolizzazione a venire colpita. A suo parere perché?
Secondo me perché l’incapacità di simbolizzare è in relazione alla cultura dell’illimitato. Per attuare simbolizzazioni si deve accettare la mancanza, il limite. Però è anche vero che noi siano contemporanei ai nostri pazienti, e dunque non godiamo ancora di una profondità temporale sufficiente a mettere a fuoco il tipo di uomo di fronte al quale ci troviamo. Certamente, il lavoro degli psicoanalisti attuali non si limita solo a indagare gli stati più evoluti e maturi della persona, sui quali si può lavorare tramite la parola: ci concentriamo molto di più sugli stati primitivi. della mente. E lì, non é tanto l’interpretazione a funzionare. C’è bisogno che l’analista comprenda non soltanto con l’intelletto, ma anche attraverso i suoi vissuti corporei e tramite l’osservazione di quei passaggi dal pensiero all’azione che caratterizzano le patologie più primitive e i livelli psicotici della personalità più gravi. Come diceva Thomas Ogden, dobbiamo riuscire a sognare il sogno che il paziente non fa, dobbiamo renderci capaci di ospitare nella nostra mente i suoi aspetti più immaturi, come fossero embrioni che devono crescere, dando voce a ciò che l’analizzando non sa dire e neppure pensare.

Tutto questo rimanda a ciò che Bollas ha chiamato il «conosciuto non pensato», uno stato della mente che dà notizie di qualcosa che né i sogni né le fantasie riportano, qualcosa che non è traducibile nell’ordine del simbolico, ma accoglie esperienze profonde del sé, che pur non avendo accesso a una rappresentazione psichica, vengono conservate. E concorrono, così, a formare il senso della nostra identità…
Sì, la dimensione del conosciuto non pensato o come altri dicono, dell’inconscio non rimosso ci riguarda tutti. L’inconscio non rimosso contiene al suo interno esperienze che non sono state simbolizzate e per questo motivo non possono essere ricordate o verbalizzate. Possiamo avervi accesso solo quando si manifestano nei sogni, negli agiti o nelle espressioni somatiche. Io mi riferivo soprattutto a quelle patologie che non riescono a rendere parlanti ricordi traumatici molto primitivi della psiche, che il bambino ha sperimentato quando era troppo piccolo per affrontarli: nuclei determinanti nell’orientare, a volte, tutta la vita del soggetto. Ci sono casi di persone che con la loro stessa esistenza esprimono una patologia non accessibile al pensiero, e che dunque non possono verbalizzare: una patologia che, in quanto tale, sembra non essere mai esistita ma che si esprime nella loro vita concretamente. Le manifestazioni cliniche più evidenti di questi problemi sono racchiuse in un senso di vuoto o inutilità permanente, e nelle situazioni più gravi comprendono agiti distruttivi o autodistruttivi, stati di grave torpore o vuoto psichico, gravi rotture somatiche, dipendenze o perversioni.

Di ogni secolo è possibile isolare un mito e un ideale: nel XVII l’ordine, nel XVIII la conquista della felicità, nel XIX il progresso. Già alla fine del secolo scorso, Camille Dumoulier si chiedeva se il mito del nostro tempo, a giudicare dalla frequenza con cui ricorre nella letteratura psicoanalitica, non sia quello del desiderio…
Sarà, ma è anche vero che oggi si vedono patologie connotate piuttosto dalla assenza di desiderio: vengono da noi persone apatiche, che si annoiano, angosciate dal loro senso di vuoto. L’analisi porta a confrontare la dimensione del desiderio con quella del bisogno, che è molto più primitiva: il bambino ha bisogno della madre, ha bisogno di mangiare, tutto ciò che compete al desiderio appartiene a uno stadio molto più evoluto, nasce da una mancanza e permette, almeno in parte, di elaborarla. Questo inseguire il piacere a tutti i costi sta a coprire una profonda angoscia, che è una difesa contro la percezione di un vuoto, contro l’incapacità di dotarsi di un senso di sé: se non si riesce a desiderare è probabilmente perché non ci si è sentiti desiderati, in età remota.

I pazienti di cui lei parla sono stati descritti da Joyce McDougall come individui «ipernormali», o «normopatici»: sono persone che fuggono continuamente l’attività immaginativa e lo squilibrio potenzialmente indotto dalle loro emozioni per impegnare ogni loro istante nell’azione. Individui che, per esempio, si caricano di mille lavori, e che dietro una apparenza di normalità spesso nascondono difese patologiche contro forme psicotiche di angoscia. Lei crede che questa sia effettivamente una forma di disagio mentale emblematica del nostro tempo?
Di sicuro è una grande sfida per il clinico, ma non so se queste patologie siano effettivamente in aumento, perché una volta era la rigidità degli imperativi familiari a costringere alla normopatia: né sono certa che la presenza di tanti alcolisti da lavoro sia una esclusiva della nostra società. A me sembra, piuttosto, che questa sia una patologia senza tempo. Quel che è certo è che la nostra difficoltà a avviare processi identitari poggia – come ha scritto René Kaës nel suo saggio titolato Malessere – sulla entrata in crisi di quelli che lui chiama i «garanti metasociali», ossia per esempio miti e ideologie, credenze e religione del progresso; e questo si riflette nel cedimento dei «garanti metapsichici», ovvero le formazioni e i processi sui quali si appoggia e si struttura la psiche di ogni soggetto: per esempio, gli interdetti fondamentali, la rinuncia alla realizzazione diretta delle nostre mete pulsionali, il rispetto della funzione paterna e così via, che sono implicati anche nei processi di simbolizzazione, nell’accesso alla parola e al pensiero. Ma oggi noi possiamo contare sull’uso di più modelli psicoanalitici e più teorie, che una volta sarebbero entrate in contrapposizione e ora invece dialogano dandoci la possibilità di confrontare differenti modelli della mente. Tra i miei propositi c’è quello di scoraggiare una eccessiva chiusura degli psicoanalisti nei loro studi, e di usare il dialogo con altre discipline, come le neuroscienze e la psicologia evolutiva, per adattarsi meglio ai bisogni dei nostri pazienti.

Francesca Borrelli

12/2/2017 https://ilmanifesto.it

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