David Yambio: «Il memorandum di intesa con la Libia è un atto di terrorismo»

David Yambio

David Yambio è un rifugiato sudsudanese di 26 anni arrivato in Italia dopo diversi anni trascorsi in Libia e diversi tentativi di fuga. Yambio è riuscito a fuggire dopo essere stato riconosciuto come l’organizzatore di Refugees in Libya, un movimento di protesta che ha portato avanti un sit-in di cento giorni a Tripoli sotto la sede di UNHCR per denunciare le condizioni di vita dei migranti e le responsabilità del governo libico e dei governi europei nel finanziare le autorità e milizie.

Melting Pot ha raccolto la sua testimonianza durante l’incontro “Oltre e contro i confini” che si è svolto a inizio novembre a Trento al Centro sociale Bruno nel quale, insieme allə attivistə del Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino, ha parlato di lotte e solidarietà. Ringraziamo Rachele Melorio per la traduzione. 

VIDEO SU https://twitter.com/i/status/1597834723912736768

Ciao David, puoi raccontarci come è nata la tua lotta personale e come poi questa è diventata una lotta collettiva?

Voglio iniziare dicendo che ci sono dei fattori di spinta e dei fattori di attrazione che determinano le migrazioni. Prima di tutto le migrazioni forzate sono dovute a varie dimensioni, dal cambiamento climatico, alla povertà fino alle persecuzioni. L’obiettivo per le persone che si spostano è quello di trovare libertà, di trovare un lavoro giustamente retribuito e di poter avere un’educazione adeguata che sia in Germania, in USA o nel Regno Unito. Queste cose che ho appena detto rendono evidente che le migrazioni sono qualcosa del tutto naturale che non potranno mai fermarsi, le persone continueranno a spostarsi e a migrare. 

Non ho scelto io dove nascere e dove vivere. Il Sudan è un paese in guerra da 30 anni e infatti, in questo momento, è diviso in due. Sono nato nel 1997 e la mia famiglia quando avevo soltanto 2 mesi è dovuta scappare prima in Congo, poi in Repubblica Centrafricana, e infine sono tornati in Sudan perché casa è sempre casa. Ma poi siamo dovuti andare via di nuovo e ora sono ancora alla ricerca di un un posto dove poter avere una vita dignitosa, un luogo dove mi sia permesso studiare e lavorare. 

Quando la mia famiglia è tornata nel 2005 in Sud Sudan ero piccolo e all’età di soli 13 anni il governo mi ha chiesto di arruolarmi nell’esercito. Nella mia infanzia non mi è stato permesso di sognare, di studiare e di vivere da bambino, e non mi è stato permesso di vedere rispettati i diritti umani basilari. E questa è la storia che contraddistingue la vita di milioni di persone. 

Nel 2011 il Sudan è stato diviso in 2 paesi e nel 2013 è scoppiata di nuovo la guerra. Mi è stato chiesto nuovamente di arruolarmi nell’esercito. Avevo 18 anni, quasi 19, e ho deciso che non potevo uccidere i miei fratelli e le mie sorelle e di conseguenza ho deciso di andare via e diventare un rifugiato.  

Diventando rifugiato ho perso la mia casa, la mia famiglia e il mio paese ma dovevo andarmene e trovare un posto sicuro. Prima sono andato in Nord Sudan, ma non ho trovato il mio rifugio e quindi sono stato in Ciad per 2 anni e mezzo. 

Non posso dire se il Ciad si tratti di un paese sicuro o no, in un paese sicuro dovrebbero essere garantiti tutta una serie di diritti fondamentali. Il Ciad è però uno dei paesi più poveri dell’Africa eppure ospita 6 milioni di rifugiati. 

Mi sono successivamente spostato in Libia per provare a vivere una vita da persona normale, per trovare un lavoro e una formazione, e con la speranza e l’attesa che nel frattempo la guerra nel mio paese cessasse per farvi rientro.  

Quando sono arrivato in Libia nel 2018 quello che ho trovato è stato solo sfruttamento e lavoro forzato, un sistema che l’Italia e gli altri Paesi europei finanziano. 

In Libia non sono stato visto come un essere umano, vivevo in un centro di detenzione dove subivo continui trattamenti disumani, in strada le persone mi derubavano in un loop di sofferenza dal quale non si poteva scappare. Il governo non era presente, non esisteva, anzi era un sistema mafioso finanziato dai governi europei.

Ho quindi deciso di provare ad attraversare il Mediterraneo e andare sull’altra sponda, in Italia, per cercare una vita migliore. Ma la prima volta non ce l’ho fatta. Sono stato catturato in mare e mi hanno portato in un centro di detenzione sovraffollato con poco cibo e poca acqua dove sono rimasto per otto mesi, dove le persone morivano in continuazione. Poi ho provato una seconda e una terza volta a prendere il mare e scappare, ma sempre con lo stesso risultato.  

Nel 2020 con la pandemia e la guerra in Libia ho capito che non potevo più rimanere in quel Paese perchè non c’era possibilità di vita e quindi ho provato nuovamente ad attraversare il Mediterraneo, ma questa volta la guardia costiera italiana mi ha respinto e sono tornato nuovamente in Libia. Essendoci la guerra, mi hanno chiesto di arruolarmi nell’esercito libico, e dunque mi sono ritrovato nella stessa situazione che avevo lasciato in Sudan. 

In Libia e in Sudan quello che ho sperimentato è del tutto disumano ed è per questo che è necessario spiegare tutti i dettagli della nostra esperienza che riguarda migliaia di essere umani, persone che sono viste e percepite come non umane, considerate soltanto come fonte di profitto. Molte donne che ho conosciuto hanno subito varie cose che non starò qui a menzionare. Nessuno sta denunciando la violenza che abbiamo vissuto. 

E’ in questo momento che avete deciso di far nascere il movimento Refugees in Libya?

Nell’ottobre 2021 il quartiere dove vivevo è stato accerchiato dalle milizie libiche e sono state prese persone, comprese le donne e i bambini, e sono state portate nei campi di detenzione. Molti rifugiati sono finiti in luoghi disparati ed erano in cerca di aiuto per denunciare una situazione terribile. Speravamo che i giornalisti potessero denunciare quanto stava accadendo e portare questi fatti di fronte alla Comunità internazionale, ma questo non stava avvenendo e non c’era la risposta di indignazione che ci aspettavamo. Perciò siamo andati noi al quartier generale di UNHCR, per richiedere una protezione effettiva ma la risposta è stata negativa. Abbiamo capito quindi che l’unico modo che avevamo per far conoscere la nostra situazione era l’autorganizzazione, e che era meglio lottare e morire piuttosto che essere sfruttati. 

Sono stata la prima persona ad andare sotto il quartier generale di UNHCR a Tripoli, poi piano piano sono arrivate altre persone: donne incinte e malate che nessuno stava aiutando. L’unica cosa che potevamo fare era stare lì seduti in sit-in ed è iniziata così la nostra protesta che è durata 3 mesi e 10 giorni. Le nostre richieste erano quelle di essere riconosciuti come esseri umani, sia da parte dell’Unione europea così come da parte del governo libico volevamo che ci venissero riconosciuti i nostri diritti umani. Ed inoltre chiedevamo di lasciare il Paese perché la Libia è un paese che non ci voleva e il nostro obiettivo era andarcene. 

Migliaia di persone non vengono dunque riconosciute, bensì sono obbligate a subire repressione, sparatorie, uccisioni. Abbiamo vissuto senza la possibilità di avere cibo e servizi igienici, abbandonati a vivere in maniera disumana. Da parte della Comunità internazionale c’è stato uno scarso interesse, Papa Francesco e poche altre persone e organizzazioni si sono interessate della nostra situazione. Una di queste è Mediterranea Saving Humans che ha cercato di comprendere e sentire il nostro dolore e fungere da cassa di risonanza.

Nei giorni successivi le milizie libiche sono arrivate a prenderci, hanno sgomberato il sit-in e ci hanno portato via. Molte delle persone che protestavano davanti la sede di UNHCR sono state riportate nei campi di detenzione. Le autorità libiche hanno iniziato a cercarmi proprio perché ero io l’organizzatore di queste proteste contro il governo libico così come contro quello italiano. Hanno fatto circolare le mie foto e miei video al fine di cercarmi, molti miei fratelli sono stati sparati e uccisi … 

Ribadisco che la migrazione è qualcosa di naturale per l’essere umano e che non può essere fermata.

Ho provato a chiedere anche al governo italiano un visto per poter entrare ma l’ingresso mi è stato negato.

La quinta volta che ho provato ad attraversare il Mediterraneo sapevo che sarebbe stato il punto di non ritorno: o sarei morto annegando nel mare oppure sarei stato nuovamente catturato e riportato indietro dove le milizie mi cercavano e mi avrebbero ucciso. Però questa volta ce l’ho fatta e una volta arrivato qui non ho dimenticato i miei fratelli e le mie sorelle e le loro sofferenze, ed è per questo che da quando sono sbarcato viaggio in giro per l’Italia per tentare di comunicare con politici ed istituzioni riguardo alla situazione in Libia.

Di cosa ti sei reso conto in questi mesi di permanenza in Italia e qual è lo scopo di questi incontri?

Le persone che arrivano a Lampedusa sono continuamente utilizzate come uno strumento da parte dei politici, in continuazione ascoltiamo brutte storie riguardo le persone migranti che arrivano e che vengono definite come invasori, criminali e stupratori.. ma vi sembro tutto ciò? Il nostro obiettivo è che la società italiana capisca cosa sta succedendo nel Sud globale, cosa succede alle frontiere, le restrizioni, le violenze, la loro esternalizzazione verso altri paesi.  

Le società italiana ed europea devono comprendere qual è la situazione, devono chiedersi come mai il passaporto europeo ha così tanto potere e perché le persone europee hanno la libertà di movimento, di muoversi in diversi paesi e invece noi del Sud globale non abbiamo questo privilegio, le nostre terre sono considerate solo zone dove estrarre risorse. L’Italia deve sapere che ci sono persone che continuano a morire nel Mediterraneo e nel deserto del Sahel dove ci sono ingenti interessi economici europei, dove viene estratto il petrolio. 

La responsabilità di tutto questo non è solo individuale ma è collettiva. Riguardo alle elezioni che si sono tenute poco fa, il dibattito verteva molto sulla questione migratoria perchè prima del governo Meloni ci sono stati i decreti Salvini, prima quelli di Minniti e il memorandum di intesa con la Libia che noi consideriamo un atto di terrorismo. L’Italia sta deliberatamente uccidendo delle persone, lo fa finanziando qualcun altro, in questo caso il governo libico, per farlo al posto suo. 

La società italiana deve sapere tutto questo… ribadisco che le migrazioni sono qualcosa di assolutamente naturale per l’essere umano.

Il deserto del Sahel e il Mediterraneo sono ormai diventati dei cimiteri, la società europea e italiana non possono accettare questa situazione, noi non siamo numeri ma persone normali che sono in cerca di una vita migliore, siamo dottori, studenti, professori, futuri e possibili imprenditori che appunto continuano a morire nel deserto, nel mare, nei campi di detenzione. 

La società che rimane in silenzio approva tutto questo ed è per questo che dobbiamo chiedere conto alle autorità per questa situazione disumana. 

Come pensi di continuare la lotta contro i confini e contro il patto tra l’Italia e la Libia da questa parte del confine?

Stiamo costruendo rete con le altre realtà con cui sono state fatte delle iniziative di protesta ad ottobre per denunciare il memorandum. A Milano, Napoli, Palermo e Roma e in altre parti di Europa, ci sono stati degli appuntamenti con l’obiettivo di denunciare questo sistema criminale.
L’obiettivo è quello di continuare ad andare in giro e di organizzare eventi e continuare a denunciare e sensibilizzare. Il 9 e 10 dicembre saremo a Ginevra in occasione della Giornata mondiale dei diritti umani con la Rete transnazionale “Solidarity with Refugees in Libya”. Abbiamo convocato una due giorni di sit-in davanti alla sede di UNHCR.

Dobbiamo chiedere ai governi un atto di responsabilità. Quando è scoppiata la guerra in Ucraina io mi trovavo in Libia e mi stavo nascondendo, e quando ho visto l’atto di solidarietà della società europea ed italiana nei confronti degli ucraini sono stato felice perché la solidarietà è connessa ad un atto di responsabilità. Ovviamente mi rendo conto che gli esseri umani percepiscono qualcosa solo quando è vicino e la guerra in Ucraina sembra più vicina geograficamente all’Europa rispetto a quello che sta succedendo nel Sahel o in altre parti dell’Africa. 

La differenza è che spesso la nostra Storia non viene raccontata.

Dobbiamo chiederci quali sono le cause della guerra in Libia, prima la Libia con Gheddafi era considerata un paradiso rispetto agli altri Paesi africani, poi la Nato ha distrutto tutto, questa situazione che sta avvenendo in Libia è una situazione che sta spaventando tutti i Paesi africani. L’Africa è un continente che non produce armi eppure i bambini vanno in giro con i kalashnikov al collo, queste armi sono prodotte e vendute dalla Germania, dall’Italia e dagli Stati Uniti.

Infine dovremmo continuamente ricordarci del perché le persone vogliono migrare, spesso non lo fanno per una libera scelta ma sono forzate a farlo. Tutti noi siamo responsabili di quello che sta accadendo, dobbiamo dar conto degli atti di umanità che dobbiamo portare avanti, anche coloro che hanno degli impedimenti fisici possono fare qualcosa nel loro piccolo. Le persone che arrivano dal Mediterraneo non hanno bisogno di supporto materiale ma principalmente di supporto emotivo, bisogna ascoltare e chiedere a loro quello che vogliono e di cosa hanno bisogno e quali sono i loro sogni.

1/12/2022 https://www.meltingpot.org

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