Declinazioni della favola. La lettura gramsciana di Carolina Invernizio

SCARPARO GRAMSCI

Angela Scarparo*

1.

Per Gramsci la letteratura ha avuto, come si sa, un ruolo centrale. Nelle sue varie forme (lettura e analisi di romanzi, di testi teatrali, di favole; scrittura di saggi, di recensioni, di diari, di lettere; traduzione di favole, saggi), ha svolto più funzioni nella vita e nel lavoro di questo autore: è stata cura di sé; ha avuto una funzione politica; è stata un metodo di lettura, di racconto e di critica del mondo; è stata anche fonte di reddito, un lavoro, la passione in cui ci si identifica. Vediamole allora, brevemente, queste funzioni.
La cura di sé: è innegabile che per Gramsci la letteratura sia stata una modalità per superare i tanti, enormi, momenti di difficoltà della sua esistenza. La letteratura come strumento, quindi, per non perdersi. In una lettera del 27 agosto 1928, a riprova di quanto i libri gli siano necessari, scrive: «Ciò che mi ha reso duro il carcere, finora (a parte tutte le altre privazioni che sono portate dalla mia situazione) è stato l’ozio intellettuale». Molte altre volte – e con Piero Sraffa e la cognata Tatiana, più che con altri – Gramsci farà riferimento a questo suo fortissimo legame con libri e autori: un legame quasi salvifico. Non è esagerato dire che in Gramsci sono chiarissimi i riferimenti – a nomi e autori – cui si è ispirato, durante il corso della vita, nel costruire la propria personalità: pensiamo a Novalis e alla sua idea di autoconsapevolezza. Ne accennerò più avanti.
La seconda funzione: letteratura e politica. Come si associano nel discorso gramsciano? Già da giovanissimo, Gramsci è appassionato di romanzi. Attraverso la madre, Peppina Marcias, riceve in regalo una piccola biblioteca, quando è ancora un adolescente: «[…] forse un’insegnante lasciò ad Antonio infatti in eredità una intera collezione di libri per ragazzi. “C’erano Robinson Crusoè, La capanna dello zio Tom e molti altri”, ricordava la sorella».
L’esercizio intellettuale che riesce, continuamente, a compiere consiste proprio nel dare a questa sua passione per le storie, per le individualità che esse descrivono, per le soggettività al lavoro che contengono, un preciso indirizzo, una funzione di tipo critico che va oltre lo studio, o la semplice lettura. Perché dico questo? Gramsci associa la letteratura alla politica: le mette assieme, come strumento di trasformazione del mondo. Però, diversamente da molti suoi contemporanei è alla letteratura che dà una funzione etica, educativa, e non alla politica.  E tutto ciò in un ambito, quello culturale a lui contemporaneo, in cui vigeva il crocianesimo (che è cosa diversa dalla filosofia di Croce). Vigeva cioè l’idea che l’estetica è prevalente sull’etica; che l’essere umano, in generale, non è altro che una sorta di ricettacolo di intuizioni e di impressioni; che l’artista (il poeta) è la figura prescelta a identificare parole e linguaggio adeguati ad esprimere intuizioni e sentimenti.
Per Gramsci non sarà così. La sua passione per il racconto – e per le modalità espressive che implica – diventerà invece una straordinaria potenzialità liberatoria e rivoluzionaria. Che cosa fa, quindi? Senza rinunciare a una seria analisi del linguaggio, pensa alla letteratura (alle storie, alle narrazioni, al teatro, alle favole) come a uno degli strumenti reali di critica e di trasformazione dell’esistente. Per far questo, fa saltare ogni scala di valori (potremmo chiamarlo il canone?). Secondo Gramsci, il romanzo classico ottocentesco ha moltissimi punti di contatto col romanzo d’appendice. I romanzi nascono per rispondere al bisogno di illusione che gli esseri umani hanno. Gramsci lo dice espressamente nel paragrafo 29 del Quaderno 17: «Il romanzo d’appendice, secondo il Moufflet, è nato dal bisogno di illusione […]. Osservazione generica: si può fare per tutti i romanzi e non solo d’appendice».
Ci sono elementi del romanzo d’appendice in Balzac, quindi; così come in Invernizio è possibile trovare modalità da romanzo classico. Detto altrimenti, il romanzo (poco importa che sia classico o d’appendice) è visto da Gramsci come uno strumento di lettura e di trasformazione del mondo. Uno strumento con modalità educative, politiche, oltre che naturalmente letterarie in senso stretto: uno strumento che crea comunità, le allarga; che diffonde passione e divertimento; ma, soprattutto che nutre l’illusione, senza la quale è da considerarsi impossibile qualsiasi cambiamento. Perché solo l’illusione può provare a «rompe[re] la grama monotonia a cui si vedono condannate» tante esistenze.
Il romanzo come strumento di cui più di un popolo si è servito e si servirà. È stato così in Francia, in Inghilterra, in Russia. Non in Italia, dove, dice:

[…] i sentimenti popolari non sono vissuti come propri dagli scrittori, né gli scrittori hanno una funzione «educatrice nazionale», cioè non si sono posti e non si pongono il problema di elaborare i sentimenti popolari dopo averli rivissuti e fatti propri.

Lo afferma nel Quaderno 21.  Da noi, gli intellettuali sono slegati dal «popolo»: vedremo, più avanti come e perché.
Terzo elemento che lo rende nostro contemporaneo: nella sua vita la letteratura – mai abbandonata, in realtà – diventa, sin da subito, una seconda natura.  Che cosa voglio dire? Ho qui una lettera del 1926, una lettera famosa (USTICA, 9 XII, 1926, porta scritto l’intestazione dell’autore).
Gramsci è stato trasferito da Palermo a Ustica. È al confino, in una situazione molto drammatica, come possiamo immaginare; durante la traversata c’è stato cattivo tempo; il viaggio è stato pesante; l’equipaggio è stato costretto ad affrontare una sorta di tempesta. Cosa diventerà, di mitico, questo itinerario, nella memoria sua e nostra, è la lettera a ricordarcelo. Nello scrivere, rivolgendosi alla cognata Tatiana, Gramsci userà raramente una terminologia di uso quotidiano, un linguaggio comune; prenderà invece a prestito i nomi dei protagonisti di alcune opere che ama o situazioni letterarie che ben conosce e che la traversata gli ispira:

[…] il viaggio è stato interessantissimo e ricco di motivi diversi, da quelli shakespeariani a quelli farseschi: non so se potrò riuscire, per esempio, a ricostruire una scena notturna nel transito di Napoli, in un camerone immenso, ricchissimo di esemplari zoologici fantasmagorici; credo che solo la scena del becchino nell’Amleto possa eguagliarla.

E, ancora, qualche riga dopo:

Siamo assolutamente separati dai coatti comuni, la cui vita non saprei descriverti con brevi tratti: ricordi la novella di Kipling intitolata: Una strana cavalcata nel volume francese L’uomo che volle essere re. Mi è balzata di colpo alla memoria tanto mi sembrava di viverla. Finora siamo 15 amici.

Questo è la modalità espressiva, queste le figure di cui si serve, per raccontare la sua esperienza. Per Gramsci, parlare prendendo a prestito personaggi e situazioni letterarie, servendosi di una terminologia che ha più a che fare con il romanzo, con l’elemento fantastico, con la letteratura, che con la comunicazione di dati e fatti in senso stretto, è cosa sovente; in questo periodo, soprattutto. Sembra quasi una modalità per far fronte a una quotidianità che sta diventando sempre più drammatica.  Anche qui, pensandolo come nostro contemporaneo mi è venuto in mente come, molti di noi, oggi si esprimano attraverso le figure degli sceneggiati televisivi, dei film, dei romanzi che vedono o leggono.
Certo, fra noi e Gramsci corrono anni di innovazioni tecnologiche. Pensiamo alla straordinaria mole di capitale culturale, e quindi di personaggi, autori, situazioni, storie, con cui siamo continuamente a contatto, ma ciò non toglie che a lui sia riuscita una operazione: che lui abbia, cioè, identificato una modalità, un’attitudine esistenziale, una pratica che, tipica nel romanzo “borghese” (pensiamo alla identificazione di Don Chisciotte nel Cavaliere Errante, o di Emma Bovary nelle figure femminili dei romanzetti che legge: identificazione che avrà conseguenze nefaste in entrambi i casi) è diventata oggi comune ai lettori e alle lettrici (agli spettatori e alle spettatrici). Una pratica che consiste nel vivere in uno stato di assimilazione identitaria con personaggi e modelli scelti, o imposti, dalle mode e per un periodo più o meno lungo – forse quanto durano i prodotti culturali.
C’è una quarta attitudine che ci rende caro Gramsci: non rinuncerà mai alle sue passioni.  Da ragazzo ha gli stessi interessi che ha quando, nel 1937, muore. Al riguardo, vale la pena riportare un lungo brano tratto da uno scritto del 1916, che si inserisce nella polemica fra Tasca e Bordiga sul ruolo della cultura come strumento per agevolare la rivoluzione e contro lo spontaneismo delle masse. Scrive:

È attraverso la critica della civiltà capitalistica che si è formata o si sta formando la coscienza unitaria del proletariato, e critica vuol dire cultura, e non già evoluzione spontanea e naturalistica. Critica vuol dire appunto quella coscienza dell’io che Novalis dava come fine della cultura. Io che si oppone agli altri, che si differenzia, e essendosi creata una meta, giudica i fatti e gli avvenimenti oltre che in sé e per sé anche come valori di propulsione e di repulsione. Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina a un ideale. E non si può ottenere ciò se non si conoscono anche gli altri, la loro storia, il susseguirsi degli sforzi che essi hanno fatto per essere ciò che sono, per creare la civiltà che hanno creato e alla quale noi vogliamo sostituire la nostra.  Vuol dire avere nozioni di cosa è la natura e le sue leggi per conoscere le leggi dello spirito. E tutto imparare senza perdere di vista lo scopo ultimo che è di meglio conoscere se stessi attraverso gli altri e gli altri attraverso se stessi.

La funzione educativa, quindi, e di conoscenza di sé cui la letteratura dà accesso, la troviamo già bene espressa in questo brano giovanile.
In questa funzione, Gramsci, come sappiamo, crederà tutta la vita. E se è vero che nel 1927 egli identifica nel «romanzo» (e in quello «di appendice», in particolare) uno dei possibili strumenti per portare a termine parte di questo progetto, nonché per riflettere sulla relazione che gli intellettuali italiani hanno (e hanno avuto) col popolo, è altrettanto vero che nel 1916 la connessione logica esiste già.

2.

Perché sceglie proprio il «romanzo d’appendice»? Come abbiamo detto, Gramsci non pensa che esista una vera differenza fra i «generi». In Francia, in Inghilterra, e, in qualche modo, anche in Russia, il romanzo, come forma narrativa, è legato alla rappresentazione della vita del popolo, alle grandi trasformazioni politiche, economiche, alle rivoluzioni culturali e spirituali.  Pensiamo a Balzac e al tema dell’ascesa sociale; a Dickens e al mondo raccontato dal punto di vista dei bambini, e per i bambini; a Dostoevskij e alle riflessioni sulla religiosità popolare. Gramsci è perciò convinto che il romanzo possa essere un grande strumento «educativo», ma vuole capire come e perché il fenomeno abbia funzionato negli altri paesi, identificando inoltre i motivi per cui da noi, invece, questo processo è saltato. Di conseguenza, egli cerca autori e narrazioni che, col popolo, hanno più stretti legami; studia «il melodramma» come categoria che si è imposta in Italia; si sofferma su un articolo di Sorani uscito su “Pegaso”, attorno al 1930, e dedicato al «poliziesco». Scrive:

Il Sorani schizza un quadro della inaudita fortuna del romanzo poliziesco in tutti gli ordini della società e cerca di identificarne la causa: sarebbe una manifestazione di rivolta contro la meccanicità e la standardizzazione della vita moderna, un modo di evadere dal tritume quotidiano.

Il periodo della vita di Gramsci attorno agli anni ’30 è molto drammatico e intenso. Le costruzioni intellettuali arrivano a una veloce configurazione, i temi che lo appassionano da tanti anni trovano, adesso, un punto di condensa. La spinta a lavorare sta nel male fisico, nella censura, che lo tormentano. Anche il suo tono cambia: diventa sempre più sarcastico, distaccato. A chi si rivolge, nei suoi scritti? Ciò che gli sta a cuore sono gli oppressi; i loro gusti in fatto di cultura; il modo in cui vivono; come si esprimono; le differenze fra un periodo e l’altro. Tra gli oppressori troviamo, invece, gli «intellettuali di professione», con cui Gramsci identifica (nel Quaderno 8) coloro che hanno una cultura specialistica e di cui dice (nel Quaderno 21) che «sono legati a una tradizione di casta […] non [sono] un’articolazione, con funzioni organiche, del popolo stesso».
A questo proposito si chiederà, più avanti, che senso abbia la filosofia se non trova la sorgente dei problemi da studiare nel contatto coi «semplici»:

[…] un movimento filosofico è tale solo in quanto si applica a svolgere una cultura specializzata per ristretti gruppi di intellettuali o è invece tale solo in quanto […] non dimentica mai di rimanere a contatto coi «semplici» e anzi in questo contatto trova la sorgente dei problemi da studiare e risolvere?

Su questo tema Gramsci insiste, come mostra la lettera del 7 gennaio 1927, che si configura alla stregua di una prefigurazione. È molto diversa da quella del ’26. Anche se è passato solo un anno, qui il tono è tragico. Gramsci si muove poco e pensa quindi diversamente. Non riesce ad avere i libri di cui ha bisogno, soffre, trova ingiusto dover subire il carcere e la malattia. Scrive:

Purtroppo, nella condizione in cui devo vivere, i capricci nascono da soli: è incredibile come gli uomini costretti da forze esterne a vivere in modi eccezionali e artificiali sviluppino con particolare alacrità tutti i lati negativi del loro carattere. Specialmente gli intellettuali, o, per meglio dire, quella categoria di intellettuali che in italiano volgare si chiamano mezze calzette. I più calmi, sereni e misurati sono i contadini; poi vengono gli operai, poi gli artigiani, quindi gli intellettuali, tra i quali passano raffiche improvvise di follia assurda e infantile. Parlo naturalmente dei confinati politici, non dei coatti comuni, la cui vita è primitiva ed elementare e nei quali le passioni raggiungono, con rapidità spaventosa, i culmini della pazzia: in un mese si son verificati tra i coatti comuni cinque o sei fatti di sangue.

Notiamo le parole che usa: capriccio, dice. Che cosa è il capriccio, se non una modalità che fa assomigliare l’adulto a un bambino? Il capriccio è sempre generato dal disagio, anche in età adulta. Il disagio: quale è la categoria di esseri umani meno adatta a gestirlo? Gli intellettuali, dice, e in particolare «quella categoria di intellettuali che in italiano volgare si chiamano mezze calzette». Chi i più misurati? I contadini. C’è una corrispondenza, in loro, tra ritmi naturali e ritmi imposti dal lavoro, che porta a un equilibrio tutt’altro che precario.
Non abbiamo tempo di passare in rassegna tutte le figure analizzate, né tanto meno di riflettere sull’osservazione: «fra gli intellettuali passano raffiche improvvise di follia assurda e infantile». Sappiamo però che, proprio parlando di letteratura nazionalpopolare, Gramsci troverà il modo di ribadire, ancora, il motivo per cui disprezza l’intellettuale italiano: «[…] si sente più legato ad Annibal Caro o a Pindemonte, che al contadino pugliese o siciliano», dice. «In Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla “nazione” e sono invece legati a una tradizione di casta», ripete. Di quelli cattolici, dirà:

Colpisce il fatto che nel campo del romanzo o delle narrazioni avventurose i cattolici non abbiano avuto una maggiore letteratura e una maggiore fortuna: eppure essi avrebbero una sorgente inesauribile nei viaggi e nelle vite avventurose dei missionari.

Dei laici:

Hanno fallito il loro compito storico di educatori e di elaboratori della intellettualità e della coscienza morale del popolo nazione. Non hanno saputo dare una soddisfazione alle esigenze intellettuali del popolo.

È categorico: gli intellettuali italiani hanno mancato alla loro funzione educativa. Certo, ci sono dei motivi: in Italia, l’intellettuale nasce ecclesiastico, lavora al servizio della Chiesa e delle corti, si sceglie cosmopolita – se può, anche ozioso – ed è raramente indipendente. Il letterato, afferma Gramsci nel Quaderno 6,

rivendica il diritto di stare in «ozio» («otium et non negotium»), di viaggiare, di fantasticare, senza preoccupazioni di carattere economico. Questo modo di pensare è legato al mecenatismo delle corti, male interpretato del resto, perché i grandi letterati del Rinascimento, oltre a scrivere, lavoravano in qualche modo.

Peraltro, povero intellettuale, non è aiutato dalla lingua: «l’italiano», come si sa, è arrivato tardi; così che anche il «tecnico», come la gente del popolo, quando deve esprimersi, indossa la lingua con qualche difficoltà («monta sui trampoli»), invece di starci dentro comodamente. Lo dice, bene, nel Quaderno 14:

Questa «malattia» è talmente diffusa che si è attaccata al popolo, per il quale infatti «scrivere» significa «montare sui trampoli», mettersi a festa, «fingere» uno stile ridondante, ecc., in ogni modo esprimersi in modo diverso dal comune; e siccome il popolo non è letterato, e di letteratura conosce solo il libretto dell’opera ottocentesca, avviene che gli uomini del popolo «melodrammatizzano».

Insomma, mentre il romanzo (e il feuilleton in particolare), in Francia, ha contribuito alle rivoluzioni, così come in Inghilterra ha viaggiato fianco a fianco con lo sviluppo dell’industria, raccontandone cambiamenti e modifiche, in Italia scrittori e popolo hanno melodrammatizzato e, forse, ancora oggi continuano a farlo.

3.

Le tematiche affrontate nei paragrafi precedenti mi permettono di parlare della Invernizio come autrice di favole. Quale il legame fra l’autrice di Voghera e l’autore sardo? Quale il giudizio che lui dà di lei?
La definizione è famosa: «onesta gallina della letteratura popolare». Qualcuno dice, ancora oggi, che si tratta di una definizione offensiva. Non credo. Certo non gentile. Ma Gramsci si riferiva alla grande capacità di generare romanzi che Invernizio ha. Un altro «critico», meno educato, redattore del settimanale Avanguardia, Bruno Cassinelli, l’aveva definita «conigliesca»: ecco l’origine. La scrittrice nasce nel 1851, muore nel 1916 ed è di straordinaria capacità seduttiva. È una narratrice di successo, che scrive romanzi di appendice con tutto quello che riguarda il «genere».
Qual è il fine del romanzo di consumo – come lo chiama Antonia Arslan, in un suo libro fondamentale – e in che cosa si differenzia dal romanzo classico? La vendita, il pubblico. Il feuilleton nasce quando nasce «il mercato». Uno dei modi per arrivare al pubblico – e quindi per vendere – sta nel coinvolgerlo: la seduzione del lettore. Per il romanzo d’appendice non hanno senso le domande riguardanti la «qualità estetica, letteraria» del testo. Tutto è finalizzato. Chi lo scrive deve essere capace di trascinare i lettori, le lettrici, di emozionarli. È una sorta di guerra, dove tutto è permesso.
Dai fatti di cronaca all’uso del dialetto, dall’analisi di casi patologici all’indagine del fatto scientifico; e non fa niente se si corre il rischio della superficialità, anche se estrema. Tutto ciò che è estremo si addice, in realtà, al romanzo di consumo, fra le cui caratteristiche fondamentali vi è anche quella di «rubare» temi e modalità narrative dagli altri «generi», al fine di semplificare e rendere più interessante la lettura.
Quando e perché Gramsci parla dell’Invernizio? Fra gli italiani, non sono molti, secondo lui, i romanzieri e le romanziere deputati a sostenere, se non il confronto con Dickens (che è stato capace di creare una nuova Londra nella nostra immaginazione) o con Balzac (che per Gramsci è addirittura un teorico della letteratura), almeno con «il genere». E, soprattutto, non sono molti gli autori capaci di stabilire una connessione sentimentale con il popolo. Ci riesce Invernizio, assieme a Mastriani e a Guerrazzi: «Dopo il Mastriani e l’Invernizio mi pare che siano venuti a mancare tra noi i romanzieri capaci di conquistare la folla facendo inorridire e lacrimare un pubblico di lettori ingenui, fedeli e insaziabili», dice.
La chiama, quindi, in causa mentre è alla ricerca di esempi fra gli scrittori italiani (cattolici o laici che siano), e per proclamare il fallimento di questi ultimi nel tentativo, se mai ci sia stato, di stabilire un legame con i lettori e le lettrici. Il che non sorprende: Invernizio è una scrittrice che scrive per il grande pubblico e il pubblico la premia. La premia numeroso. Del resto, come dice Arslan,

Un romanzo popolare non è un romanzo incompreso: o esiste – e allora ha lettori, dai quali viene recepito ai quali dà piacere – o non esiste, semplicemente, che come un manufatto non riuscito, senza funzione alcuna.

Che cosa altro interessa a Gramsci di Invernizio? Torniamo un attimo all’articolo di Sorani concernente il «poliziesco». Il pubblico vi si dedica per evadere dalla quotidianità, dice. Questa evasione si basa su molti aspetti, fra cui uno, particolarmente importante: i soggetti sono raramente appiattiti su una sola identità. Questo tema, dal punto di vista politico, è (e sempre più) sarà fondamentale, per la funziona liberatoria che porta con sé. Perché? Perché attraverso di esso ci viene raccontato che si può essere dei criminali, dei fuorilegge (pensiamo a Vautrin de I Miserabili) e contemporaneamente lavorare a fin di bene. Ci viene detto che si può essere operai e vittime del padrone, e, contemporaneamente, eroi di una rivolta. Si può essere vittime durante un periodo della propria vita e guerrieri, che lottano per cambiare il proprio destino, durante un altro periodo. Gramsci pensa che la soggettività non sia un destino immutabile e che dunque si possa venir meno ad essa. Il romanzo permette la svolta, la rivoluzione, il cambio di marcia nelle vite dei singoli. Niente è per sempre. Ed è proprio questo continuo cambiamento, questa andatura a sorpresa, ciò che induce nel lettore la famosa domanda: «Ed ora, cosa succederà, ora?», requisito fondamentale per qualsiasi romanzo d’appendice che si rispetti. La forma romanzo (in tutte le sue articolazioni e generi) è insomma ciò che serve, lo strumento più utile, per contribuire a riportare nell’esistenza dei singoli una libertà possibile, sottraendoli al meccanismo identitario. Come?
Carolina Invernizio, certo, non è Victor Hugo, ma è capace di far evadere il lettore e la lettrice dalla quotidianità. Secondo Gramsci, l’essere umano non ha possibilità di sopravvivenza senza l’immaginazione. Non può farcela il bambino, che ne ha bisogno per vedersi più forte e più potente di quel che non sia rispetto agli adulti. E a questo serve il meccanismo del gioco, a creare un’identità artificiale, più grande e forte di quella reale. I bambini, infatti, soffrirebbero se si rendessero conto della loro debolezza effettiva, della loro piccolezza e fragilità rispetto agli adulti. Nello stesso modo, senza la fantasticheria, come la chiama Gramsci, non può farcela l’adulto: non ha la possibilità di intravedere per sé un futuro diverso – e uscire così dalla propria soggettività – se prima non lo immagina. Ed è a questo proposito che compie un’affermazione fondamentale anche dal punto di vista politico, oltre che letterario in senso stretto:

Il romanzo d’appendice sostituisce (e favorisce nel tempo stesso) il fantasticare dell’uomo del popolo, è un vero sognare ad occhi aperti. Si può vedere ciò che sostengono Freud e i psicanalisti sul sognare ad occhi aperti. In questo caso si può dire che nel popolo il fantasticare è dipendente dal «complesso di inferiorità» (sociale) che determina lunghe fantasticherie sull’idea di vendetta, di punizione dei colpevoli dei mali sopportati.

Certo, Gramsci ha parlato anche di «oppio dei popoli» a proposito dei romanzi; di un meccanismo, cioè, che potrebbe portare all’alienazione. Ma dobbiamo tenere presente, prima di tutto, la modalità con cui scriveva: prendeva appunti su tutto ciò che gli pareva interessante e utile. Da ciò ne consegue che solo da un giudizio complessivo si possa trarre l’esatto peso conferito da Gramsci all’esperienza letteraria. Comunque sia, una cosa è certa: Carolina Invernizio ha questa capacità di trascinare il lettore fuori di sé. Cerchiamo allora di capire come fa: quali sono la lingua e le tecniche adottate. In una parola, che cosa la renda autrice.
Per prima cosa si serve di un italiano particolarmente semplice. La sua intenzione è quella di tenere costantemente in mano i fili dell’attenzione di chi legge. Lavora, quindi, sulle frasi: le costruisce brevi, poco articolate. È veloce nei dialoghi che, spesso, si servono del linguaggio parlato. Inserisce nel testo brani di lettere e diari e qualche volta prova anche col dialetto, avvalendosi di tutto ciò che possa creare una maggiore complicità con chi la segue e compiendo, a modo suo, una sorta di modernizzazione della lingua italiana. Inoltre, non ha paura delle trame a effetto e non bada troppo alla verosimiglianza. Ecco perché non stupisce che abbia scritto 130 romanzi in poco più di 40 anni: il che significa 3/4 romanzi l’anno. Alcuni testi somigliano a cronache giornalistiche tirate per le lunghe, altri sono storie che iniziano sì come romanzi, con la cavalcata lunga, ma che si esauriscono in poche pagine, senza diventare mai racconti. L’unico aspetto che accomuna questi testi è l’italiano: semplificato e leggibilissimo, a volte; più lirico, altre.
In mezzo a tanti volumi scritti per fare cassa, ne troviamo tuttavia almeno tre o quattro che vale la pena leggere. Oltre a Il bacio di una morta (1886) e La vendetta di una pazza (1894), vorrei ricordare almeno I ladri dell’onore (1894) e I sette capelli d’oro della fata Gusmara (1909), che peraltro è una vera fiaba. In essi, la scrittrice mostra non solo di avere un vero talento per la descrizione, ma anche, come dice Gramsci, di saper usare con grande abilità tutti i luoghi comuni della letteratura di consumo. E a questo proposito, vorrei parlare brevemente dei Ladri dell’onore, che è veramente una favola per adulti. Perché?
La Invernizio, in tutti i suoi romanzi, ripete un meccanismo narrativo la cui efficacia è assicurata: il buono è contrapposto al cattivo; l’eroina vessata sarà salvata solo dopo molte peripezie e, a volte, anche a costo del sacrificio di uno dei personaggi che l’hanno accompagnata nel corso della storia; vi è quasi sempre il tema della famiglia e non è raro che vi siano parenti perversi.  Ora, nei Ladri dell’onore, lungo più di mille pagine, il meccanismo presenta un’articolazione leggermente maggiore, nel senso che ci sono «storie nelle storie»: i buoni si contrappongono sì ai cattivi, ma ognuno di loro ha intorno un vero e proprio «coro» che, in qualche modo, finisce per svolgere la funzione di «commentario». Non c’è dubbio che Invernizio inserisca questi personaggi di contorno per aumentare il numero delle pagine, ma essendo una scrittrice (e una donna) intelligente dà loro una funzione di tipo «morale».  Sono questi personaggi minori a suggerire a noi lettori, attraverso dialoghi e discorsi, dove stiano la bontà, la cattiveria, la mansuetudine, la corruzione, l’avidità, così che si potrebbe fare quasi una rubrica, un vero e proprio breviario dei vizi e delle virtù sparsi nel libro. Oltre a queste caratteristiche, Invernizio possiede un’autentica capacità di tenere desta la suspense, anche attraverso una descrizione articolata di perversioni e patologie di tipo psichiatrico e fisico, tant’è vero che di lei è rimasto (quasi) solo il gusto per l’estremo. Ciò nonostante, Invernizio è spesso descritta dalla critica come una sostenitrice della famiglia, dell’ordine familiare e del rigore morale. Ora, se è vero che nelle conferenze cui partecipava (alla figura della narratrice, in senso stretto, ha sempre affiancato quella dell’oratrice), sosteneva discorsi piuttosto conservatori (era dichiaratamente cattolica), è anche vero che ciò che maggiormente emerge nelle sue parole e nei suoi scritti è il diritto di «ogni creatura ad essere accettata per quello che è».
Resta comunque il fatto che Invernizio è più avanzata di quel che non sembri, pur essendo, per certi aspetti, considerata una «conservatrice». Non è perciò un caso che Gramsci indentifichi in lei una forma di modernità: «un romanzo non sta in ciò che racconta, ma nella forma con cui comunica», sembra dirci. Vediamo perché.
La trama dei Ladri dell’onore ruota attorno a una donna anziana, La Rava (cattivissima, di sgradevole aspetto, persino il suo nome suona spiacevole) che, in una Torino cupa, piena di vie buie dove il crimine si nasconde, ha venduto la nipotina (figlia di sua figlia Gin) a un uomo molto ricco (Attilio Morra). Da questo evento prende il via una storia di povertà e disperazione, che, dice l’autrice, è «ispirata a fatti di cronaca». Seduzione, coraggio dei protagonisti, riscatto, amicizia fra donne, il tema familiare, articolazione della trama, sensazionalismo sono i temi e le modalità che tengono assieme il tutto.
Articolazione della trama: quando il romanzo inizia La Rava sta morendo. Quella che sembra una scena di amor filiale si rivelerà altro: Gin, una donna gobba, assiste la madre nel passaggio per l’aldilà solo perché vuole capire dove sia finita la sua figlioletta; e per buona parte della storia continuerà a cercarla. Seduzione: non c’è solo quella violenta da cui prende il via la storia. Varie sono le circostanze in cui si seduce, così come i personaggi che ne sono, di volta in volta, vittime o artefici. Tutti giri di giostra che impediscono a lettori e lettrici di abbandonare il testo. Attilio, nonostante sia sposato, si dà da fare con quasi tutte le donne che incontra. Sua moglie Sofia non è da meno: la loro figlia, Margherita, è frutto di una relazione adulterina. Coraggio femminile: non manca. Lorenza, la bambina rapita e cresciuta in un orfanotrofio, cercherà da adulta di restituire la libertà a se stessa e a una coetanea, che rischia di perderla. Riscatterà anche la madre Gin. Amicizia fra donne: Sofia sarà complice di Gin, non del marito, e Lorenza trova nell’amicizia femminile una modalità esistenziale. Come non pensare a un legame di Invernizio col femminismo di allora? Sensazionalismo: condisce il tutto e deriva, forse, anche dalla scelta di attingere temi e personaggi familiare e del rigore morale. Ora, se è vero che nelle conferenze cui partecipava (alla figura della narratrice, in senso stretto, ha sempre affiancato quella dell’oratrice), sosteneva discorsi piuttosto conservatori (era dichiaratamente cattolica), è anche vero che ciò che maggiormente emerge nelle sue parole e nei suoi scritti è il diritto di «ogni creatura ad essere accettata per quello che è».

Resta comunque il fatto che Invernizio è più avanzata di quel che non sembri, pur essendo, per certi aspetti, considerata una «conservatrice». Non è perciò un caso che Gramsci indentifichi in lei una forma di modernità: «un romanzo non sta in ciò che racconta, ma nella forma con cui comunica», sembra dirci. Vediamo perché.

La trama dei Ladri dell’onore ruota attorno a una donna anziana, La Rava (cattivissima, di sgradevole aspetto, persino il suo nome suona spiacevole) che, in una Torino cupa, piena di vie buie dove il crimine si nasconde, ha venduto la nipotina (figlia di sua figlia Gin) a un uomo molto ricco (Attilio Morra). Da questo evento prende il via una storia di povertà e disperazione, che, dice l’autrice, è «ispirata a fatti di cronaca». Seduzione, coraggio dei protagonisti, riscatto, amicizia fra donne, il tema familiare, articolazione della trama, sensazionalismo sono i temi e le modalità che tengono assieme il tutto.

Articolazione della trama: quando il romanzo inizia La Rava sta morendo. Quella che sembra una scena di amor filiale si rivelerà altro: Gin, una donna gobba, assiste la madre nel passaggio per l’aldilà solo perché vuole capire dove sia finita la sua figlioletta; e per buona parte della storia continuerà a cercarla. Seduzione: non c’è solo quella violenta da cui prende il via la storia. Varie sono le circostanze in cui si seduce, così come i personaggi che ne sono, di volta in volta, vittime o artefici. Tutti giri di giostra che impediscono a lettori e lettrici di abbandonare il testo. Attilio, nonostante sia sposato, si dà da fare con quasi tutte le donne che incontra. Sua moglie Sofia non è da meno: la loro figlia, Margherita, è frutto di una relazione adulterina. Coraggio femminile: non manca. Lorenza, la bambina rapita e cresciuta in un orfanotrofio, cercherà da adulta di restituire la libertà a se stessa e a una coetanea, che rischia di perderla. Riscatterà anche la madre Gin. Amicizia fra donne: Sofia sarà complice di Gin, non del marito, e Lorenza trova nell’amicizia femminile una modalità esistenziale. Come non pensare a un legame di Invernizio col femminismo di allora? Sensazionalismo: condisce il tutto e deriva, forse, anche dalla scelta di attingere temi e personaggi dai «fatti di cronaca». Il meccanismo di evasione di cui parla Gramsci a proposito del poliziesco è tenuto in vita, e nonostante che, a volte, chi legge conosca i retroscena. La famiglia: anche qui Invernizio dimostra di essere più moderna di quanto non appaia. Lo dico perché anche se alla fine dei suoi romanzi si ristabilisce un nucleo familiare – ed è evidente, quindi, la scala di valori dell’autrice – è anche vero che il nucleo che troviamo alla fine del romanzo – in questo come in altri – non è lo stesso dell’inizio della storia: è una famiglia di persone che si scelgono; diversa quindi da quella tenuta assieme da legami di sangue. Quello che viene rispettato è spesso un ordine apparente, cioè i ruoli sono occupati da soggetti esterni al nucleo primario: persone che si conoscono e si riconoscono durante lo svolgersi della vicenda; soggetti che decidono di essere felici e che, suggerisce l’autrice, a quella felicità hanno diritto. Inoltre, i personaggi inverniziani, per pervenire alla (nuova) famiglia ed essere al sicuro, devono superare difficili prove, staccarsi dalle persone amate, tener fede a uno o più impegni presi, superare un conflitto interno, oltre che esterno: devono cambiare. Il meccanismo è quello tipico della favola, sorretto qui da un reticolato autonomo e intelligente di riflessioni sulle singole motivazioni e sugli aspetti psicologici, nonché dalla capacità dell’autrice di creare comunità, gruppi sociali. Il lettore appassionato sta, che lo voglia o no, sempre dentro una comunità, ne fa parte; e questo ha conseguenze politiche, come suggerito più volte da Gramsci.

Giunti a questo punto, vorrei concludere riportando un brano tratto dai Ladri dell’onore, che mi permette di esemplificare brevemente ciò che Gramsci sostiene sulle caratteristiche della scrittura e delle modalità narrative, non solo di Invernizio, ma del romanzo d’appendice in generale. Nella scena che segue le guardie vanno a prendere Lorenza, accusata di assassinio. Noi lettori sappiamo che non è stata lei: assistiamo quindi, impotenti, all’arresto di una giovane innocente, nata peraltro da una violenza sessuale. Lorenza, tuttavia, è una esperta lettrice; conosce quindi il meccanismo della fantasticheria, lo pratica e si salverà attraverso di esso. Siamo di fronte dunque al meccanismo psicologico che Gramsci indica come adatto a restituire, al lettore che la cerchi, un po’ di consapevolezza di sé. Siamo, qui, al passaggio dalla teoria alla messa in pratica. Racconta infatti Invernizio:

Pettinò da se stessa la sua stupenda capigliatura, torcendola, riunendola in una sola treccia, che avvolse in più giri attorno al capo, e sostenne con un pettine traforato, alla Carmen. Indossò un mantello pure nero, guarnito di pelliccia, un cappello di feltro, che le adombrava gli occhi abbattuti, poi disse bruscamente, a voce alta: «Quando vogliono andare, io sono pronta». Colle labbra strette, il cuore gonfio, ella guardò quegli uomini, che rovistavano senza ritegno nel cassettone, esaminando minutamente ogni cosa. Ed alcuni ricordi, sopiti in fondo all’anima, le si affacciavano alla mente. Si rammentava l’impressione provata alla lettura di un libro, che trattava appunto di una giovane innocente, accusata di assassinio. Quanti insulti, angherie, umiliazioni, aveva quella poveretta sofferto prima che venisse in chiaro la sua innocenza! Tutto si ritorceva contro di lei: le cose in apparenza, le più semplici, le tornavano a carico: tutti avevano creduto alla sua colpabilità. Avverrebbe altrettanto di lei?».

Finirà bene.
Vorrei, a questo punto, fare ai relatori e alle relatrici, una domanda, che riguarda il personaggio-Gramsci, l’appassionato di romanzi. Mi chiedo, ogni tanto, cosa sarebbe successo se, durante le rivoluzioni del ’68 e del ’77, del nostro autore si fosse parlato anche come di persona polemica, grande esperto di trame e racconti, esaltatore della funzione conoscitiva e dell’attività immaginativa, quale in realtà lui era. Cosa, se, invece del burocrate tutto d’un pezzo avessimo scoperto, noi, giovanissimi allora, l’essere umano costretto a fare uso di stupefacenti per sopportare il dolore?

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Anticipazione pubblicata nell’inserto CULTURA/E del periodico cartaceo Lavoro e Salute – settembre 2019 www.lavoroesalute.org

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